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Dante modello dell’intellettuale politico di Gramsci

Raul Mordenti

Dante modello dell’intellettuale-politico di Gramsci

1. Premesse necessarie

Il titolo di questa comunicazione richiede qualche spiegazione preliminare.

Parlando di «modello» non mi riferirò a un’eventuale lettura politica di Dante a cui Gramsci si sarebbe ispirato.

Una tale lettura, fortunatamente, in Gramsci non c’è affatto. Gramsci è una persona seria, non è Eugène Aroux (1793-1858), un deputato francese ex-liberale e poi clericale, che fu autore di un’opera intitolata Dante hérétique, révolutionnaire et socialiste. Révélations d’un catholique sur le Moyen Age (1853), dove le caratteristiche rivoluzionarie e socialiste di Dante erano evocate, naturalmente a sua condanna, da un punto di vista francamente reazionario (Aroux fu collegato a Cesare Cantù), riprendendo, ma rovesciando completamente nel giudizio di valore, le letture di Dante eretico e ghibellino della linea Foscolo-Rossetti.

Dico ancora, in premessa, che non affronterò il famoso saggio sul Canto X nei Quaderni del carcere[1], di cui ci siamo già occupati altrove. Tuttavia, possiamo prendere spunto da quel saggio perché Gramsci esplicita lì il suo giudizio sulla critica dantesca, ponendo un’infinita distanza fra il nuovo modo di fare cultura che propone e quello proprio dell’accademia; anzi Gramsci si lascia andare ad una specie di «urlo di guerra» classista facendo ricorso (cosa del tutto inconsueta per lui) anche al turpiloquio (benché si tratti di turpiloquio dantesco, si consideri il gesto di Vanni Fucci, in Inf., XXV 2):

Perché occorre infischiarsi del gravissimo compito di far progredire la critica dantesca o di portare la propria pietruzza all’edificio commentatorio e chiarificatorio del divino poema ecc., il modo migliore di presentare queste osservazioni sul Canto decimo pare debba essere proprio quello polemico, per stroncare un filisteo classico come Rastignac [Pseudonimo di Vincenzo Morello, autore del libretto dantesco criticato da Gramsci, NdR], per dimostrare, in modo drastico e fulminante, e sia pure demagogico, che i rappresentanti di un gruppo sociale subalterno [cioè Gramsci stesso] possono far le fiche, scientificamente e come gusto artistico, a ruffiani intellettuali come Rastignac[2].

C’è dunque in Gramsci come un sovrappiù di polemica, direi quasi di risentimento personale, verso la critica dei critici, cioè accademica e «brescianesca», e non è secondario che Dante sia il luogo in cui tale polemica si esplicita.

D’altra parte esiste in Gramsci una «lunga fedeltà» a Dante. Basti dire che già nella prima lettera scritta dopo l’arresto e rivolta alla sua padrona di casa Clara Passarge, Gramsci chiedeva di ricevere in prigione due libri di sua proprietà (una grammatica tedesca e il Breviario di linguistica di Giulio Bartoli), ma uno solo era il libro che chiedeva fosse acquistato per lui: «3° gratissimo le sarei se mi inviasse una Divina Commedia di pochi soldi, perché il mio testo lo avevo imprestato»[3].

Dunque la Divina Commedia è l’unico libro di cui Gramsci sembra non poter fare a meno, al punto da chiedere a una semisconosciuta di comprarlo per lui. Né per Gramsci conta l’edizione (il libro, scrive, può essere «anche di pochi soldi»), conta solo che egli possa avere con sé una Divina Commedia e leggerla, anche in carcere.

In realtà la «lunga fedeltà» all’Alighieri è assai più antica, giacché Gramsci legge, usa e cita Dante ininterrottamente, fin dagli anni del suo impegno politico-giornalistico; anzi prima ancora, se è vero che in una lettera al padre del 4 novembre 1911 (dunque una lettera precocissima di Nino appena studente universitario a Torino) chiede al padre Francesco: «Non tardare a fare la spedizione della roba e dei libri, fra i quali metterete la ‘Vita Nuova’ di Dante e le ‘Poesie’ del Cavalcanti»[4].

Nel Gramsci del carcere Dante è assai presente: contiamo nei Q ben 105 occorrenze di «Dante» e 26 nelle LC, mentre «Divina Commedia» è presente 12 volte nei Q e 12 nelle LC. «Petrarca» invece nei Q compare solo 13 volte, di solito perché il nome è presente nel titolo di libri o saggi, e una sola volta è fatto oggetto di argomentazioni (come vedremo: di stretto sapore desanctisiano), nelle LC Petrarca non compare mai (su questo paragone Dante-Petrarca torneremo fra poco).

Nel saggio del Q4 sul Canto X Gramsci dimostra inoltre una conoscenza non superficiale della critica dantesca: Fedele Romani, Foscolo, De Sanctis, Isidoro Del Lungo, Sicardi, Russo, Gargàno, e naturalmente Umberto Cosmo, su cui torneremo, via via «scendendo per li rami» (è il caso di dirlo) fino a Rastignac-Morello. Ma, come sempre, l’interlocutore principale di Gramsci è Benedetto Croce, il cui lavoro La poesia di Dante[5] era stato posto alla base delle celebrazioni dantesche del 1921, quando Croce tenne, come Ministro, la prolusione inaugurale di quelle celebrazioni. Di certo le celebrazioni del centenario dantesco del 1921 acuirono in Gramsci l’aspra sensibilità polemica di cui si è detto, e su quelle celebrazioni occorre soffermarci, trovandoci anche noi nel bel mezzo di una celebrazione centenaria dantesca.

2. Le celebrazioni dantesche

Già nel 1865, in occasione del centenario della nascita di Dante, re Vittorio Emanuele II, identificato senz’altro nel «gran Veltro», scoprì in piazza S. Croce a Firenze, provvisoria capitale d’Italia, la grande statua di Dante dello scultore Enrico Pazzi, e il 14 maggio Giambattista Giuliani vi tenne un discorso intitolato Per il sesto e primo festivo centenario (non essendosi potuti celebrare gli altri cinque centenari in modo festivo a causa della servitù d’Italia). «Nulla di simile a quella celebrazione si era mai visto prima in Italia, né si vide poi», scrive Carlo Dionisotti[6].

Dal punto di vista accademico, videro la luce due volumi in folio di poco meno di mille pagine intitolati Dante e il suo secolo, e purtroppo anche quindici volumi a cura di Carlo del Balzo col titolo Poesie di mille autori intorno a Dante Alighieri, leggendo i quali anche il più infaticabile dei lettori, Carlo Dionisotti, dichiara che «non regge allo sgomento di quel che l’attende e abbandona l’impresa»[7].

Fu tutto un fiume di retorica patriottica, che aveva anche alla base – come sempre la retorica patriottica – l’esigenza del potere vigente di fare dimenticare altre cose, in questo caso la “strage di Torino” che il 21-22 settembre 1864, proprio in occasione del trasferimento della capitale da Torino a Firenze, aveva visto i Carabinieri del re Vittorio Emanuele II (fosse da identificare in lui, oppure no, il Veltro dantesco) sparare sulla folla provocando 62 morti e centinaia di feriti.

In ogni caso il tono al tempo stesso enfatico e superficiale di quelle celebrazioni del 1865 suscitò le reazioni di De Sanctis e Carducci, una volta tanto del tutto concordi. Francesco De Sanctis scrive alla moglie Marietta nel maggio 1865:

Sento cantar per le vie: spille di Dante a quattro soldi! Ne ho presa una, come curiosità e memoria. Hanno reso ridicolo Dante. Vendono perfino i confetti di Dante[8].

Carducci aveva definito quel 1865 «l’anno dell’entusiasmo degli sfarfallati»9. E si era scagliato contro la «filoleria» (termine desunto da Giordani: lèros in greco significa «cicaleccio», «ciarla», «sciocchezza» etc.):

Perché in tanta afa d’ipocrisie politiche e letterarie rinfresca dire il vero – perché se Dante potesse mai diventar noioso e dannoso, i dantisti o danteschi o dantofili avrebbero finito col riuscire a farlo. E non intendo mica i dissertatori del su lodato piè fermo e gli spulciatori illustri delle varianti: la entomologia è in natura, e la filoleria ne ingrassa, e senza filoleria come si farebbe a spender quattrini per dare cattedre alla gente?10.

Il sesto centenario della morte di Dante, il 1921, fu anche peggio. Le celebrazioni furono aperte a Ravenna il 14 settembre (proclamato festa nazionale dantesca: altro che Dantedì!) del 1920 dalla citata prolusione del Ministro Benedetto Croce, e D’Annunzio dette il tono alle celebrazioni con un corteo di reduci da Fiume e la partecipazione straordinaria della madre di Francesco Baracca. Le celebrazioni di Dante a Firenze e a Roma coincidevano con il ricordo della vittoria della guerra e col nuovo culto dei caduti (è anche l’anno della traslazione della salma del Milite ignoto), ma in verità celebrazioni si svolsero in tutto il mondo con lo scoprimento di statue e targhe. Vi partecipò a modo suo anche papa Benedetto XV con un’enciclica a polemizzare contro l’idea di Dante ghibellino, e a Ginevra la Società delle Nazioni commemorò Dante.

3. Vi è censura contro Petrarca e il suo «modello»?

Dalle celebrazioni di Dante prende spunto un illustre italianista per lamentare, in un suo importante libro Petrarca, l’italiano dimenticato[9], una rimozione e una censura operata in nome di Dante ai danni di Petrarca (posizione ripresa e condivisa da altri autorevoli intellettuali, come Galli Della Loggia):

è l’invenzione di Dante a destabilizzare il primato, fino a quel momento incontrastato, di Petrarca, e a estrometterlo […] dal Pantheon delle itale glorie. Da allora Petrarca è il padre destituito, epurato, dimenticato: perché ingombrante e imbarazzante scheletro di un passato che non deve più tornare. Da allora Petrarca è il simbolo di quello che l’Italia non vuole più essere, come nazione e come cultura: è il modello di poesia e di intellettuale da criticare, dileggiare, rifiutare. È il simbolo del non italiano[10].

Dante è, e resterà, il polo positivo, Petrarca quello negativo. Dante è, e resterà, la nuova Italia della libertà e dell’unità, laica e civile, municipale e patria, operosa nelle cose; Petrarca la vecchia Italia della servitù e delle tirannie, aristocratica e clericale, senza patria o municipio, oziosa tra i formalismi della parola[11].

Sulla stessa linea, ma senza polemica, altri studiosi non meno autorevoli: Dante è il poeta civile, è il politico militante, è l’intellettuale engagé che ha pagato con l’esilio la difesa a oltranza dei propri ideali, il profeta dell’Italia, in cui vive la stretta correlazione fra vita e poesia. Naturalmente, da altri punti di vista, quello appena pronunciato è anche l’elenco delle sue colpe nei confronti della letteratura.

Non c’è dubbio che la polarizzazione dei due «modelli» Dante e Petrarca abbia connotato profondamente tutta intera la vicenda letteraria italiana, come vide bene già Foscolo. Fra quei due grandi modelli storicamente fu Giovanni Boccaccio a dover scegliere. Billanovich definì Boccaccio «il più grande discepolo» di Petrarca, ma a ben vedere egli sarebbe potuto essere anche «il più grande discepolo» di Dante, anzi l’unico possibile: fiorentino, conoscitore precoce e ammirato delle opere di Dante e anzi loro diffusore, scrittore in volgare, interessato al mondo, affascinato e innamorato del mondo, immerso nel mondo, tutto ciò faceva di Boccaccio l’unico erede possibile di Dante.

Non per caso Giovanni Boccaccio copia nel suo Zibaldone Laurenziano[12] un cruciale dibattito poetico fra Giovanni del Virgilio e Dante Alighieri: il primo rimprovera al secondo di abbassarsi usando il volgare, il secondo risponde (e sfoggiando uno splendido latino) motivando e rivendicando la propria scelta[13]. Se Dante tiene ben ferma la sua scelta della poesia in volgare nello scambio con il maestro di retorica di Bologna, non si può dire altrettanto abbia fatto l’unico erede possibile di Dante, nei suoi scambi con Petrarca. La questione è tanto decisiva quanto complessa, e non la si può certo affrontare in questa sede. Basti dire che nello scambio di lettere fra Petrarca e Boccaccio (specie quelle aventi per oggetto Dante, in cui si misura tutta la capacità egemonica del poeta laureato) si è consumato un passaggio veramente cruciale della nostra storia letteraria.

D’altra parte nei due «modelli» giocano fattori divisivi di natura politico-ideologica tuttora vigenti: è il conflitto fra un’idea di poesia pura, liberamente rivolta a sé stessa e tutta dedita alla forma, e una poesia spuria, inquinata da intenzioni allotrie, e (quel che è peggio!) impegnata nella politica. Non a caso il libro di cui parliamo si apre con un’espressione, che voglio credere scherzosa ma che di certo è altamente significativa: «È tutta colpa di Togliatti e dell’egemonia culturale dei comunisti»[14].

In verità, chi scrive (confessando apertamente la propria parzialità) non vede traccia alcuna di dimenticanza, rimozione, epurazione, destituzione, oblio, dileggio e rifiuto di Petrarca[15]. Anche considerando che c’è stato, e dura fino a noi, un fiorente petrarchismo nella tradizione poetica italiana, mentre paradossalmente non c’è pressoché traccia di una linea poetica che si possa definire «dantismo»[16], e – soprattutto – considerando che non sembra che nella cultura italiana spesseggino intellettuali dantescamente disposti a sacrificare sé stessi, la propria carriera e la propria vita per restare fedeli ai propri ideali e valori, semmai (mi permetto di dire) è padre Bresciani, nipotini e pronipotini al seguito, a funzionare da modello operante e vigente19.

Ma tant’è: qui emerge un dissenso vero e radicale, che è sempre bene poter esplicitare e discutere, su un punto davvero dirimente della nostra tradizione culturale, e – ciò che più ci interessa in questa sede – qui emerge una chiarificazione limpida di cosa si debba intendere, o almeno io intenda, parlando di «modello».

  1. Il poeta-letterato e la sua negazione

In verità non si tratta affatto del confronto fra due idee di poetaletterato, appunto perché una tale idea, cioè la riduzione dell’intellettuale a poeta-letterato, è esattamente il portato della grande operazione petrarchesca che istituisce la figura di poeta-letterato (cioè sé stesso) come «modello», e rappresenta il frutto più duraturo del suo successo (e dunque della storica sconfitta del «modello Dante»).

Poiché, come ci insegna De Sanctis, se vogliamo intendere gli scrittori occorre porsi nel loro tempo e nelle loro idee, allora non si può retrodatare anacronisticamente l’idea di poeta-letterato petrarchesca (o, se si vuole: l’idea di poesia idealistico-romantica), come se essa sia sempre esistita e debba durare sempre. È questo un effetto deformante sullo svolgimento della letteratura di cui dobbiamo ringraziare la gran parte della storiografia letteraria scolastica: si assumono categorie critiche e interpretative oggi vigenti (il concetto di poesia e di poeta, il concetto di critica letteraria, lo stesso concetto di letteratura, etc.) e le si proiettano all’indietro nel tempo, anche quando esse non esistevano ancora.

Dunque, in questo senso oso dire che Dante non fu affatto un poetaletterato, e conoscendolo ormai un poco, credo che non l’avrebbe passata liscia chi lo avesse definito così, dato che egli dice di sé stesso di essere il cantore della rettitudine («illlustres viros invenimus vulgariter poetasse […] Cynum Pistoriensem amorem, amicus eius[17] rectitudinem»[18]) e si attribuisce come compito «gridare a la gente che per mal cammino andavano, acciò che per diritto calle si dirizzassero»[19]. Niente di meno che questo. Dunque, un ruolo salvifico, che vive anche nella sua costante lotta politica e culmina nella funzione di profeta che egli si autoattribuisce.

E come in Dante vive di fatto la negazione più radicale del modello poeta-letterato, così con Petrarca si fonda duraturamente la negazione del modello-Dante.

4.1. Un intellettuale “di nessuna dottrina digiuno” («nullius dogmatis expers»).

Due caratteristiche colpiscono come determinanti in quel «modello» di intellettuale che fu di Dante: la prima è l’assenza di limiti e distinzioni di ambiti nella cultura, cioè la vigenza di una tassonomia disciplinare medioevale del tutto diversa da quella che prevede la figura del poetaletterato del tutto estraneo da discipline non abbastanza umanistiche; la seconda è il rapporto diretto e vitale del poeta e della poesia con il popolonazione.

Entrambe queste caratteristiche sono non a caso poste all’inizio, in evidenza, dell’epitaffio dettato in morte di Dante dal suo contemporaneo Giovanni del Virgilio (che già abbiamo incontrato come interlocutore dell’Alighieri):

Theologus Dantes, nullius dogmatis expers quod foveat claro philosophia sinu; gloria Musarum, vulgo gratissimus auctor, hic iacet[20]

Quanto alla prima caratteristica, stando alla tassonomia disciplinare nostra (che è di fatto ottocentesco-universitaria e che, lo ripeto, non fu affatto la sua), Dante si occupa di teologia, di poesia d’amore, di filosofia, di linguistica, di diritto, di astronomia/astrologia, delle acque e delle terre emerse del pianeta, combatte armi in pugno a Campaldino, è priore della sua città e capo fazione, ambasciatore e oratore, per Firenze e anche per le città dove gli toccò vivere, e si occupa (direi più di tutto e sempre) di politica.

Boccaccio nel Trattatello si sorprende che Dante abbia potuto produrre cultura avendo avuto un tale impegnata vita:

Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozione di sollecitudine e tranquillità d’animo desiderare, e massimamente gli speculativi, a’ quali il nostro Dante, sì come mostrato è, si diede tutto. In luogo della quale rimozione e quiete, quasi dallo inizio della sua vita infino all’ultimo della morte, Dante ebbe fierissima e importabile passione d’amore, moglie, cura familiare e publica, esilio e povertà[21].

Così come (in un contesto storico evidentemente diverso) l’intellettuale organico di Gramsci, il quadro operaio ordinovista o il dirigente di partito che egli ha in mente, non conosce limiti e confini disciplinari: è specialista+politico, «storico integrale» e «filosofo in atto», è «produttore» e «politico-intellettuale», «organizzatore permanentemente», è «moderno Principe», in quanto membro del partito «intellettuale collettivo», è il sartriano «tecnico dell’universale» o lo «specialista dell’universale» di cui parla Fortini, è l’addetto all’educazione di tutti ad opera di tutti, che è la più precisa definizione fortiniana di «rivoluzione».

E, infine, è anche capace di occuparsi di critica dantesca, cioè di entrare nel sancta sanctorum della cultura accademica del suo tempo, dimostrandosi in grado di battere «scientificamente e come gusto artistico, […] ruffiani intellettuali come Rastignac»[22].

4.2. Un intellettuale legato al popolo-nazione («vulgo gratissimus auctor»)

Quanto alla seconda caratteristica, la condivisione universale della cultura, essa rappresenta la vera ratio di tutta l’inesausta sperimentazione dantesca, a cominciare dalla inaudita invenzione di usare il volgare per parlare del Cielo e della Terra, di ogni vicenda umana e di Dio.

Non potrebbe essere più netta la contrapposizione con ciò che Petrarca scrive nella lettera Familiare XXI 5[23], rivolta a Boccaccio, proprio per difendersi dall’accusa di aver invidiato Dante. Leggiamo a proposito del volgare:

Non posso invece se non lamentarmi e disgustarmi [il latino della lettera di Petrarca qui è più forte della traduzione: «queror et stomacor»] che il volto della sua poesia venga imbrattato e sputacchiato dalle loro bocche [«inertibus horum linguis conspui fedarique»]; e qui colgo l’occasione per dire che questa fu non ultima cagione ch’io abbandonassi la poesia volgare, a cui da giovane m’ero dedicato; temevo infatti che anche ai miei scritti non accadesse ciò che vedevo accadere a quelli degli altri e specialmente del poeta di cui parlo [si tratta di Dante, che Petrarca nella lettera non chiama mai per nome]. […] E i fatti comprovano che i miei timori non erano vani, poiché quelle stesse poche poesie volgari che giovanilmente mi vennero scritte in quel tempo [si tratta del Canzoniere!] sono continuamente malmenate dal volgo [«vulgi linguis assidue laceror»], sì che ne provo sdegno, e odio quel che un giorno amai[24].

E questa è la conclusione, come si vede svalutativa di Dante, a cui Petrarca concede volentieri la palma indesiderata della poesia volgare:

«Ma, dimmi, come è mai possibile ch’io invidi uno che dedicò tutta la sua vita a quegli studi cui io sacrificai appena il primo fiore della giovinezza, sì che quella che per lui fu, se non unica, ma certo arte suprema, fu da me considerata uno scherzo, un sollazzo, un’esercitazione dell’ingegno? [«iocus atque solatium fuerit et ingenii rudimentum»]. […] e a chi porterà invidia chi neppur di Virgilio è invidioso, se pur non si dica ch’io invidi a costui l’applauso e le rauche grida dei tintori, degli osti, dei lottatori [«fullonum et cauponum et lanistarum», cioè dei lavatori di panni, degli osti, dei lenoni] e d’altri la cui lode è un’offesa. sicché mi compiaccio d’esserne privo insieme con Virgilio e Omero?»[25].

5. Il modello Dante, e la critica a Petrarca, provengono a Gramsci da De Sanctis (attraverso Umberto Cosmo).

La critica a Petrarca di Gramsci, nell’unico punto dei Quaderni in cui ne parla (nel Q5, del 1930-32), è integralmente desanctisiana, quasi ad verbum. Scrive Gramsci, a commento di un saggio sul Rinascimento di Vittorio Rossi:

Il Rossi non riesce a porre il distacco tra Medio latino e latino umanistico o filologico come egli lo chiama; non vuol capire che si tratta in realtà di due lingue, perché esprimono due concezioni del mondo, in certo senso antitetiche, sia pure limitate alla categoria degli intellettuali […]. Il Petrarca, si può dire, è tipico di questo passaggio: egli è un poeta della borghesia come scrittore in volgare, ma è già un intellettuale della reazione antiborghese (signorie, papato) come scrittore in latino, come “oratore”, come personaggio politico. Ciò spiega anche il fenomeno cinquecentesco del “petrarchismo” e la sua insincerità: è un fenomeno puramente cartaceo, perché i sentimenti da cui era nata la poesia del dolce stil nuovo e del Petrarca stesso, non dominano più la vita pubblica, come non domina più la borghesia comunale, ricacciata nei suoi fondachi e nelle sue manifatture in decadenza. Politicamente domina un’aristocrazia in gran parte di parvenus, raccolta nelle corti dei signori e protetta dalle compagnie di ventura: essa produce la cultura del Cinquecento e aiuta le arti, ma politicamente è limitata e finisce sotto il dominio straniero[26].

Come si vede, l’argomentazione di Gramsci a proposito di Petrarca è prettamente desanctisiana (così come lo è anche anche il lessico), anzi si può dire che il Gramsci critico della letteratura sia sempre e per intero desanctisiano.

Noi ormai conosciamo bene chi sia stato il tramite vivente fra De Sanctis e Gramsci: si tratta di Umberto Cosmo (1868-1944), un dantista di vaglia, una bella figura di pacifista cristiano e antifascista, che ad opera del fascistissimo professore e senatore Vittorio Cian fu perseguitato accanitamente, privato dell’insegnamento, cacciato e infine condannato al confino[27].

Nell’anno accademico 1912-13 Cosmo fu supplente di Arturo Graf, ammalato, all’università torinese e tenne un corso seguito fra gli altri dagli studenti Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti[28]: ed era un corso su De Sanctis e, più precisamente, sulle letture desanctisiane di Dante[29]. Che io sappia, si tratta del primo corso in un’università italiana dedicato alla critica desanctisiana. Le due lezioni conclusive (del 15 maggio e del 29 maggio 1913) furono sul canto di Farinata secondo De Sanctis, e non certo per caso sarà sul canto di Farinata il più impegnativo lavoro critico di Gramsci nel carcere[30]. Al suo vecchio professore Gramsci – come è noto – si rivolgerà dal carcere per averne un parere e un consiglio a proposito del suo saggio sul Canto X.

Ma prima ancora di quella richiesta, Gramsci aveva reincontrato Cosmo (che accompagnava Frassati nell’ambasciata italiana) a Berlino nel 1922, e abbiamo un resoconto vivacissimo di quell’incontro affettuoso in una lettera di Gramsci dal carcere:

D’altronde serbo del Cosmo un ricordo pieno di affetto e direi di venerazione, se questa parola non avesse un significato che non si adegua ai miei sentimenti; era e credo sia tuttora di una grande sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che è propria dei grandi eruditi e studiosi. Ricorderò sempre il nostro incontro del 22 nell’androne maestoso dell’Ambasciata italiana a Berlino[31]. Nel novembre del 1920 avevo scritto contro il Cosmo un articolo violentissimo e crudele come si riesce a scriverne solo in certi momenti critici della lotta politica; seppi che egli si mise a piangere come un bambino e stette chiuso in casa per alcuni giorni. I nostri rapporti personalmente cordiali di maestro ed ex allievo si ruppero. Quando nel 22 il solenne guardiaportone dell’Ambasciata si degnò di telefonare al Cosmo, nel suo gabinetto diplomatico, che un certo Gramsci desiderava essere ricevuto, rimase sbalordito nel suo animo protocollare, quando il Cosmo discese di corsa le scale e mi si precipitò addosso inondandomi di lacrime e di barba […] Era in preda a una commozione che mi sbalordì, ma mi fece capire quanto dolore gli avessi procurato nel 1920 e come egli intendesse l’amicizia per i suoi allievi di scuola[32].

Del tutto desanctisiana è l’idea-forza di Gramsci a proposito dei fatti letterari, la stessa che organizza il grande racconto della Storia della letteratura italiana e il suo strutturante paradigma, secondo cui il nesso fra letteratura e popolo-nazione rappresenta anche il criterio di valore: quando tale nesso vive si verificano artisticamente i momenti più alti (come l’eccellenza assoluta di Dante dimostra), mentre quando la letteratura si separa dalle sue scaturigini popolari-nazionali si apre la strada della «corruttela», cioè della decadenza delle lettere e della nazione, un processo che – come è noto – per De Sanctis comincia già con Petrarca, aggravandosi poi nell’Umanesimo e toccando il fondo nell’aborrito Seicento del Marino e nell’Arcadia. A ben vedere, è questo medesimo paradigma, anzitutto etico-politico, che conduce Gramsci ad asserire l’esemplarità di Dante (e, per altri aspetti, di Machiavelli) e a condannare tanta parte dell’intellettualità fascista del suo tempo all’inferno, la Caina, del «brescianesimo», una categoria anch’essa desunta da De Sanctis e dalla sua polemica col gesuita padre Antonio Bresciani («brescianesimo» significa disonestà intellettuale e morale, ipocrisia, viltà, servilismo, etc.).

6. Tutti gli uomini desiderano sapere

Torniamo dunque alla seconda e decisiva caratteristica del «modello Dante», la condivisione universale della cultura.

Risuona ad esordio del Convivio la strepitosa affermazione «tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere», che come è noto porta con sé, secondo Dante, anche un nuovo compito dell’intellettuale: essere addetto alla mediazione fra l’alto e il basso, alla condivisione universale del sapere:

Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti[33].

C’è dietro non solo il primo libro della Metafisica di Aristotele (Metaph. I, 1, 980a 21) («Tutti gli uomini per natura tendono al sapere») ma anche il capitolo X, 7 sulla felicità dell’Etica Nicomachea:

Se dunque la felicità è un’attività conforme a virtù, logicamente essa sarà conforme alla virtù superiore; e questa sarà la virtù della parte migliore dell’anima. Sia essa dunque l’intelletto oppure qualcosa d’altro, che per natura appaia capace di comandare e guidare e avere nozione delle cose belle e divine o perchè esso stesso divino perché è la parte più divina di ciò che è in noi, comunque la felicità perfetta sarà l’attività di questa parte, conforme alla virtù che le è propria. Che essa sia l’attività contemplativa è stato detto[34].

Ma proprio l’idea, affermata dall’Etica Nicomachea, che la felicità consista nell’esercizio della più nobile facoltà umana, l’intelletto, perfettamente libero da ogni contingenza, è tale da destituire completamente l’efficacia della precedente affermazione aristotelica in merito alla naturale universalità umana del sapere, poiché se la felicità consiste nel puro esercizio dell’intelletto, e cioè nella contemplazione, ne deriva la necessità per l’uomo veramente tale di liberarsi dal lavoro produttivo, o meglio di delegarlo a un altro uomo non veramente uomo. Il primo, l’uomo libero dedito alla contemplazione, è il signore, il secondo, l’uomo addetto a consentire la contemplazione del primo fornendogli col proprio lavoro i beni necessari al corpo, è il servo (cioè lo schiavo).

Da ciò deriva, ancora con assoluta coerenza e necessità, la legittimazione della schiavitù, la cosiddetta «antropologia signorile», che segna per intero la storia dell’Occidente (e su cui hanno riflettuto Franco Rodano e Vittorio Tranquilli)[35].

Ecco dunque che per poter diventare operativa e dirompente nella storia, la rivendicazione dantesca del carattere universale del diritto al sapere ha bisogno di essere completata e corretta da un’altra affermazione inaudita, quella che si deve ad Antonio Gramsci nel primo paragrafo del Q 12 (1932):

Tutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire perciò; ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali[36]

E quest’affermazione (da nessuno fatta mai prima di lui, e in verità nemmeno dopo di lui) deriva da un assunto ancora più sconvolgente e straordinario, cioè che il sapere in realtà proviene dal lavoro e che nessun lavoro umano, per quanto alienato, deformato e dimidiato, sia privo di elementi di intelligenza:

in qualsiasi lavoro fisico, anche il più meccanico e degradato, esiste un minimo di qualifica tecnica, cioè un minimo di attività intellettuale creatrice[37].

Ma per declinare un tale tema mettendo al centro la volontà, e la possibilità, di sapere che caratterizza e accomuna tutti i nati di donna, e che si realizza attraverso il lavoro, servirebbe un’altra relazione, un altro convegno, un altro centenario, e probabilmente un’altra generazione.

  1. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, 4 voll., Einaudi, Torino 1975. D’ora in poi citati con l’abbreviazione Q seguita dal numero del quaderno e dalle pagine di questa edizione.
  2. Gramsci, Q 4, p. 529.
  3. A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Einaudi, Torino 1965, p. 3. D’ora in poi citate con l’abbreviazione LC.
  4. A. Gramsci, Epistolario, I, gennaio 1906-dicembre 1922, a cura di D. Bidussa, F. Giasi, G. Luzzatto Voghera e M.L. Righi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2009, p. 75.
  5. B. Croce, La poesia di Dante (1920), Laterza, Bari 19589.
  6. C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante (1966), ora in Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967, p. 279.
  7. Ivi, p. 281.
  8. Cit. in T. Iermano, I confetti di Dante, in «Studi Desanctisiani», IV, 2016, p. 10. 9 G. Carducci, Studi. Saggi e discorsi, Zanichelli, Bologna 1898, vol. X, p. 373. 10 Ivi, p. 855.
  9. A. Quondam, Petrarca, l’italiano dimenticato, Rizzoli, Milano 2004.
  10. Ivi, pp. 39-40.
  11. Ivi, p. 62.
  12. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. XXIX, 8.
  13. Lo scambio poetico si può leggere nello Zibaldone Laurenziano (si tratta dei testi nn. 38-41 dell’edizione dello Zibaldone da me curata in corso di stampa): Carme di Giovanni del Virgilio: Pyeridum vox alma (cc.67v-68r), Egloga I di Dante a Giovanni del Virgilio: Vidimus in nigris albo (cc.68r-69r), Egloga responsiva di Giovanni del Virgilio a Dante: Forte sub inriguos colles (cc.69r-71r); Egloga II di Dante a Giovanni del Virgilio: Velleribus colchis (cc.71r-72v). La tradizione (fatta propria da Boccaccio) vuole che Dante non abbia potuto inoltrare la sua estrema risposta a causa della morte.
  14. Ivi, p. 8.
  15. Basterebbero a confermarlo alcuni importanti lavori di un Collega di questo Ateneo che ci ospita: L. Marcozzi, Petrarca lettore. Pratiche e rappresentazioni della lettura nelle opere dell’umanista, Cesati, Firenze 2016; Lessico critico petrarchesco, a cura di L. Marcozzi, R. Brovia, Carocci, Roma 2016; L. Marcozzi, Bibliografia ragionata degli studi petrarcheschi recenti (2004-2006), in «Bollettino di Italianistica», III, n. 2, 2006, pp. 95-140.
  16. Altra cosa, naturalmente, è il «culto di Dante», che con la poesia c’entra veramente poco. 19 Mi sia consentito il rinvio a: R. Mordenti, De Sanctis, Gramsci e i pronipotini di padre Bresciani, Bordeaux, Roma 2019.
  17. Cioè lo stesso Dante, che non si nomina per modestia.
  18. D. Alighieri, De Vulgari Eloquentia, II ii 8, in Opere minori, to. II, a cura di P.V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, E. Cecchini, F. Mazzoni, Ricciardi, MilanoNapoli 1979, p. 152-153.
  19. D. Alighieri, Convivio, IV i 9, in Opere minori, to. I, parte ii, a cura di C. Vasoli e D. De Robertis, Ricciardi, Milano-Napoli 1988, p. 532.
  20. «Il teologo Dante, di nessuna dottrina digiuno, / che nel suo chiaro seno nutra filosofia; / gloria delle Muse, autore gratissimo al volgo, / qui giace».
  21. G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, a cura di B. Maier, Rizzoli, Milano 1965, cap. IV, p. 29.
  22. Gramsci, Q 4, p. 529.
  23. F. Petrarca, Fam., XXI, 15 A Giovanni da Certaldo, difendendosi da una calunnia mossagli dagli invidiosi, in Prose, a cura di G. Martellotti, e di P.G. Ricci, E. Carrara, E. Bianchi, Ricciardi, Milano-Napoli 1955, n. 23, pp. 1002-1014.
  24. Ivi, p. 1009.
  25. Ivi, p. 1011.
  26. Gramsci, Q 5, § 123, p. 649.
  27. Umberto Cosmo morì per un colpo al cuore apprendendo la notizia (poi rivelatasi infondata) della morte del figlio che combatteva da partigiano.
  28. Entrambi vincitori delle borse di studio riservate agli studenti poveri dell’ex regno di Sardegna.
  29. Furono dieci lezioni dal marzo al maggio 1912 e ventidue dal novembre 1912 al maggio 1913.
  30. Gramsci, Il canto decimo dell’Inferno, in Q4, pp. 516-530.
  31. Cosmo accompagnava Alfredo Frassati, vicino a Giolitti e antifascista, già proprietario e Direttore del quotidiano la «Stampa» (che negli anni del fascismo fu costretto a svendere agli Agnelli), poi ambasciatore a Berlino e senatore (suo figlio Pier Giorgio Frassati fu beatificato nel 1990).
  32. LC, pp. 411-12.
  33. D. Alighieri, Convivio, cit., I, i, 1, pp. 3-6.
  34. Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177a 15, in Opere, vol. II, Traduzione di A. Plebe, Mondadori, Milano 2008, p. 268.
  35. F. Rodano, Lezioni di storia “possibile”, Marietti, Genova 1986; V. Tranquilli, Il concetto di lavoro da Aristotele a Calvino, Ricciardi, Milano-Napoli 1979.
  36. Gramsci, Q12, p. 1516.
  37. Gramsci, Q4, p. 476.

Gramsci, il fascismo, il neofascismo e il problema dell’egemonia

Raul Mordenti

Gramsci, il fascismo, il neofascismo e il problema dell’egemonia

Intervento al Seminario “Gramsci, fascismo e antifascismo ieri e oggi”

(con Angelo D’Orsi, Guido Liguori, Raul Mordenti, coordina Francesca Chiarotto,

Montesacro (III municipio), ANPI sezione “Orlando Orlandi Posti”, 30 gennaio 2023)

Vorrei porre un problema, storiografico e politico, molto importante per la lotta politica del nostro oggi: il fascismo fu capace di egemonia, oppure no? (altro…)

Attualità del pensiero di Gramsci a 130 anni dalla sua nascita/Actualidad del pensamiento Gramsciano a 130 años de su nacimiento

Homo faber: per un’antropologia filosofica gramsciana

Per Convegno gramsciano 3-6- maggio 2007

Raul Mordenti (Università di Roma Tor Vergata)

Homo faber: per un’antropologia filosofica gramsciana

1. Premessa: posizione del problema (non eludibile)

Rispondendo nel marzo del 2006 all’inchiesta “Tempi moderni. Ciò che resta di Marx”[1], Mario Tronti fa risalire l’impossibilità di sostenere ancora una centralità rivoluzionaria della classe operaia non a dati quantitativi (giacché si ammette che la classe operaia nel mondo è in via di incremento quantitativo, non di diminuzione) bensì ad un deficit di cultura, e più precisamente (pare di capire) alla mancanza di un’autonoma antropologia filosofica:      (altro…)

Attualità del pensiero di Gramsci a 130 anni dalla sua nascita/Actualidad del pensamiento Gramsciano a 130 años de su nacimiento

Raul Mordenti

Attualità del pensiero di Gramsci a 130 anni dalla sua nascita/Actualidad del pensamiento Gramsciano a 130 años de su nacimiento

Intervento al Seminario organizzato all’Istituto Simòn Bolìvar ISB e dall’Ambasciata della Repubblica Bolivariana in Italia il 22 gennaio 2021. (altro…)

Che cosa sono e come sono scritti i quaderni del carcere – primo incontro

Sulla politica e il ruolo del partito politico in Gramsci

Gramsci e i Populismi – Raul Mordenti

“Il canto decimo dell’Inferno” di Antonio Gramsci

(Seminario dell’IGS-Italia sul Quaderno 4, Roma, 8 marzo 2013)

L’intervento completo a cura di Raul Mordenti è disponibile in pdf

1. Una “lunga fedeltà” a Dante
Nella prima lettera scritta da Gramsci dopo l’arresto (alla sua padrona di casa Clara Passarge) e mai pervenuta perché trattenuta dalla censura carceraria, Gramsci chiedeva di ricevere in prigione due libri di sua proprietà (specificando dove essi si trovassero in casa): una grammatica tedesca1 e il Breviario di linguistica scritto dal suo maestro universitario di Glottologia (il suo unico trenta e lode) Giulio Bartoli, assieme al filologo Giulio Bertoni; egli aggiungeva infine in questa primissima lettera la richiesta di ricevere un terzo libro, questo però non di sua proprietà ma da acquistarsi per lui:
(…) 3° gratissimo le sarei [e ci sembra quasi di sentire qui il suo accento sardo, con l’anticipazione del predicato nominale rispetto al verbo NdR] se mi inviasse una Divina Commedia di pochi soldi, perché il mio testo lo avevo imprestato. (LC, p. 3)
Dunque la Divina Commedia è un libro (si noti: l’unico libro) di cui Gramsci sembra non poter fare a meno, al punto da rivolgersi (lui così riservato e pieno di complimenti) a una semi-estranea chiedendole senz’altro di comprarlo per lui. Si noti ancora: per Gramsci non conta qui l’edizione, conta solo che sia una Divina Commedia e che egli possa tenerla con sé e leggerla, anche in carcere. (altro…)