Cent’anni di egemonia
di lotte per la democrazia la pace e il socialismo
(per il centenario della Rivoluzione d’Ottobre)
di Raul Mordenti
Cento anni sono tanti oppure molto pochi?
1. Gli anniversari (che di per sé non significano molto) sono però spesso l’occasione utile per una riflessione sugli avvenimenti che assuma il compito di tentare dei bilanci di sintesi.
Cento anni sono passati dalla Rivoluzione d’Ottobre. Cento anni sono tanti, ma dal punto di vista della storia della rivoluzione proletaria sono anche molto pochi. Quanti secoli, e quante sconfitte, occorsero alla borghesia per preparare e compiere la sua rivoluzione contro il feudalesimo? Così è (e tanto più!) anche per il proletariato, e la sconfitta del potere statuale proletario in Russia non significa affatto la “fine del comunismo”, esattamente come la fine del potere temporale dei papi non significò affatto la fine del Cristianesimo. La sconfitta di quel primo “assalto al cielo”, per quanto grave e dolorosa, rappresenta per noi solo la necessità di capire, di fare tesoro di quella grande esperienza, di correggere gli errori, di tentare ancora.
Nel centesimo anniversario dell’Ottobre sovietico, noi comunisti in Italia dobbiamo evidentemente riflettere anzitutto sui motivi per i quali non esiste oggi nel nostro Paese una forza politica comunista degna di questo nome. E quest’assenza è tanto più da indagare perché essa appare in clamorosa contraddizione sia con la nostra storia (che ha visto la costruzione del più grande partito comunista dell’Occidente capitalistico) sia con la situazione economica e sociale, cioè con la crisi del sistema capitalistico che dovrebbe essere occasione per la conferma, o per il rilancio, delle analisi e delle proposte comuniste.
Tuttavia la storia e Marx ci insegnano che una formazione sociale (nel nostro caso il capitalismo) non finisce quando esaurisce la sua spinta propulsiva ma solo quando viene sostituita da un’altra diversa e più avanzata. Così può succedere che una formazione sociale possa – per così dire – sopravvivere a se stessa, cioè durare oltre ogni sua positività, oltre ogni sua capacità di risolvere i problemi dell’umanità associata, e – per dirla gramscianamente – possa durare oltre la propria storica egemonia. Ora proprio queste fasi di tenuta antistorica, di ristagno, di sopravvivenza del potere oltre se stesso determinano le congiunture storiche più pericolose, cioè configurano una situazione che si può definire di stallo a prospettive catastrofiche. Che è quella che noi oggi viviamo. Come scrive Gramsci:
“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.[1]
Questo ci riconsegna per intero la lezione leninista in ordine alla necessità del momento soggettivo, cioè del compito che consiste nel trasformare la crisi in rivoluzione. La crisi può talvolta (talvolta, non sempre, non c’è meccanicismo neppure in questo punto) rappresentare la condizione migliore per la rivoluzione, ma crisi e rivoluzione restano due cose diverse e fra queste due cose diverse c’è in mezzo il problema, per noi cruciale, della soggettività rivoluzionaria, il cui compito è – appunto – risolvere storicamente la crisi, risolverla (per dir così) davvero, cioè trasformare la crisi in rivoluzione.
Ragionare sul problema del Partito: “Un metro di ghiaccio non si forma in una sola notte”
2. Ecco dunque perché dobbiamo ragionare sul problema dl Partito. E per ragionare possiamo partire dalla saggezza dei popoli, dal proverbio che dice: “Un metro di ghiaccio non si forma in una sola notte”.
La liquidazione del PCI, da parte di Occhetto (che ebbe dalla sua – non dimentichiamolo – una maggioranza di oltre il 90% del suo Partito), ha concluso un processo degenerativo che era in atto da molto, molto tempo.
Peraltro, come sempre accade quando si avvia un processo di abbandono del carattere di classe di un Partito, la “svolta a destra” impressa da Occhetto e dal suo gruppo si approfondì e si aggravò sempre più, dando vita prima al PDS (Partito Democratico di Sinistra), poi ai DS (Democratici di Sinistra), infine addirittura al PD (Partito Democratico), la fusione di quello che era stato il PCI con settori democristiani ed ex radicali (la Margherita, Francesco Rutelli, e altri) sotto l’evidente direzione della borghesia (simbolicamente, la tessera n.1 del PD fu consegnata all’industriale De Benedetti, padrone del gruppo editoriale di “Repubblica-L’Espresso”, già liquidatore dell’industria Olivetti, ed espressione diretta del capitale finanziario). La via che porta a destra è sì all’inizio in discesa, ma poi si trasforma in un precipizio senza fondo.
Il PD segna l’abbandono definitivo di qualsiasi riferimento classista, l’esibita subalternità alla NATO e all’imperialismo USA e – specie nell’ultima versione “renzista” – anche un attacco frontale ai diritti del lavoro e alla stessa Costituzione antifascista[2], in obbedienza agli espliciti diktat della banca Morgan e del capitale europeo.
Questo processo apertamente involutivo ha naturalmente determinato una terribile crisi di fiducia fra le fila proletarie, anche perché perdurava in qualche modo il controllo del PDS-DS-PD sui vertici della grande Confederazione sindacale, la CGIL.
Ma il peggio fu che questa resa politico-organizzativa si accompagnava a grandi difficoltà strutturali e oggettive che hanno colpito la nostra classe operaia direttamente nelle sue condizioni di lavoro: flessibilità senza limiti della forza-lavoro (anche favorita dall’informatizzazione dei processi produttivi), esternalizzazioni, minaccia crescente della disoccupazione e (specie per i giovani) enorme diffusione del precariato, cioè di un rapporto di lavoro che ha già inscritto in sé il licenziamento e che rende terribilmente ricattabili – e dunque passivi – i lavoratori. Dopo il jobs act renziano, l’Italia ha il record europeo della disoccupazione e 40 giovani su 100 sono disoccupati.
Le insufficienze, e le gravi responsabilità, dei gruppi dirigenti comunisti.
3. Tutto quanto detto finora non toglie nulla alle gravi responsabilità dei comunisti, che non sono stati soggettivamente in grado di essere all’altezza dei compiti posti loro dalla situazione. Si trattava e si tratta di una situazione certo assai problematica ma, per certi aspetti, anche favorevole: lo scioglimento del PCI liberò infatti un vasto settore di quadri, militanti ed elettori che volevano restare comunisti, e che si rivolsero in massa specialmente a Rifondazione Comunista.
Quali sono dunque i tratti fondamentali di questa nostra debolezza soggettiva? È un discorso complesso che meriterebbe analisi ben più approfondite[3]. In estrema sintesi credo si possa dire che il centro del problema sia stata l’insufficienza politica, teorica, culturale e – per certi aspetti – anche etica dei gruppi dirigenti comunisti che si ritrovarono a governare un processo di ricostruzione della soggettività politica del proletariato italiano, un compito che si rivelò tanto più grande di loro[4].
Così, dopo lo scioglimento del PCI, in mancanza di una nuova sintesi politico-culturale e di una linea politica originale ed efficace, si avviò un processo continuo di ricomposizione e scomposizione, che oscillava in modo distruttivo fra due spinte: da una parte la spinta corruttiva verso la partecipazione ai Governi borghesi (e spesso al relativo sotto-Governo) dall’altra parte la spinta verso l’estremismo settario. Non è secondario, – per capire la terribile forza della prima spinta – il fatto che la presenza nelle istituzioni, dal Comune, alla Regione fino al Parlamento nazionale, comporti cospicui finanziamenti e privilegi personali notevolissimi, dai quali i settori della intellettualità declassata (questa l’origine sociale della maggior parte del personale politico di Partito) assai difficilmente sanno prescindere.
Facciamo un rapidissimo e sommario elenco per esemplificare le contraddittorie spinte di cui parliamo: prima l’ingresso in Rifondazione del gruppo dell’ex Pdup (Magri, Castellina, Crucianelli) che poi (con Vendola) votò in Parlamento la fiducia al Governo del banchiere borghese Dini; successivamente l’ingresso in Rifondazione comunista del sindacalista ex-socialista Bertinotti, che fu direttamente eletto alla carica di Segretario per un accordo con lo stesso Cossutta; poi il sostegno al Governo Prodi e la rottura con esso, che determinò la scissione di Cossutta per sostenere il Governo D’Alema (il quale impegnò l’Italia – per la prima volta dal dopoguerra – nella guerra di aggressione contro la Jugoslavia); e dopo ancora di nuovo l’appoggio al Governo di Prodi, pagato con nuove scissioni “a sinistra” e delle componenti trozkiste. Più di recente la scissione di Nichi Vendola e di circa il 50% del gruppo dirigente che riproponevano l’abbandono del riferimento al comunismo e la creazione di un partito-stampella al PD (e fu SEL).
Il tentativo della Federazione della Sinistra (che univa in forma federale Rifondazione, il Partito di Diliberto, alcuni socialisti di sinistra e degli ex sindacalisti) fu colpevolmente fatto morire proprio per dissensi radicali in merito al cruciale problema di appoggiare o no i Governi di centro-sinistra, peraltro sempre più impegnati in politiche apertamente anti-popolari e al servizio del capitale europeo.
E si è così arrivati allo scioglimento di fatto anche di Rifondazione comunista dentro coalizioni elettorali interclassiste con i Verdi (2007), con Ingroia e Di Pietro (2012), con Tsipras (2013), con l’ex PD Fassina (a Roma nel 2015) e con altri ancora; tutte queste coalizioni sono state però bocciate alle elezioni, anche a causa di leggi elettorali antidemocratiche (sistema maggioritario, premi di maggioranza, sbarramenti etc.) peraltro concepite appositamente – fin dai progetti della P2 di ridisegno della nostra democrazia – per impedire che il conflitto di classe si rappresenti anche nelle istituzioni.
Tutto ciò è stato pagato con una caduta verticale della fiducia popolare verso i comunisti, e ha portato o alla dispersione o alla nascita di micro-partiti ultrasettari, privi di qualsiasi radicamento fra le masse popolari, i quali sembrano confermare – con la loro stessa impotenza – la propaganda borghese in ordine alla impossibilità di essere oggi comunisti e che spesso contribuiscono a coprire di ridicolo, agli occhi del popolo, il nome glorioso dei comunisti. Fra i “fenomeni morbosi più svariati” che si verificano – secondo il passo appena citato di Gramsci – nelle situazioni in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, sono da annoverare certamente anche questi partitini settari, alcuni dei quali si sono spinti addirittura fino a un demenziale “campismo senza campo” che li spinge ad anteporre a un vero internazionalismo l’appoggio alla politica statuale della Russia di Putin (ritrovandosi così fianco a fianco con la Le Pen e Salvini).
Ci serve una costruzione paziente dell’unità fra le differenze.
4. Credo dunque che oggi si tratti di compiere un lavoro durissimo di aratura e di semina, che solo poi, un giorno, sarà anche di raccolto.
Infatti nel problema della costruzione del partito è necessario rifuggire da ogni meccanicismo soggettivistico. Insomma niente somiglia di meno alla costruzione del partito che la sua proclamazione.
La costruzione del partito è un processo, complicatissimo e di lunga durata come tutti i processi storici reali, un processo eminentemente dialettico, il cui il ruolo delle avanguardie e quello delle masse debbono interagire di continuo, insegnando e imparando, unendo e separando, promuovendo e creando nuovi quadri e nuovi gruppi dirigenti, e questo impegnerà tutti i comunisti per una lunga fase.
Metto al primo posto il problema dell’unità, e i motivi sono più che evidenti.
Dirò di più: il percorso a cui dobbiamo pensare non può escludere di porsi anche il problema della proiezione istituzionale ed elettorale. L’assenza dei comunisti dalle istituzioni rappresenta infatti oggi un elemento determinante della passivizzazione e della demoralizzazione politica della grandi masse: “i comunisti non ci sono più, quindi..”, quindi non è possibile lottare e opporsi, quindi tanto vale astenersi o cercare addirittura a destra lo spazio per lo sfogo della propria rabbia.
Diciamo subito cosa la via dell’unità non può essere. La via dell’unità non può essere la via della rana di Esopo (una rana che si gonfia e si gonfia fino a diventare un bue). Né la via dell’unità passa oggi per lo scioglimento di quelle poche organizzazioni che resistono: sappiamo per esperienza che ogni scioglimento rappresenta una perdita di impegno, di speranza, di coesione, insomma una perdita delle cose che sono per noi più preziose. No, davvero non si deve sciogliere niente per perseguire la via dell’unità!
Credo invece che si debba pensare a un paziente processo reale di unificazione di realtà differenti, che dunque sappia partire dal rispetto di tali differenze che accettano però di mettersi reciprocamente in rapporto fra loro. E questo in base all’idea che ogni differenza fra noi è preziosa perché ci aiuta, aggiunge al processo comune qualcosa di cui noi non siamo in possesso.
Viste materialisticamente le nostre differenze riflettono infatti lo stato attuale della nostra classe che non è unificata, che è dispersa e frantumata, ma in cui forse ciascuno porta un pezzo, un pezzo di lotta, un pezzo di organizzazione, un pezzo di idee, un pezzo di storia.
L’unità non può essere priva di confini
5. Il processo di unità che ci serve ha naturalmente dei confini, i confini possono essere mobili ma non possono essere aperti a tutti.
Io credo che i confini siano solo due: non possono fare parte dell’area comunista quelli che guardano ancora al PD (per l’ottimo motivo che il PD si è rivelato essere l’agente politico più organico del potere capitalistico oggi) e dunque dovremo a malincuore rinunciare a Pisapia e alla Boldrini, e non possono fare parte dell’area unitaria i matti e i poliziotti, due categorie che talvolta coincidono perché spesso i poliziotti amano travestirsi da matti.
Così delimitata l’area si potrebbe fare subito insieme alcune cose, ad esempio eliminare i doppioni o almeno mettere in rapporto fra loro le iniziative analoghe, le riviste teoriche di dibattito, o i giornali, o lo studio e la formazione quadri, o un centro studi, o una casa editrice, o certo associazionismo a tema (come la solidarietà internazionalista) o altro.
Ma la prima cosa a cui l’area dei comunisti dovrà mettere mano politicamente mi sembra debba essere il Programma, un programma minimo di fase fatto di pochi punti cruciali e dirimenti (il lavoro, l’Europa, la pace, i migranti, la scuola, i diritti), un programma alla cui bozza potrebbe lavorare un gruppo di lavoro centrale qualificato, arricchendosi poi dei contributi di tutti e tutte in una serie di assemblee e consultazioni popolari da svolgersi ovunque. Un programma dunque che ci aiuti a parlare ma anche ad ascoltare e che – per questa via – incrementi la nostra unità.
Attorno a una tale area unificata dei comunisti si deve e si può costruire poi un sistema di alleanze più vasto: penso insomma a una serie di unità concentriche e diverse fra loro per grado di omogeneità.
Qui, mi rendo ben conto, esiste un problema davvero formidabile: dobbiamo fare contemporaneamente due cose che sembrano contraddittorie, come cambiarsi le scarpe mentre si corre. Che intendo dire? Che dobbiamo organizzare un fronte unitario molto ampio, ma questo fronte ci riproporrà una “nomenclatura” a volte davvero insopportabile, un piccolo ceto politico che è solo il detrito di alcun decenni di errori e sconfitte e che non ha alcuna intenzione di trarsi da parte. Sarà dunque assai duro condurre questo processo di unificazione, ma non c’è altra strada che tentarlo, non dimenticando nulla ma perdonandoci l’un l’altro – per dir così – molte e molte cose del passato, per guardare in avanti.
La necessità di ripartire dalla nostra grande storia
6. Ho detto “non dimenticando nulla”, e questo della memoria storica è un punto cruciale di tutto il ragionamento.
Il pensiero debole e post-moderno che ha egemonizzato il mondo sulle ali degli anni di Reagan e Thatcher, pretende e determina un popolo condannato all’ “eterno presente” capitalistico, un popolo senza memoria, senza una propria cultura politica, senza una propria tradizione di lotte, senza identità classista, senza storia. Se ci riflettiamo, il terribile effetto congiunto dei mass media onnipresenti e onnipervasivi e della distruzione capitalistica della scuola e dell’Università mira a questo obiettivo: creare un popolo senza storia, un proletariato ridotto a “gente”, ridotto ciò che esso era prima del movimento operaio. E non a caso somigliano all’Ottocento, più che al Novecento, molte delle lotte di classe a cui siamo oggi costretti (a cominciare dalla difesa del contratto nazionale di lavoro e delle libertà sindacali).
Non nascondiamocelo: questo obiettivo ferocemente classista di azzeramento della memoria comunista e proletaria è stato in gran parte raggiunto in questi anni dal potere borghese, e ciò rappresenta oggi per i comunisti il più impervio dei problemi; un popolo senza storia non è in grado di riconoscere i suoi nemici, se la prende con il suo compagno di lavoro migrante, è capace solo di odiare indifferenziatamente “i politici che rubano”, ma mai i propri sfruttatori.
Le forze della borghesia non sottovalutano affatto il compito di privare di storia, e di una propria autonoma narrazione, la classe operaia, anzi dedicano a questo obiettiva grande attenzione e notevoli energie, economiche e intellettuali: non si spiega altrimenti l’accanimento con cui un giornale come “Il Corriere della Sera” si scaglia da anni contro la Resistenza, né si capirebbe la mascalzonesca campagna su Gramsci, mirante a dipingerlo come vittima del PCI protetto paternamente da …Mussolini.
E questa stessa volontà della classe dominante di cancellare ogni identità conflittuale del proletariato, anche nell’immaginario delle masse, spiega gli attacchi sistematici contro l’intera esperienza sovietica (che segnerà questo anniversario centenario sui mass media), e le campagne contro Paesi socialisti come la Cina e Cuba o contro ogni esperienza di rivoluzione e di liberazione nazionale nel mondo.
Il fatto è che la borghesia ha capito bene il valore della lotta di classe sul terreno dell’ideologia, dell’immaginario, delle narrazioni. Sembra a volte che costoro abbiano letto Gramsci più di noi, che lo abbiamo letto poco e male, e lo abbiamo spesso dimenticato. La borghesia sa bene che convincere il proprio avversario della sua inesistenza come soggetto costituisce uno strumento formidabile per poter ridurre l’avversario in schiavitù. Ed è esattamente quello che la borghesia ha fatto in tutti questi anni, non sufficientemente contrastata dai nostri gruppi dirigenti o addirittura sostenuta da alcuni in questo sporco lavoro.
Ripartire da Gramsci
7. Esiste tuttavia un patrimonio straordinario da cui il movimento operaio italiano e i comunisti potranno ripartire: il pensiero di Gramsci. E certo non a caso il pensiero di Gramsci è stato fatto oggetto di martellanti e vergognose campagne di falsificazione da parte della borghesia, volte a sostenere di volta in volta che Gramsci fosse un liberale, o un socialdemocratico, che abbia rinnegato il comunismo, o che si sia convertito in punto di morte, o che si sia suicidato, e altre infamie del genere, tutte assolutamente prive di qualsiasi prova e di qualsiasi elemento di verità.
A noi sembra di poter dire che nel vasto tesoro del suo pensiero spicchi un concetto, che non per caso è anche il concetto più utilizzato dagli studiosi di Gramsci fuori d’Italia (a cominciare dall’America Latina): il concetto di egemonia.
Si tratta di un concetto originale e complesso che cerchiamo di riassumere così: in ogni potere esiste secondo Gramsci una componente di dominio e una di egemonia , detto in altre parole una di coercizione e una di consenso, una di dittatura e una di democrazia etc. Ad esempio Gramsci afferma che una classe usa la dittatura verso i suoi avversari e usa l’egemonia verso i suoi alleati (Gramsci ha presente la vittoriosa alleanza operai-contadini che portò alla vittoria dell’Ottobre sovietico). La rivoluzione è dunque il punto più alto dell’egemonia esercitata da una classe; ma non solo: l’egemonia è anche la condizione necessaria perché la rottura rivoluzionaria possa avvenire ed avere successo. Dunque la lotta per l’egemonia è qui e ora!
L’egemonia è fatta anzitutto della capacità dei comunisti di risolvere i problemi reali posti dalla storia (ad esempio: nella Russia del 1917 la fine della guerra e la riforma agraria), dimostrando che la classe operaia può essere effettivamente una classe dirigente migliore della borghesia[5]. Tuttavia l’egemonia è fatta anche da un complesso apparato ideale, morale e culturale che i Comunisti debbono saper costruire con grande impegno e cura: cultura, formazione politica sistematica, grande attenzione alla scuola, riviste di ogni tipo, case editrici, autonomi mezzi di comunicazione di massa, diffusione capillare della stampa comunista e così via.
Nei suoi anni migliori (1944-1960 circa), quando passò da poche migliaia di iscritti a oltre due milioni di iscritti e otto milioni di voti, il PCI seppe fare tutto questo, utilizzando direttamente e attuando il pensiero di Gramsci. Questo apparato egemonico comunista fu poi – come sappiamo – intenzionalmente e sistematicamente distrutto.
Ebbene, questo ragionamento sull’egemonia vale anche a livello internazionale.
Un’esperienza rivoluzionaria deve anche saper parlare alle masse di tutto il mondo, e – in questo senso – esercitare indirettamente la sua egemonia sul movimento internazionale, anche in mancanza di vincoli organizzativi (quali furono, ad esempio, quelli dell’Internazionale Comunista, in una fase storica del tutto diversa dall’attuale).
Questa egemonia internazionale aiuta potentemente anche il processo rivoluzionario nazionale, oltre ad aiutare grandemente i movimenti rivoluzionari degli altri Paesi.
Per fare degli esempi banali, ma che forse aiutano a capire cosa intendiamo: la rivoluzione russa seppe esercitare una decisiva egemonia su tutto il movimento comunista mondiale sotto la direzione di Lenin e poi (si pensi alla grande guerra antifascista) anche sotto la direzione di Stalin. Le lotte antimperialiste seppero esercitare a lungo egemonia sull’immaginario dei rivoluzionari di tutto il mondo (si pensi alle figure di Ho Chi Min o di Ernesto “Che” Guevara) e l’esempio della resistenza diretta da Fidel Castro contro il bloqueo nord-americano ha rappresentato un elemento decisivo per le lotte e le vittorie dell’intero continente latino-americano; e altri esempi si potrebbero fare.
Ci permettiamo di sollevare il problema – in spirito di fraternità internazionalista – che forse la rivoluzione cinese, impegnata come era a risolvere con successo dei giganteschi problemi nazionali, ha trascurato nel recente passato questo aspetto.
Accade così che noi Comunisti italiani ed europei sappiamo ben poco della rivoluzione in Cina e delle scelte del PCC e le masse popolari, a proposito della Cina, sono completamente in balìa della propaganda che proviene dall’imperialismo USA ed europeo. Di certo questo avviene per nostra preminente responsabilità, ma forse anche perché non riceviamo un discorso informativo e politico rivolto specificamente verso di noi.
Insomma: sentiamo la mancanza di una proposta egemonica internazionalista che provenga dalla Cina e dalla sua straordinaria esperienza rivoluzionaria, in tal modo rafforzandola.
Lo studio diretto e aggiornato del pensiero di Gramsci (a cui forse i comunisti italiani potrebbero dare qualche diretto contributo) saprebbe aiutarci a costruire un lessico comune che favorirebbe la comunicazione e la conoscenza della rivoluzione cinese, e dunque contribuirebbe a costruire una nuova rivoluzionaria egemonia anche nell’Occidente capitalistico.
Raul Mordenti
Roma, 13 gennaio 2017
- A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Q.3, § 34. Questa frase di Gramsci ha rappresentato il titolo di un importante Convegno nazionale organizzato dalla Rete dei Comunisti nel novembre 2016, i cui atti sono in corso di pubblicazione. ↑
- Per questo la sconfitta al referendum di Renzi-Boschi-Verdini rappresenta una decisivo momento da cui si può e si deve ripartire. ↑
- Mi sia consentito il rinvio a: R. Mordenti, Non è che l’inizio. Vent’anni di Rifondazione Comunista, Milano, Punto Rosso,2011. ↑
- Questi gruppi dirigenti provenivano in massima parte dal PCI (Cossutta, Garavini, Ersilia Salvato, Libertini, quest’ultimo purtroppo presto scomparso), e in parte anche dalla “nuova sinistra” che seguì il ’68 (DP), in parte infine dalle formazioni trotzkiste (Maitan, Ferrando, etc.). Ma i rapporti organici di tutti costoro con la classe operaia e con il popolo si rivelarono presto scarsissimi, e fu pressoché nulla la capacità di produrre dal proletariato stesso e dalle sue lotte nuovi dirigenti di Partito, a tutti i livelli (non per caso la “formazione politica” di Partito fu sempre praticamente assente e anzi spesso osteggiata dai gruppi dirigenti). ↑
- Come Gramsci disse lodando il grande intellettuale liberale antifascista Piero Gobetti, che pur non essendo comunista aveva però capito questo. ↑
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