Armando Petrucci: il modello etico-politico di un professore del tutto diverso

Armando Petrucci: il modello etico-politico di un professore del tutto diverso, in * L’eredità di Armando Petrucci. Tra paleografia e storia sociale, a cura di A. Castillo Gòmez, Roma, Viella, 2022, pp. 147-154.

Raul Mordenti

Armando Petrucci: il modello etico-politico di un professore del tutto diverso

I volumi di scritti postumi che hanno fatto seguito alla scomparsa di Armando Petrucci (1932-2018) hanno contribuito – come raramente accade – a lumeggiarne meglio la figura. Ancora più raro, e più significativo, è il fatto che dalla pubblicazione di tali scritti (i quali per loro natura sono di solito marginali) la figura di Petrucci risulti invece arricchita, come può accadere solo per le personalità davvero multifomi e grandi.

Trascurando di necessità in questa sede i numerosi articoli e saggi commemorativi di amici ed allievi comparsi subito dopo la morte di Petrucci, mi riferisco in particolare a tre volumi.

Credo che si possa ritenere appartenente a questa serie anche un libro (pubblicato in vita, in limine) intitolato Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura[1] stampato da Carocci nel giugno del 2017; i testi sono tutti di Petrucci, che ne ha anche approvato la stesura finale e la pubblicazione, al punto che il curatore, Antonio Ciaralli, ha voluto nascondersi, con esemplare generosità più che filiale, in una Nota alla pubblicazione[2] firmata per giunta con le sole iniziali.

Il libro di 726 pagine è arricchito (come, da docente di paleografia, Petrucci amava sempre fare) da un imponente apparato di 137 Tavole, e può rappresentare una sintesi possibile di tutta l’attività del Nostro. Così, il riferimento alla letteratura italiana nel titolo del volume appare limitativo: se è vero infatti che esiste in questo libro una linea che percorre attraverso i secoli tutto ciò che è stato chiamato letteratura italiana (con specifici approfondimenti rivolti ai codici di Petrarca, al ms. Hamilton 90 autografo di Boccaccio, ad Alberti, etc. fino ad Autori italiani dell’Otto-Novecento), è anche vero che alcuni contributi sono di amplissimo respiro teorico e di interesse generale, e rappresentano allusioni o incunaboli di alcune delle maggiori ricerche di Petrucci, come i saggi dedicati ai problemi del primo scrivere in volgare, ai «fatti protomercanteschi», al «rapporto di scrittura», alle scritture dei semi-alfabeti, o al «volgare esposto», etc.

Il secondo volume di cui parlo, Scrittura documentazione memoria,[3] è stato voluto e pubblicato dall’ANAI, l’Associazione Nazionale degli Archivisti Italiani. È una sede editoriale che sarebbe certo piaciuta a Petrucci, il quale rivendicò sempre il suo essere stato, e voler restare, uomo di archivio e di biblioteca, considerando fondamentale nella sua formazione scientifica il lavoro svolto prima presso l’Archivio di Stato di Roma e poi presso la Biblioteca Corsiniana, così vicina alla “sua” piazza S. Cosimato, alla sua casa di Via Dandolo e a Trastevere. Facendo il bibliotecario «paleografo e diplomatista»,[4] Petrucci non solo si affinò come studioso[5] ma soprattutto imparò a concepirsi come lavoratore – essendo fra l’altro rappresentante sindacale dei suoi colleghi bibliotecari[6] – maturando un atteggiamento personale che restò sempre lontanissimo, anzi estraneo e ostile, rispetto a quello dei “baroni” universitari (ma su questo ritorneremo).

Si trovano fra l’altro in questo volume le tracce di un’esperienza straordinaria, voluta e costruita per anni da Petrucci con Attilio Bartoli Langeli: “Alfabetismo e cultura scritta. Seminario permanente”, un’esperienza che non si deve dimenticare. Si trattava di seminari residenziali di qualche giorno che riunivano (di solito in un convento di Perugia) attorno ai paleografi «padroni di casa», linguisti e storici, letterati e glottologi, pedagogisti e filologi etc., e del più vario livello accademico, da studenti laureandi o dottorandi fino alle più illustri autorità della cultura di quegli anni, tutti a discutere liberamente, ciascuno apportando il proprio sapere, e ciascuno imparando.[7]

I Seminari “Alfabetismo e cultura scritta” furono accompagnati anche da un economicissimo[8] bollettino di “Notizie”, ricco di relazioni e scritti (molti quelli di Petrucci), appunti, anticipazioni, schede, tavole etc., che testimonia un momento assai felice della ricerca umanistica italiana di cui chi scrive conserva un ricordo grato e incancellabile, così che appare assai opportuna la recente ristampa di quel bollettino.[9]

Ma nel prendere spunto dai libri postumi, mi riferisco soprattutto a un terzo prezioso volume, intitolato Scritti civili e uscito per i tipi di Viella,[10] che propone 63 interventi, fra interviste e articoli per lo più giornalistici, comparsi fra il 1972 il 2012. Il titolo, bellissimo, è stato scelto dai curatori in riferimento a una concezione alta della politica che fu di Ranuccio Bianchi Bandinelli: «ogni modo di realizzare le idee a beneficio della collettività».[11]

Non a caso, apre il volume una durissima lettera di dimissioni dalla “Mediaeval Academy of America” inviata da Petrucci nel dicembre del 1972 come protesta per la guerra in Vietnam:

Le ragioni di questo mio gesto non hanno nessun rapporto diretto con l’attività dell’Accademia stessa, ma risiedono nel fatto che essa è l’unica istituzione pubblica ed ufficiale degli Stati Uniti d’America della quale io faccia parte; e oggi le mie convinzioni politiche e la mia stessa coscienza mi impediscono di continuare ad avere una qualsiasi forma di rapporto con l’America ufficiale.[12]

Un gesto che va storicizzato perché il suo coraggio possa essere pienamente compreso: non solo in quegli anni non era affatto scontato per tutti che fosse deplorevole cosa bombardare città e villaggi sterminando la popolazione civile, ma occorre anche considerare che Petrucci nel 1972 era soltanto un semi-sconosciuto professore dell’Università di Salerno e non era stato certo riconosciuto in tutto il mondo come il massimo paleografo vivente.

La duratura radice di quel coraggioso atteggiamento, e il suo nesso vitale con l’attività di studioso di Petrucci, è ben descritta nella Premessa al volume di cui parliamo:

Petrucci dunque uomo ‘politico’, anzi ‘della politica’. (…) Cosciente del dovere, per un intellettuale, di non astenersi dall’agire concreto, (…) trovò nel campo della storia della scrittura il modo migliore per manifestare la sua militanza, costruendo nel concreto dell’attività scientifica un metodo che ha negli uomini il suo fondamento e in una visione globale del fenomeno grafico il suo scopo. Questa era la sua paleografia: una manifestazione specifica e peculiare della lotta di classe.[13]

Rientra in questo quadro l’insegnamento di Petrucci nei corsi cosiddetti delle “150 ore” all’Università. Le “150 ore” – un’esperienza anche in Italia oggi del tutto dimenticata – furono un’importante conquista sindacale, che consisteva in un monte-ore retribuito destinato allo studio, non (si noti questo punto cruciale) alla formazione professionale ma allo studio libero e disinteressato, rivolto alla formazione umana e al piacere della cultura. Fece allora molto discutere uno scambio di battute che, a quanto si disse, avvenne al tavolo della contrattazione; all’obiezione del rappresentante degli industriali «Ma anche per studiare il clavicembalo?», il rappresentante dei lavoratori rispose: «Sì, perché no?, anche per studiare il clavicembalo, se qualcuno vorrà farlo»; e l’immagine di un clavicembalo divenne la copertina di una pubblicazione dei corsi “150 ore”.

La conquista delle “150 ore” (per ciascun lavoratore, nel corso del triennio contrattuale) retribuite da dedicare allo studio fu prima ottenuta dai sindacati metalmeccanici, poi dai chimici e poi via via da tutte le altre categorie. Ai corsi “150 ore” potevano peraltro accedere anche casalinghe, disoccupati, etc.: 930 corsi si svolsero nel primo anno, 2.200 nel secondo, 3.800 nel terzo, e così via. Nella mia città, Roma, quella conquista si concretizzò anche in corsi serali presso le scuole pubbliche per il conseguimento dell’obbligo scolastico (la licenza di terza media), e non solo: 74 corsi si svolsero nel primo anno, 195 nel secondo, 250 nel terzo, decine di migliaia di persone ne fruirono (oltre un terzo donne).[14]

Anche presso alcune Università furono sperimentati corsi “150 ore”, alla “Sapienza” di Roma chi scrive promosse la loro organizzazione con insegnanti straordinari come Armando Petrucci, Tullio De Mauro, Alberto Asor Rosa, etc.[15] Corsi di paleografia per operai? Sì, perché no? Fu anzi quasi naturale, e molto importante, che ai corsi di Petrucci, dedicati alla storia della scrittura e del libro, partecipasse un folto nucleo di operai poligrafici, i quali diventavano così più consapevoli del passato e delle fondamenta del loro mestiere. Dunque più padroni del proprio lavoro: più liberi.

A questo punto del ragionamento diventa quasi inevitabile una curvatura di ricordo personale, che spero mi sia perdonata. Negli anni Settanta si presentava alla mia generazione, quella che fu definita «del ’68 », un grave problema che enuncerei così: come conciliare la nostra ostilità, anzi la nostra aperta lotta, verso i nostri professori di allora con la nostra vocazione alla ricerca e all’insegnamento universitario? Si ammetterà, era un problema assai complicato e di difficile soluzione, e può capirlo solo chi ricorda chi erano e come si comportavano i professori pre-’68, e non parlo tanto dei professori “normali” (come erano di solito quelli di Lettere) ma di quelli dotati di vero potere, come i Rettori o alcuni professori di Medicina e di Giurisprudenza, gli autentici “baroni”. Avremmo dato la vita per non somigliare loro, ci battevamo perché lo “stampo” che li aveva prodotti fosse infranto per sempre, eppure eravamo già allora innamorati sinceramente dell’Università pubblica, e il nostro amore era destinato a crescere nel tempo (fare come lavoro studiare e insegnare liberamente, in contatto permanente con gli studenti, ricevendo per questo perfino uno stipendio: cosa c’era di più bello al mondo?).

Ebbene, Armando Petrucci fu la soluzione di questo complicato problema (non credo solo per me, ma per tanti miei coetanei), e lo fu con l’esempio e il comportamento quotidiano, non con le parole: si poteva essere professori universitari in modo del tutto diverso. Di un tale professore del tutto diverso Petrucci forniva il modello etico-politico, che è quello che più conta.

Si poteva (ma dunque si doveva!) fare come lui, pubblicare gli autografi di Petrarca e Boccaccio, essere il migliore in assoluto nella propria discipina e – al tempo stesso – scegliere di tenere sempre aperta la porta del proprio studio allo scopo (come ci disse) di non imbarazzare gli studenti che avessero qualcosa da chiedergli; si poteva (ma dunque si doveva!) studiare intensamente e venire tutti i giorni all’Università e – al tempo stesso – partecipare alle assemblee e alle manifestazioni e scrivere sul “Manifesto”;[16] si poteva (ma dunque si doveva!) dare vita a ricerche originalissime e creative, che spostavano in avanti i confini della conoscenza umanistica e – al tempo stesso – accompagnare ogni anno le matricole a fare un giro a piedi al centro di Roma per leggere insieme a loro le scritture esposte e capirne la storia.

Non saprei dire, né tocca a me fare ipotesi, quali e quanto grandi prezzi siano stati fatti pagare a Petrucci per questo suo modo di essere un professore diverso, davvero degno della Costituzione della Repubblica. Certo è che qualsiasi prezzo gli sia stato imposto egli lo pagò con fermezza e serenità, forte delle sue convinzioni, e reso ancora più forte dalla solidarietà piena e costante della sua Franca.

E un discorso a parte (troppo lungo da fare in questa sede) meriterebbe la particolarissima generosità scientifica di Armando Petrucci: anche io (che non sono un paleografo né sono mai stato un suo studente) conservo una quantità di schedule e appunti, scritti con la sua bella calligrafia inequivocabile da bibliotecario, in cui Petrucci ci segnalava un manoscritto utile per la nostra ricerca, ci consigliava una lettura, ci forniva un suggerimento, oppure commentava e correggeva un nostro lavoro che aveva letto con cura e passione.

Era componente essenziale di questo modo di essere maestro, anche la franca manifestazione del dissenso verso i suoi allievi. Quando nel lontano 1996 posi mano allo sforzo di utilizzare l’informatica per i nostri studi (che mi avrebbe impegnato per oltre venti anni, fino ad oggi), fu naturalmente Petrucci il primo a cui mi rivolsi. Armando esprimeva al riguardo un sostanziale disaccordo, su cui pesava forse anche una certa prudente diffidenza misoneista[17], ma che credo derivasse soprattutto – come mi disse – dal fatto che la filologia aveva a che fare con fenomeni numericamente limitati se non unici (da possedersi interamente nella mente del filologo) mentre l’informatica dava il meglio di sé nella gestione dei grandi numeri.

E tuttavia quel fondamentale dissenso non gli impedì di prendere sul serio, molto sul serio, il problema che gli ponevo, e di discuterlo con me. Non c’è bisogno di sottolineare quanto sarebbe stato differente, in una simile circostanza, il comportamento di un “barone”.

Petrucci era ormai alla Normale di Pisa e (coinvolgendo come sempre sua moglie Franca) mi scrisse:

Noi abbiamo difficoltà a capire non tanto i tuoi ragionamenti (…) quanto i tuoi entusiasmi. I problemi che tu segnali e su cui ragioni sono reali, per quanto riguarda testi tramandati da autografi, idiografi e via discorrendo; le tue tematiche sono vicine a quelle dei critici genetisti francesi, con cui abbiamo discusso ad aprile in Scuola, come ben sai, ecc. ecc. Ma tutto ciò non mi pare che c’entri molto con l’idea di “edizione critica” e con la filologia tradizionale (entrambe in crisi gravissima di identità); soprattutto tra filologia funzionale all’edizione e studio degli aspetti materiali dei testi c’è rapporto, naturalmente, ma mediato e complesso; e lo studio degli aspetti materiali dei testi (e di questo siamo da tempo accaniti sectatores) non deve risolversi in riproduzione meccanica, ma in libera ricerca paleografico-codicologica come si fa da tempo, con o senza computer. E così sia… Comunque, ciò che sembra a me e a Franca è che occorrerebbe parlarne, a Roma o a Pisa; e seduti comodamente, magari con davanti vini e spaghetti; e dunque qui, nella nostra casetta pisana finalmente in via di completamento (in questi giorni).[18]

Quell’incontro ci fu, senza spaghetti né vini ma durato per molte e molte ore in un saletta della Normale, e fu per me fondamentale. Ciò che più conta è che quella lettera era accompagnata da fitte glosse di Franca e Armando Petrucci al testo che avevo loro mandato per esporre il mio progetto di un’edizione sostenuta dall’informatica. Scriveva Petrucci: «(…) rimandandoti indietro i tuoi testi con le nostre postille, perché molto spesso la chiarezza viene dalla glossa più che dal testo; e perché comunque testo e glossa finiscono per essere un tutt’uno.»[19]

Conservo ancora quelle mie sette paginette dattiloscritte fittamente glossate da Armando e Franca Petrucci, e rileggendole oggi vi trovo come in nuce i problemi che mi hanno accompagnato in tutti questi anni.

Fa parte dei suoi autografi che conservo gelosamente anche una lettera del 12 luglio 2007, che non mi sembra indiscreto citare in parte oggi, quando l’Autore non c’è più. Ringraziandomi di un mio dimenticabile libretto, Armando Petrucci mi scriveva:

Sì, Raul, usciamo, o meglio siamo nel centro di una sconfitta che vede in prima fila il connubio padroni-grande informazione, centro-sinistra, ma dobbiamo ugualmente (…) ricominciare e continuare. Un abbraccio politico forte (…) Tuo, col cuore (non a caso rosso!) Armando.[20]

R.M.

Roma, 3/1/-27/1/2020

  1. A. Petrucci, Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura, Roma, Carocci, 2017.
  2. Ivi, pp. 647-653.
  3. A. Petrucci, Scrittura documentazione memoria. Dieci scritti e un inedito 1963-2009, Con una premessa di Attilio Bartoli Langeli, Roma, Edizioni ANAI, 2019.
  4. Questa auto-definizione di Petrucci risale al 2004 ed è citata nella Premessa di Bartoli Langeli, ivi, p. 10.
  5. Penso ad esempio all’edizione da lui curata di Il libro di Ricordanze dei Corsini (1362-1457), Roma, Istituto Storico per il Medioevo, 1965, che tanto avrebbe poi contato nella nostra ricerca sui “libri di famiglia”.
  6. Il pensiero non può non andare a un altro nome grandissimo della nostra filologia, Sebastiano Timpanaro, il quale definiva se stesso come un lavoratore della tipografia (correttore di bozze), sindacalmente impegnato.
  7. Cito alla rinfusa (scusandomi in anticipo delle inevitabili dimenticanze) fra partecipanti: Franca Nardelli, Ugolino Nicolini, Federico Albano Leoni, Antonio Ciaralli, Ignazio Baldelli, Duccio Balestracci, Franco Cardini, Giorgio R. Cardona, Roger Chartier, Giovanna Casagrande, Paola Benigni, Paola Mildonian, Giuliano Catoni, Maddalena Signorini, Carlo Romeo, Monica Calzolari, Giancarlo Casnati, Guglielmo Cavallo, Anna Imelde Galletti, Alberto Grohmann, Raffaele Simone, Fabio Troncarelli, Harvey J. Graff, Pierluigi Petrobelli, Gabriella Milan, Daniele Marchesini, Michael T. Clanchy, Roberto Greci, Angela Frascadore, Gian Paolo Brizzi, Alberto Milanesi, Piero Severi, Elena Brambilla, Luisa Miglio, Xenio Toscani, Piero Lucchi, Emanuele Conte, Angelo Piemontese, Antonello Ricci, Mirko Tavoni, Francisco Gimeno Blay, Paolo Cherubini, Angelo Cicchetti, Leonida Pandimiglio, Marco Palma, Corrado Bologna.
  8. Curato personalmente, anzi personalmente prodotto, da Attilio Bartoli Langeli, ricorrendo alla dattiloscrittura e alle fotocopie; leggo in “Alfabetismo e cultura scritta. Notizie” che veniva chiesto ai lettori il contributo, volontario, di L. 1.000, oggi pari all’incirca a 50 centesimi di euro. Ne conservo una collezione forse incompleta di otto fascicoli dal marzo 1980 all’agosto 1987. Superfluo dire che “Alfabetismo e cultura scritta. Notizie” non sarebbe oggi una rivista “di fascia A” valida per i concorsi dell’Università italiana.
  9. Cfr. Alfabetismo e cultura scritta – Seminario permanente, Notizie 1980-1987. Ristampa anastatica, a cura di Attilio Bartoli Langeli e Antonio Ciaralli, Perugia, Cattedra di Paleografia latina dell’Università degli studi e Deputazione di storia patria per l’Umbria, 2012, pp. 436. La Premessa dei curatori alle pp. 7-8.
  10. A. Petrucci, Scritti civili, a cura di Attilio Bartoli Langeli, Antonio Ciaralli, Marco Palma, Roma, Viella, 2019.
  11. Cit. ivi, p. 14 e pp.169-171.
  12. Ivi, p. 21.
  13. Ivi, p. 14.
  14. Già questi numeri parlano, da soli, di una grande esperienza. Ma, a proposito dei problemi di memoria e di storia dei subalterni, ricordo che quando qualche anno fa un bravo studente, Roberto Frezza, si impegnò in una tesi di laurea sull’argomento (di cui fui il relatore), non c’era praticamente più alcuna traccia scritta di quell’esperienza, e Frezza fu costretto a ricostruirla essenzialmente sulla base di sue interviste ai protagonisti e su qualche residua testimonianza nella stampa sindacale del tempo. Cfr. R. Frezza, L’esperienza dei corsi “150 ore” a Roma (1973-1978): la produzione culturale alternativa, Tesi di laurea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma ‘Tor Vergata’, a.a. 2009-2010.
  15. Mi piace ricordare che quei corsi “150 ore” all’università “Sapienza” col sindacato non si interruppero neppure nel ’77 nel periodo del massimo conflitto fra movimento e sindacato, dopo lo sciagurato blitz di Lama, e continuarono a svolgersi nella Facoltà occupata.
  16. Si veda, per una rassegna dei giornali culturalmente militanti a cui Petrucci collaborava, il citato volume Scritti civili cit.
  17. Ad esempio fu sempre grande la sua ostiltà verso la critica di impianto semiologico (di gran moda in quegli anni) che Petrucci definiva polemicamente “il mal franzese”.
  18. Lettera autografa di Armando Petrucci (da Pisa, 28 agosto 1996), presso l’archivio privato di chi scrive.
  19. Ibidem.
  20. Lettera autografa di Armando Petrucci (da Pisa, 12 luglio 2007), presso l’archivio privato di chi scrive.

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