DOPOVIRUS E RIVOLUZIONE COMUNISTA: USCIRE DALLA PRODUZIONE DI MERCI. AFFINCHÉ NIENTE TORNI COME PRIMA (TRANNE RIABBRACCIARCI).

Raul Mordenti

“Ni olvido ni perdòn”

1. Sono doppiamente grato ai compagni e alle compagne di “Militant”: una prima volta per avermi invitato a partecipare al loro importante seminario di studi marxisti e gramsciani, dal cui denso dibattito ho imparato molto[1]; una seconda volta per aver accettato subito la mia proposta di lasciar perdere nel volume degli atti di quel seminario la mia relazione[2], dato che mi sembrava che il virus Covid e il suo “dopo” (ammesso che di “dopo” si possa davvero parlare) avesse determinato una nuova situazione, un nuovo campo di urgenze politiche e teoriche che deve oggi impegnare tutte le nostre energie.

È quasi diventato senso comune il fatto che “niente più sarà come prima”, ma è chiaro che per i comunisti questa frase assume, e deve assumere, un significato diverso. Si tratta infatti per noi del pieno e definitivo manifestarsi della crisi del capitalismo globalizzato. Con questo non intendo dire che il virus abbia provocata la crisi però di certo l’ha rivelata, senza dire che sarebbe anche da indagare (ma questo esula evidentemente dai limiti di queste righe) quanto il sistema capitalistico stesso abbia rappresentato una decisiva con-causa della pandemia, per il rapporto distorto che esso instaura fra l’umanità e la natura, per la rottura di ogni ragionevole limite tra uomini/donne e mondo animale in nome dell’illimitata ricerca del profitto, per la palmare contraddizione fra l’unificazione mondiale della circolazione delle merci e delle persone e l’inesistenza di meccanismi globali di difesa e sorveglianza della salute[3].

Comunque la crisi conclamata del capitalismo che ci domina rappresenta oggi il contesto storico e politico da cui ogni nostro ragionamento dovrebbe partire: noi viviamo, e dobbiamo pensare la rivoluzione, nell’epoca della crisi manifesta del sistema capitalistico. Ciò significa che neanche i nostri discorsi di comunisti/e hanno più molto senso se non si collocano a questa altezza, cioè se non si pongono il problema della fuoruscita rivoluzionaria dal capitalismo in crisi, una rivoluzione che sarà inedita, complicata, problematica quanto si vuole, ma che deve comunque essere una proposta per l’oggi e per il qui. Niente meno di questo ci si aspetta dai comunisti in questa fase, e tutto ciò che è meno di questo non serve. Hic Rhodus, hic salta!

2. Superfluo dire che tutto ciò non comporta alcuno sciocco ottimismo e meno che mai determinismo in merito all’esito comunistico della crisi coronavirus[4]. Dalla lezione di Lenin abbiamo infatti appreso (o dovremmo aver appreso) che la crisi non coincide affatto con la rivoluzione, perché un sistema sociale, per quanto insufficiente o adddirittura catastrofico sia, ha sempre possibilità di sopravvivere a sé stesso fintanto che un sistema diverso e alternativo non si dimostri in grado di sostituirlo storicamente. Scrive Marx:

«Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono esistono già o almeno sono in formazione»[5].

3. Tuttavia il fatto che la crisi del capitalismo sia oggi sotto gli occhi di tutti rappresenta una circostanza decisiva: ciò che fino a pochi anni or sono rappresentava soltanto una profezia, o il frutto delle analisi marxiane condivise da ristrette avanguardie, oggi è un fatto, un fatto dispiegato ed evidente, che nessuno può più far finta di non vedere.

Il capitalismo, proprio nell’epoca del suo trionfo post-’89, verifica la sua incapacità a gestire la vita dell’umanità associata. La ricerca del profitto privato, trovando dei limiti insuperabili nell’estrazione del plusvalore, si sposta nel capitale finanziario, cioè nella illusione di produrre denaro per tramite del denaro senza passare per la produzione, ottenendo che il valore del debito di carta circolante ammonta ormai a 33 volte il totale dell’intero Pil del mondo[6]. Ma questa follia, spingendo i salari sotto i livelli di sussistenza (da cui la diffusa e crescente schiavitù moderna[7]), determina (a) crisi di sovraproduzione, o di sotto-consumo, giacché sempre meno sono in grado di comprare le merci che ossessivamente si continuano a produrre in quantità sempre crescenti, (b) crisi finanziarie devastanti, quando le bolle speculative inevitabilmente esplodono, come è accaduto coi mutui subprime USA nel 2006-2008, (c) crisi ambientali catastrofiche, perché il pianeta non è in grado di sopportare la riduzione della natura a mero possedibile privatistico da sfruttare senza limiti né requie, e (d) crisi crescenti della convivenza civile, giacchè la miseria, l’esclusione, la frustrazione impedite a esprimersi nella lotta di classe si trasformano in razzismo, sessismo, guerra e violenza, come l’esempio del paese-guida americano insegna.

Si legge nel Manifesto del Partito Comunista:

“Nelle crisi scoppia una epidemia (sic!) sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovraproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza: l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte.”[8]

4. Questa nuova situazione (ripeto: il carattere pubblico, conclamato, innegabile della crisi catastrofica del capitalismo realizzato) ci deve spingere a riprendere in mano il concetto più assente nel nostro dibattito teorico e (ancora di più) politico: il concetto di rivoluzione comunista, in Occidente, oggi.

I comunisti e le comuniste hanno (dovrebbero avere) nella rivoluzione comunista la loro stessa ragion d’essere, eppure non ne parlano mai e soprattutto non ci pensano mai; anzi coloro che ne parlano scioccamente e spesso sono proprio coloro che ci pensano meno di tutti: è la miserabile dialettica dell’ortodossia. Sarebbe un po’ come se i cristiani non parlassero mai di Gesù Cristo e non ci pensassero mai; se avessero fatto così i cristiani non sarebbero sopravvissuti a lungo, e infatti – mutatis mutandis – noi comunisti non siamo sopravvissuti.

Già questa assenza del problema della rivoluzione nel nostro dibattito, un’assenza innegabile quanto paradossale, dovrebbe dunque essere messa a tema, e i suoi motivi dovrebbero essere compresi. Io resto convinto che il più formidabile ostacolo a pensare davvero la nostra rivoluzione sia stato rappresentato – da un certo tempo in poi – proprio dalla sopravvivenza del modello sovietico della “conquista del potere” intesa come “presa del Palazzo d’Inverno”[9]. E non sarebbe la prima volta nella storia che un’idea col tempo cambia di segno e di significato, in questo caso trasformandosi da formidabile segnale di coraggio per le masse di tutto il mondo (il ruolo che quell’idea di rivoluzione svolse almeno per tutti gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, fino alla guerra mondiale[10]) in un fattore altrettanto formidabile di passivizzazione delle masse. Se la rivoluzione è pensata solo come quella roba lì[11], allora davvero essa diventa oggi per noi non solo impossibile ma perfino impensabile e impronunciabile. Per questo sarebbe ora di smetterla di inseguire il cane di pezza della rivoluzione impossibile del passato e dedicare le nostre energie alla rivoluzion necessaria e possibile del presente. Forse ha ragione il comunista francese Alain Badiou che scrive:

“Quanto a noi, che desideriamo un cambiamento reale dei dati politici in questo Paese, bisogna approfittare dell’interludio epidemico e persino del confinamento – del tutto necessario – per lavorare a delle nuove figure della politica, al progetto di luoghi politici nuovi, e al progresso transnazionale di una terza tappa del comunismo, dopo quella, brillante, della sua invenzione e quella, interessante ma finalmente sconfitta, della sua sperimentazione statale.”[12]

5. Dunque ri-pensare la rivoluzione comunista rappresenta oggi per noi una priorità assoluta, nel doppio significato del verbo ri-pensare, cioè sia ritornare a pensare e sia pensare da capo, correggendo tutto ciò che c’è da correggere.

Naturalmente questo è un compito gigantesco e collettivo che tocca a un’intera e nuova generazione di comunisti/e che – purtroppo – non è più la mia. Ma alcune cose, proprio a partire dal coronavirus, credo che si possano e debbano dire, se non come inizio almeno come cornice del discorso rivoluzionario di cui andiamo in cerca.

Una prima osservazione: Gramsci ci ha insegnato che nelle fasi di crisi le classi dominanti ritornano a una loro fase “economico-corporativa”, cioè esprimono in forma immediata e ristretta i propri interessi di classe rinunciando di fatto a rivestirli di qualsiasi aspetto egemonico. Non è forse questo il significato della presidenza Trump? E la differenza fondamentale fra Obama e Trump non consiste forse nella esplicita rinuncia da parte del capitalismo americano di cercare di apparire diverso da ciò che è?

Ebbene questa riduzione alla propria essenza corporativa dei propri interessi di classe si è vista oscenamente all’opera nel comportamento della borghesia italiana durante la crisi coronavirus. Gli industriali lombardi e italiani, accompagnati dai loro servi nella politica e nei media, non hanno esitato a imporre durante le fasi più perniciose del contagio la prosecuzione delle attività produttive, anche se questo costava (e loro lo sapevano bene) migliaia di morti fra i lavoratori. Così, in piena epidemia, il sindaco di Bergamo Gori (del Pd, già Mediaset e già regista della Leopolda renziana) invitava i suoi concittadini ad andare tranquilli tutti a cena fuori (e quella città ha quintuplicato il numero dei morti), e il sindaco di Milano esortava a farsi uno spritz indossando una bella maglietta “Milano non si ferma”, mentre l’Innominabile ex-sindaco di Firenze ancora il 28 marzo proponeva “Le fabbriche riprendano prima di Pasqua, le scuole il 4 maggio”. L’ineffabile assessore lombardo Gallera (quello che ha mandato i malati di Covid nelle Residenze per Anziani facendone strage) ha apertamente confessato di aver ricevuto numerose pressioni da parte dei suoi amici industriali affinché non si sognasse neppure di creare “zone rosse” che avrebbero danneggiato il business. E i vescovi piemontesi hanno giustamente protestato perché quasi tutto è stato fermato, ma non le fabbriche legate alla filiera di produzione degli F35.

Mentre la condanna delle pretese movide dei ragazzi fungeva da arma di distrazione di massa, circa duemila aziende nel bresciano e qualche centinaio in meno perfino a Bergamo, hanno inoltrato formale richiesta per continuare la propria attività durante la chiusura da coronavirus. Correre nei giardini era considerato irresponsabile, ma affollare le metro e gli autobus per andare al lavoro e lavorare alle catene di montaggio andava più che bene. Tutto ciò, sommato naturalmente alla distruzione formigoniana della sanità pubblica lombarda, ha dato a quelle zone lo spaventoso record europeo e mondiale dei contagiati e dei morti di Covid. Si noti che il bresciano presidente della Confindustria lombarda Marco Bonomi, l’11 marzo (con centinaia di contagi e di morti nella sua città e nella sua regione) dichiarava “indispensabile la necessità di tenere aperte le aziende, dando continuità a tutte le attività produttive e alla libera circolazione delle merci”; ebbene, costui è stato poi eletto presidente della Confindustria italiana, a conferma che quella linea apparteneva agli industriali italiani nel loro complesso. D’altronde la medesima linea genocida è stata espressa da Trump, da Johnson, da Bolsonaro & Co.

La borghesia ha mostrato insomma nella crisi coronavirus il suo vero volto, ed è il volto della ferocia classista.

6. Se ricordo queste cose non è solo in nome del motto che dobbiamo fare nostro “Ni olvido ni perdòn” (“Non dimenticare né perdonare”), come dicono le madri argentine dei desaparecidos, ma perché questa situazione ha immediate conseguenze anche sul piano politico. Intendo dire che la cosiddetta “borghesia buona” o “borghesia democratica” semplicemente non esiste, così che il progetto di appoggio al Pd che ha illuso a lungo tanta parte della sinistra rivela definitivamente tutta la sua insensatezza. Il cambio di direttori a “Repubblica” (per molti anni il giornale-partito del centrosinistra e la vera anima-guida del Pd) esprime questa semplice verità: nel momento della crisi la borghesia non scherza più, si unifica tutta intorno ai suoi immediati interessi di classe, tira giù la celata del suo elmo e combatte.

La battaglia che stanno combattendo e combatteranno è infatti di prima grandezza: si tratta di mettere le mani su alcune centinaia di miliardi di euro che arrivano (o meglio: ritornano) dall’Europa, e – sia detto en passant – questi soldi sono troppi perché possa essere lasciato a gestirli il Governo Conte, così che si tratta solo di vedere quando (non se) questo Governo sarà mandato a casa per essere sostituito da un bel Governo di “unità (capitalistica) nazionale”, a cui lavorano Renzi, Berlusconi, la destra, buona parte del Pd e tutta intera la stampa padronale.

Il programma sull’utilizzo di questi soldi che unifica tutta intera la borghesia italiana è molto semplice e chiaro: questi soldi a noi, tutti e subito, senza alcun controllo, senza condizioni e senza regole, abolizione dell’Irap, riduzione delle tasse sulle ricchezze, opere pubbliche faraoniche e inutili distruttive dell’ambiente (dal Tav al ponte sullo stretto di Messina), e soprattutto nessuna, nessunissima patrimoniale e nessun sostegno al reddito dei proletari, che (solo questo!) configurerebbe un inaccettabile “aiuto di Stato”. I sei miliardi e mezzo per una multinazionale che paga le tasse in Olanda (la FCA, ex FIAT), naturalmente senza alcun impegno sul terreno occupazionale, è la più esplicita e scandalosa manifestazione di questo programma.

Il cinismo classista di queste proposte e la loro spudoratezza non sono tuttavia il difetto peggiore di tale programma capitalistico-borghese. Il difetto peggiore è che esso si pone come obiettivo “far tornare le cose come stavano prima”. Ma “prima” c’erano la disoccupazione e il precariato, c’erano i tagli continui di tutti i Governi alla spesa pubblica per sanità e scuola-università, c’era il degrado del territorio e un’economia devastante per l’ambiente. E c’era la miseria. In Italia, la sesta potenza industriale del mondo, secondo l’ultimo rapporto Censis, il 20,3% (circa 12 milioni e 230 mila individui) ha un reddito inferiore a 10,106 euro l’anno (842 euro al mese), e il 27,3% (oltre 16,5 milioni di persone) è “a rischio di povertà o esclusione sociale”.

Soprattutto “prima” c’era la crisi strutturale del capitalismo che abbiamo poco sopra descritta (sovrapproduzione/sottoconsumo e finanziarizzazione) e se non si lavora alla radice di questa crisi essa non potrà che peggiorare ancora, magari ora dando la colpa al coronavirus, che almeno a proposito della crisi capitalistica è del tutto innocente. Le ragioni della crisi che viviamo sono ben altre, e sono tutte interne al sistema capitalistico stesso:

“A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di poprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.”[13]

7. Il punto per noi è allora il seguente: esisteva, esiste, un programma proletario, se non di uscita dalla crisi almeno di utilizzazione nell’immediato dei miliardi europei, che sia altrettanto netto e definito di quello capitalistico-borghese?

Io credo di no, e appare significativo che non sia stata da noi promossa una manifestazione programmatica unitaria alternativa agli Stati generali di Conte a Villa Pamphili, che sarebbe stata politicamente fondamentale. Un contributo programmatico importante è venuto dagli esperti economisti di “Sbilanciamoci” che hanno promosso un documento di proposte in 10 punti sottoscritto da 42 studiosi ed esponenti della società civile, tutti punti necessari e sensati[14], e l’aggettivo “sensati” non vuole avere alcun significato di sottovalutazione, vuol dire soltanto che qualsiasi persona onesta dotata di buon senso dovrebbe fare propri e mettere in pratica questi punti programmatici. Tuttavia non solo quelle proposte non sono state recepite dalle forze politiche o dal Governo ma non mi sembra neanche che abbiano avuto la forza di coinvolgere tutto il movimento e di imporsi nel dibattito politico.

Mi permetto di dire che anche le nostre tradizionali rivendicazioni di maggiori investimenti per il welfare o di riduzione delle spese militari etc., per quanto sacrosante e urgenti, non bastano più, perché non affrontano in alcun modo i nodi di fondo della crisi capitalistica, come non può farlo oggi nessuna politica di “riforme”. Ecco perché è urgente la necessità di riprendere il concetto di rivoluzione nelle sue inedite forme storiche attuali, il problema da cui siamo partiti all’inizio di questo nostro ragionamento.

8. Sappiamo ormai che l’attuale crisi capitalistica vede esplodere la contraddizione fra la (crescente) produzione di merci e la (decrescente) capacità di consumo e – più in generale – fra la forsennata produzione di merci dettata dal profitto privato e la custodia della natura che spetta necessariamente alla mano pubblica e collettiva.

Il nodo dunque è evidentemente la produzione di merci, da cui non caso inizia l’analisi del Capitale di Marx, per svelarne il carattere feticistico.

È il capitalismo il sistema che si fonda sulla produzione della merce, come unità di valore d’uso e di valore di scambio; è il capitalismo che anzi riduce tutto a merce a cominciare dal lavoro umano, che diventa lavoro astratto, trasformando “i soggetti in oggetti”; è il capitalismo che separa il lavoro dai bisogni in nome del dominio del mercato e del profitto, ed è ancora proprio del capitalismo il modello per cui la produzione di merci è finalizzata a se stessa e finalizza a se stessa l’intera società[15]. Per questo se si resta all’interno dell’orizzonte, programmatico ma anche ideale, segnato e posseduto dal capitalismo non c’è soluzione possibile alla crisi. Occorre allora abbandonare l’orizzonte, anche immaginario, impostoci dal capitalismo reale che ci domina. Perché il capitalismo non è affatto natura, né rappresenta il destino insuperabile dell’umanità associata. Come scrive Romano Madera:

“Ma noi siamo miopi, molto miopi, e accecati da una vecchia ideologia: la naturalizzazione della storia sociale, come hanno cercato di spiegarci – voci nel deserto – Marx ed Engels. Sembra che tutto sia dovuto al virus, ma gli effetti del virus sono infinitamente più legati alla storia sociale che non alla potenza del male naturale”[16].

9. Ma se riusciamo a compiere questo necessarissimo passo di liberazione ideale, preliminare per ogni politica rivoluzionaria, ecco che si apre un orizzonte diverso di concrete possibilità.

Alla base di tutto è comprendere che la produzione di merci (consustanziale al capitalismo) non è l’unica forma di lavoro produttivo possibile. Essa, la produzione di merci, non è sempre esistita e non esisterà per sempre, e anche oggi, pure all’interno del dominio della produzione di merci, esistono zone in cui il lavoro umano non è rivolto alla produzione di merci. Non mi riferisco solo alle zone che appaiono periferiche rispetto al capitalismo globale, come l’America indio-afro-latina o l’Africa o l’Asia, perché si potrebbe sostenere che la loro integrazione piena nel sistema globale di produzione di merci sia solo questione di tempo; mi riferisco soprattutto ad attività lavorative non rivolte alla produzione di merci che sono già oggi del tutto interne ai nostri sistemi capitalistici e che anzi appaiono, per loro stessa natura, ineliminabili. Prima fra tutti l’area della riproduzione sociale, che è assegnata nelle nostre società quasi esclusivamente alle donne e dalla cui valorizzazione passa dunque l’eguaglianza e la libertà delle donne, il primo dei nostri problemi, non foss’altro perché riguarda oltre il 50% del genere umano. Ma poi penso ai lavori di cura (delle persone e dell’ambiente), ai lavori di relazione e di formazione, alla ricerca, ai lavori di conservazione e di restauro, all’area vastissima dei servizi, dei trasporti, fino ai lavori di produzione dell’energia, e così via.

Un programma che si concentri sul finanziamento massiccio di questi lavori (usando subito per questo i miliardi di euro dell’Europa) allude a un sistema sociale che non mette più al suo centro il capitale e il mercato, cioè, fin d’ora e del tutto realisticamente, indica una strada di fuoruscita dal capitalismo e dalla sua crisi, una vera e propria transizione. Faccio notare che solo l’incremento di questo tipo di produzioni non di merci sfugge completamente al micidiale e distruttivo circolo sovraproduzione/sottoconsumo di cui si è detto, per non dire dei suoi evidenti contributi alla difesa dell’ambiente e della natura, della vita. Anche dal punto di vista strettamente economico il lavoro produttivo non di merci presenta una realizzabilità, anzi una vantaggiosità, che solo il dominio ideologico del capitalismo ci impedisce di capire, e questo in primo luogo dal punto di vista degli incrementi occupazionali, ma non solo.

10. Abbiamo certo bisogno che alla precisa definizione di questa via lavorino i nostri compagni economisti, ma è del tutto evidente che la produzione non di merci può fornire un sovrappiù (non voglio dire un profitto) che consiste nel differenziale positivo fra l’investimento pubblico in lavori produttivi non di merci e i risparmi che la collettività ne può trarre, magari non immediatamente ma sicuramente.

Quanto “costa” un piano nazionale per il riassetto idrogeologico o per la messa in sicurezza degli edifici (a cominciare dalla scuole)? Ebbene queste somme sono da considerare “spese” oppure investimenti e risparmi? Dato che costano alla collettività certamente di più i danni che non fare queste cose certamente comporterà in futuro, come ha tragicamente dimostrato il passato. Non procedere alla manutenzione del ponte Morandi ha rappresentato dal punto di vista irrazionale (oltre che criminale) del capitalismo privato un “risparmio”, ma dal punto di vista di una vera razionalità economica quel “risparmio” ha rappresentato un enorme sovrappiù di spesa (ripeto: anche senza voler considerare l’aspetto, certamente per noi decisivo, delle vite umane che quel “risparmio” privato è costato). E quanti posti di lavoro, veri, buoni, qualificati un piano nazionale per il riassetto idrogeologico o per la messa in sicurezza degli edifici comporterebbe, ad esempio per non fare diventare tragedie i terremoti che nel nostro Paese si verificano periodicamente e si verificheranno ancora?

Quanto “costa” un piano nazionale per il trasporto pubblico, in particolare per i pendolari, e quanto si risparmierebbe permettendo l’abbandono delle automobili, riducendo il traffico e l’inquinamento delle città e, soprattutto, restituendo ogni giorno ore di libera vita ai lavoratori e alle lavoratrici?

Quanto “costa” un piano nazionale per la riconversione energetica, solare o eolica, dell’Italia che si dia l’obiettivo di rendere il “Paese del sole” autonomo del petrolio e anzi esportatore di energia pulita? E quanti posti di lavoro, veri, buoni, qualificati un piano nazionale per la riconversione energetica comporterebbe?

Gli esempi di questo tipo potrebbero facilmente, e forse inutilmente, moltiplicarsi. Mi limito, per concludere, a due esempi che si riferiscono – per così dire – ai due poli dell’area della formazione, quello inferiore e quello superiore, cioè la lotta all’analfabetismo e la ricerca informatica. In Italia l’analfabetismo è ben presente, e anzi crescente, e gli è strettamente legato l’altro problema capitale della nostra classe rappresentato dalla presenza dei lavoratori migranti. Rimuovere drasticamente l’analfabetismo non sarebbe un investimento ragionevole, anche a fronte della disoccupazione intellettuale giovanile? E non ne trarrebbe giovamento oltre che l’integrazione sociale anche la produttività collettiva del lavoro? Per quanto riguarda la ricerca informatica, basterà dire che in occasione della recente DaD (Didattica a Distanza) tutte le scuole e le università italiane hanno adottato, pagandole profumatamente, le piattaforme informatiche che appartengono al GAFAM (l’acronimo di GoogleAppleFacebookAmazon e Microsoft, le cinque aziende, tutte statunitensi, che costituiscono l’oligopolio informatico che domina il mondo). Ebbene non è assurdo che le università, anche quelle che come la mia di “Tor Vergata” possiedono eccellenti Dipartimenti di Informatica, debbano rivolgersi a comprare sul mercato queste piattaforme invece che produrle in proprio, investendo in ricerca e assunzione di giovani, e poi dandole in uso gratis alle scuole pubbliche? Se le università pubbliche facessero questo non solo si risparmierebbero centinaia di milioni di denaro pubblico ma si contribuirebbe finalmente a tutelare anche la privacy di tutti e l’indipendenza nazionale.

Concentrare l’attenzione, e gli investimenti, in lavori produttivi non di merci non significa certo che la produzione di merci debba essere interrotta o impedita; significa semplicemente che essa non dovrà più essere il centro attorno al quale deve girare l’intera economia del Paese e l’intera società.

E che almeno si cominci da subito a disincentivare (o a non incentivare più) le mafie, l’evasione e l’elusione fiscale, la speculazione edilizia strettamente intrecciata con la politica, la produzione di merci particolarmente dannose socialmente. Ripeto: aspettiamo gli economisti, ma forse basta il buon senso per capire, ad esempio, che è contrario alla ragione (non solo al comunismo) che lo Stato continui a finanziare la FCA perché produca automobili che intasano strade e autostrade, che nessuno sa dove parcheggiare, e anzi ormai soprattutto i SUV o le Jeep, che inquinano e sono pericolose più delle altre.

11. Mi rendo ben conto che tutto questo ragionamento si scontra con una difficoltà gigantesca che è rappresentata dal problema della soggettività rivoluzionaria. Chi può fare queste cose? Chi può pensarle e progettarle? Chi può imporle con la lotta di massa?

Certo, anche in questo caso, se restiamo all’interno dei paradigmi del passato, cioè se pensiamo che il soggetto rivoluzionario sia, debba e possa essere solo il partito proletario dei comunisti, allora la situazione non può che apparirci tragica, e anzi tragicomica. Perché mai come oggi, di fronte alla crisi conclamata del capitalismo, si avverte il bisogno, anzi la necessità storica, di un partito comunista, eppure mai come oggi la nostra classe ne è priva. Il discorso su questo sarebbe lungo ed esula dai limiti di questo intervento[17]. Diciamo qui solo che l’assenza del partito dipende non solo dalle enormi difficoltà oggettive ma soprattutto dai terribili limiti etico-politici del ceto politico che si è trovato a gestire qual grande compito, che ha scelto invece l’istituzionalismo, il burocratismo, il leaderismo e, sempre sempre, l’imperdonabile scissionismo, a sua volta messo in atto per far vivere l’istituzionalismo, il burocratismo, il leaderismo di quel ceto politico.

Ma se, come abbiamo cercato di argomentare finora, dobbiamo ri-pensare il nostro discorso sulla rivoluzione allora dobbiamo ripensare anche il problema della soggettività rivoluzionaria, in direzione di una soggettività plurale, più complessa del partito, intrecciata strettamente con i movimenti. Allora dobbiamo prendere più sul serio la citazione di Marx che abbiamo poc’anzi allegato: “(…) l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, (…) perché (…) il problema sorge quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione.”[18]

Se Marx ha ragione, forse dobbiamo guardarci meglio intorno e riusciremo a vedere che già oggi esistono anche nel nostro Paese migliaia e migliaia di esperimenti di lavori non produttivi di merce, lavori veri, autogestiti, collettivi, rispettosi della socialità e dell’ambiente, che danno reddito. In grandissima parte queste esperienze sono rimaste isolate, invisibili, prive di qualsiasi connessione e appoggio, ma questa situazione evidentemente è una responsabilità della politica, non loro. Tuttavia sono esperienze vive. Sono ciò che Romano Madera definisce “frammenti, intuizioni, esperimenti di una antropologia del futuro.”[19]

11. Ecco, pensare un’antropologia del futuro, rivoluzionaria, cioè un nuovo modo in cui gli uomini e le donne sappiano concepire se stessi, rappresenta un problema rivoluzionario di prima grandezza, su cui occorrerà tornare con impegno e tempo, magari prendendo le mosse dall’originale antropologia filosofica che Gramsci ha cominciato a pensare.

Per ora dobbiamo domandarci: questa proposta politica che sommariamente abbiamo qui abbozzato ha a che fare con il processo di fuoruscita dall’alienazione capitalistica? Io credo di sì, perché cominciare a determinare collettivamente cosa produrre, come e quanto produrre e soprattutto perché farlo rappresenta un passaggio decisivo della liberazione del lavoro.

Trovo citata dal geniale Daniele Luttazzi una massima, forse falsa, della giansenista Madeleine de Souvré, marchesa de Sablé (1599-1678):

“Tre scalpellini stanno spaccando delle pietre. Una fatica umile, monotona, uniforme. ‘Cosa stai facendo?’ chiede al primo. E quello, scocciato: ‘Spacco delle pietre’. ‘E tu cosa stai facendo?’ chiede al secondo. E quello, scocciato: ‘Guadagno il pane per la mia famiglia’. ‘E tu cosa stai facendo?’ chiede al terzo. E quello, illuminandosi: ‘Io? Sto costruendo una cattedrale.’ ”

FINE

R.M. 4/7/2020

  1. Fa parte delle cose che ho imparato anche il bel volume di A. Barile – L. Raffini – L. Alteri, Il tramonto della città, Roma, Derive e Approdi, 2019.
  2. Quella mia non indimenticabile relazione fu dedicata alla (in gran parte mancata) ricezione di Gramsci in Italia. Essa riflette in sostanza il mio libro De Sanctis, Gramsci e i pronipotini di padre Bresciani, Roma, Edizioni Bordeaux, 2019, e in particolare l’Introduzione (pp.7-23) e il capitolo La vendetta dei pro-nipotini contro Gramsci (pp.377-445). Mi permetto di rinviare a quelle pagine i compagni e le compagne che fossero interessati al tema.
  3. Cfr. S. Shah, Da dove vengono i coronavirus? Contro le pandemie, l’ecologia, «Le Monde Diplomatique», 3, XXVII, marzo 2020, pp. 1 e 21. Sulla necessità di dare vita a una nuova “Costituente della Terra” lavora ora un’associazione promossa da Raniero La Valle: cfr. https://www.costituenteterra.it/. Si può leggere in quel sito anche l’importante relazione introduttiva di Luigi Ferrajoli e il progetto di una “scuola” collettiva che accompagna l’iniziativa.
  4. Cfr. S. Žižek, Un nuovo comunismo può salvarci, «Internazionale», https://www.internazionale.it/opinione/slavoj-zizek/2020/03/21/comunismo-salvarci-coronavirus.
  5. K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859), Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 5. Il passo di Marx è praticamente tradotto a memoria da Gramsci nei Quaderni: «Occorre muoversi nell’ambito di due principii: 1) quello che nessuna società si pone dei compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni necessarie e sufficienti o esse non siano almeno in via di apparizione e di sviluppo; 2) e quello che nessuna società si dissolve e può essere sostituita se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti» (Q 13, § 17, p. 1579). Da notare che nella traduzione gramsciana, le parole «le condizioni materiali» sono significativamente sostituite con le parole «le condizioni necessarie e sufficienti» e «le forme di vita».
  6. Così si legge sull’organo della Confindustria: “Il valore (…) dei derivati in circolazione a livello mondiale potrebbe sfiorare la strabiliante cifra di 2,2 milioni di miliardi di euro, vale a dire 33 volte il Pil mondiale e quattro volte tanto quello che si pensava finora, amplificando in modo allarmante il rischio sistemico di prodotti per loro natura interconnessi. Rischio che ancora sfugge in gran parte ai tentativi di controllarlo.” (A. Olivieri, Banche, allarme derivati: valgono 33 volte il Pil mondiale, “Il Sole/24 ore”, 6 dicembre 2018).

  7. Come altro si possono chiamare le condizioni di lavoro prive di qualsiasi diritto e i livelli salariali di 2-3 euro l’ora? Sono condizioni di lavoro che dai migranti raccoglitori di pomodori si estendono ormai a un’intera generazione di giovani lavoratori strangolati dal precariato.
  8. K. Marx-F. Engels, Manifesto del Partito Comunista (1848), Introduzione di Edoardo Sanguineti, Roma, Meltemi, 1998, p. 35.
  9. Ho cercato di argomentare questa posizione, meno sommariamente di quanto mi sia possibile fare qui, in una serie di interventi svolti in occasione del centenario della Rivoluzione d’Ottobre.
  10. “E noi faremo / come la Russia / e suoneremo il campanel / falce e martèl..”, “addavenì Baffone!”, etc.
  11. Non è certo un caso che proprio l’ala più ostinatamente “sovietica” del Pci, quella rappresentata da Giorgio Amendola, sia stata quella che ha percoso per prima la via “migliorista” del corrompimento liberal-massonico, fino a giungere a Napolitano. Analogo discorso di potrebbe fare, su un versante diverso, per personaggi che si distinguevano per la fedeltà di tipo trotzkista a Lenin (i Colletti, i Savelli, i Riotta etc.), e sono poi finiti numerosi e felici nelle fila di Berlusconi & Co.
  12. A. Badiou, Sulla situazione epidemica, in Id., Niente di nuovo sotto il sole. Dialogo sul Covid-19, a cura di Paolo Quintili, Roma, Lit, 2020, p. 11.
  13. K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica , cit., p. 5.
  14. Quel documento lo si può leggere anche in: https://www.costituenteterra.it/dieci-punti-fermi-programmatici-per-il-dopo-coronavirus/#comment-14.
  15. Cfr. C. Napoleoni, Dalla scienza all’utopia. Saggi scelti 1961-1988, a cura di Gian Luigi Vaccarino, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 96, 49 et passim.
  16. R. Madera, Cinque domande sullo scenario futuro, in https://www.doppiozero.com/materiali/cinque-domande-sullo-scenario-futuro-1. Sottolinatura nostra (NdR).

  17. Mi sia permesso, per un’analisi meno sommaria di questo insieme di problemi, di rinviare al mio libretto: Non è che l’inizio. Vent’anni di Rifondazione Comunista, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2011.
  18. K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica, cit. p. 5.
  19. R. Madera, op. cit.

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