Gramsci critico di Manzoni IGS 2023

Raul Mordenti

Gramsci critico di Manzoni

Sommario:

1. Manzoni non è un “Autore di Gramsci” 2

2. Manzoni nelle Lettere dal carcere 2

3. La critica manzoniana degli anni di Gramsci: Manzoni un “cane morto”? 4

4. Manzoni nei Quaderni 7

4.1 Manzoni e il problema della lingua 7

4.2 Manzoni e il carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana 10

4.3 Manzoni e il gesuitismo 13

4.4. Il paragone fra Manzoni e Tolstoj (e “gli umili”) 14

4.5 Altre citazioni di Manzoni nei Quaderni (spunta la politica contemporanea) 17

5. Limiti (ed errori) dei giudizi gramsciani 20

BIBLIOGRAFIA MINIMA DI RIFERIMENTO 24

Raul Mordenti

Gramsci critico di Manzoni

1. Manzoni non è un “Autore di Gramsci”

Manzoni non è un “Autore di Gramsci”[1] (d’ora in poi G.), al contrario di Dante, sulla cui presenza centrale in G. abbiamo ragionato in questa stessa sede seminariale.

Nell’Epistolario 1906-1922 Manzoni – se non sbaglio – non c’è mai, e questo già suggerisce un’estraneità di Manzoni dagli anni della formazione di G.[2]

Sporadiche e laterali le presenze di Manzoni anche nel G. giornalista e pre-carcerario: solo un paio di citazioni durante la guerra, in Sotto la Mole, fra cui una nota (del 1 settembre 1916) intitolata Sant’Abbondio, un santo secondo G. diventato per la Chiesa «più grande di S. Pietro e di S.Agostino e anche di Gesù Cristo»[3], data la presenza del cattolico Filippo Meda nel Ministero di guerra.

Ma c’è un’eccezione importante: un articolo intitolato La lingua unica e l’esperanto (uscito su “Il Grido del popolo” il 16 febbraio 1918[4]) in cui G. riassume in una pagina il dibattito Manzoni-Ascoli, e la sua motivata preferenza per Ascoli.

G. cita il Proemio di Graziadio Isaia Ascoli all’“Archivio Glottologico” del 1873, considerato da Carlo Dionisotti «uno dei capolavori in senso assoluto della letteratura italiana».

2. Manzoni nelle Lettere dal carcere

Nelle Lettere dal carcere[5] Manzoni è presente solo cinque volte. Vediamole analiticamente: una prima volta (7 aprile 1930) lo cita en passant come diverso dalla letteratura storica di impianto settario dei Guerrazzi e dei Bresciani.

Il 17 novembre 1930, parlando della funzione cosmopolita degli intellettuali italiani, G. ricorda a Tatiana:

Se avessi la possibilità di consultare il materiale necessario, credo che ci sarebbe da fare un libro veramente interessante e che ancora non esiste. (…) D’altronde la cosa non è nuova completamente per me, perché dieci anni fa scrissi un saggio sulla quistione della lingua secondo il Manzoni e ciò domandò una certa ricerca sull’organizzazione della cultura italiana[6].

Questo «saggio sulla quistione della lingua secondo il Manzoni» mi sembra essere il citato articolo su “Il Grido del popolo” La lingua unica e l’esperanto del febbraio 1918, ma dell’interesse di G. per Manzoni negli anni universitari (cioè gli anni degli interessi linguistico-glottologici) dovremmo forse saperne di più, approfondendo il fatto che nel 1918 per la “Collezione dei classici italiani” della UTET diretta da Gustavo Balsamo Crivelli, fu annunciata una raccolta di scritti di Manzoni sulla lingua italiana, a cura di G., che però non sarà mai pubblicata[7].

Poi, nella stessa lettera a Tania del 17 novembre 1930, G. accenna al fatto che la rifacitura manzoniana dei Promessi sposi (come in generale l’attenzione di Manzoni linguista) riguardò solo il lessico, e non anche la sintassi: «tenne (…) conto di un solo aspetto della lingua, il lessico, e non della sintassi che poi è l’essenziale parte di ogni lingua»[8]; mi sembra un’osservazione assai fine e fondata (che leggeremo anche nei Quaderni[9]).

Siamo qui nella fase vitalissima e progettuale dei Quaderni 1-3 (1929-30) e G. ripensa ai lavori impostati nel passato che spera ora in carcere[10] di poter riprendere e portare a compimento. In questo direi che qui G. non è ancora il G. impegnato nella originale e grandiosa ricerca dei Quaderni, ma è come se si volgesse indietro, a recuperare materiali e spunti culturali degli anni precedenti[11].

Il 20 settembre 1931, nella lettera importantissima dedicata a descrivere il suo progettato saggio dantesco, G. considera l’estetica dell’inespresso (non nominare ciò di cui si parla per dargli più forza, un argomento che svilupperà nel saggio sul Canto X), e paragona Dante a Manzoni, verificando la piena e schiacciante supremazia del primo sul secondo anche nell’uso di questo dispositivo retorico. Il «Non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circostanze: se lo figuri» di Manzoni si rivela infatti tanto inferiore al «Poscia più che il dolor poté il digiuno» di Dante. Scrive G.:

Niente di comune tra questi modi di espressione di Dante e qualcheduno del Manzoni. (…) Il Manzoni realmente rinunziava a rappresentare l’amore per motivi pratici e ideologici[12].

Si potrebbe notare che G. non cita qui «La sventurata rispose» del capitolo X dei Promessi sposi, che è l’aposiòpesi (o reticenza) probabilmente più famosa (e più bella) della letteratura italiana. Ma quello che qui più ci interessa è che G. compia il suo paragone proprio e solo fra quei due Autori, che rimproveri a un’indebita influenza moralistico-religiosa l’inferiorità artistica di Manzoni, e che esprima con tanta nettezza la sua preferenza, la quale pare una vera e propria scelta di campo, che va ben al di là di una puntuale questione di gusto.

Il 25 aprile 1932 G. scrive per riprendere da Crémieux che la prosa di Croce sia la migliore in Italia dopo quella di Manzoni, anche se non deriva da questa bensì dalla prosa scientifica di… Galileo[13] (forse una traccia del costante desanctisismo di G.).

Dopo quella data (1932), Manzoni non compare più nell’epistolario del carcere (almeno stando all’edizione Caprioglio-Fubini di cui dispongo).

Il perimetro dell’interesse gramsciano per Manzoni mi sembra così già del tutto delineato: a) interesse per il Manzoni teorico della lingua e dissenso con le sue posizioni, sposando quelle di Ascoli, b) relativa trascuratezza, o sottovalutazione, degli aspetti strettamente estetici o critico-letterari, c) decisa opzione dantesca, riproponendo la scelta fra Dante e Manzoni, una scelta – se ci riflettiamo oggi – del tutto insensata, ma che si proponeva in quegli anni, in base alla proposta carducciana (una “linea-Dante” vs una “linea-Manzoni”) che coinvolgeva scelte alternative anzitutto nei programmi e nei testi scolastici.

Resta da considerare la presenza di Manzoni nei Quaderni, ma prima di farlo è necessario gettare almeno uno sguardo sulla situazione della critica manzoniana ai tempi di G., giacché l’interpretazione è sempre indisgiungibile dalla storia dell’interpretazione.

3. La critica manzoniana degli anni di Gramsci: Manzoni un “cane morto”?

Occorre dire che al tempo di G. (il secondo e il terzo decennio del Novecento) Manzoni era pressoché un “cane morto” per la cultura italiana, almeno per la cultura laica e liberale a cui il giovane G. si era nutrito, o – se questa espressione suona un po’ forte ed eccessiva – diciamo che alla perenne centralità scolastica di Manzoni non corrispondeva un’altrettale centralità critica o latamente culturale; erano quelli gli anni di Croce, delle riviste, dei residui di Carducci e di Pascoli, erano soprattutto gli anni di D’Annunzio, di Pirandello, tutt’al più del Futurismo o di Montale.

Forse fra quei due fatti, la centralità scolastica dei Promessi sposi e una certa diffusa ripugnanza alla lettura del romanzo, c’è un legame più forte di quanto sembri: in quanto libro di scuola, testo obbligato su cui studiare e venire interrogati, i Promessi sposi ha smesso di essere un libro da leggere e da godere, ed eventualmente da rileggere ed amare, e il suo Autore sembra aver condiviso tale destino.

La scuola può far morire tutto quello che tocca.

Mi sembra anche, più in generale, di poter rilevare una certa incompatibilità fra Manzoni e il nostro Paese: forse non per caso fin dall’inizio i primi decisivi apprezzamenti per Manzoni sono provenuti (dopo gli Inni sacri del 1816) da Goethe, e poi dalla Francia, prima ancora che dall’Italia; d’altronde credo che pochi fra i presenti si siano accorti che questo 2023 è l’anno anniversario di Manzoni, le cui celebrazioni (con tanto di Mattarella) mi sembra che abbiano assunto più un carattere ristretto e “milanese” che nazionale. Come se il conte Manzoni, il «gran lombardo»[14] giansenista e francofono, di diretta formazione familiare illuminista, il figlio di Giulia Beccaria (oltre che di Giovanni Verri), fosse rimasto in qualche modo, paradossalmente, nonostante tutti i suoi sforzi “nazionali”, uno straniero in patria. E quando nel 1840 uscì l’edizione definitiva dei Promessi sposi, accolta trionfalmente da Lamartine e Thierry, Manzoni commentò le freddissime accoglienze ricevute in Italia con le parole: «Le silence s’est fait»[15].

Solo con De Sanctis, all’inizio degli anni ’70 (i corsi universitari napoletani e i saggi sulla “Nuova Antologia”) Manzoni diventa ciò che sappiamo essere (anzi noto en passant che è strano come il desanctisiano G. non riprenda almeno il tema desanctisiano del “realismo” di Manzoni come «misura dell’ideale»: vien da dire che anche lì era già passato Benedetto Croce).

Michele Barbi lamentò che negli anni 1870-1885 la critica manzoniana, abbandonando De Sanctis, fosse caduta preda del dibattito dei linguisti e dei grammatici, e ciò fino alla sintesi di D’Ovidio (un originale allievo di De Sanctis), il quale rilevava fra l’altro nel romanzo (ben al di là delle teorizzazioni manzoniane) la vitale abbondanza dei lombardismi e di altre forme della lingua d’uso non necessariamente fiorentine. In effetti Manzoni scrittore è tanto superiore al Manzoni teorico della lingua.

Si affermava intanto un “antimanzonismo” di matrice soprattutto ideologico-politica e laicista. Settembrini, nelle sue Lezioni di letteratura italiana, definì Manzoni «poeta della reazione». Fu Carducci a insediare stabilmente nella critica e nella cultura italiana l’antimanzonismo, destinato a durare molto a lungo, legando nel suo giudizio l’anticlericalismo militante massonico all’anti-romanticismo e al suo rifiuto del toscanismo e del fiorentinismo linguistico.

Su questo diffuso antimanzonismo si innesta, senza negarlo, la critica di Croce, che, accusando i Promessi sposi di essere in fondo opera oratoria (se non di propaganda religiosa), giunse a preferirgli le tragedie, come l’Adelchi, che sarebbe addirittura – secondo Croce – il vero capolavoro di Manzoni[16]. Non ci possono interessare, in questa sede, le numerose risposte e controproposte di parte cattolica, se non per il fatto che tali difese clericali (à la Crispolti) potevano solo rafforzare in un lettore come il giovane G. l’immagine di un Manzoni ridotto alla dimensione religiosa cattolica.

Notiamo che nel manuale scolastico fondamentale e più diffuso del tempo il D’Ancona-Bacci[17], Manzoni occupa una quantità di pagine relativamente ridotta (64 sulle 866 del V volume) che è del tutto paragonabile allo spazio dedicato a Leopardi (58 pp.) o a Foscolo (51 pp.), ma ciò che più colpisce è che dai Promessi sposi sono antologizzate solo 7 pagine (dai capitoli xxv e xxvi) con molto più spazio dedicato agli Inni, alle tragedie, ai saggi in prosa[18], etc.

Si può dire che partecipa del crocianesmo, benché in forma assai più benevola verso Manzoni, anche un critico che G. ebbe sempre ben presente: Luigi Russo (la cui rivista “Leonardo” figura così spesso nei Quaderni). Russo, che si autodefinì «eclettico»[19], è un laico militante, un esponente di quel “crocianesimo di sinistra” che anche negli anni del dopoguerra pervase egemonicamente la cultura italiana. Non a caso proprio a Russo si rivolse nel 1947 Togliatti per una sorta di “lancio” dei Quaderni nella cultura accademica. Dopo che Russo ebbe tenuto presso la Normale di Pisa, su invito di Togliatti, la commemorazione di G. nel primo decennale della morte, alla sua rivista “Belfagor” fu concesso di pubblicare un (allora) inedito testo di G., non a caso sul Risorgimento[20].

Anche Russo derivava da Croce la centralità del problema della religiosità manzoniana; tuttavia lo risolveva affermando che Manzoni «fa chiesa a sé» e distinguendo in lui un versante cattolico (che lo rende un mero orator apologetico) da un versante giansenista (che invece gli consente la poesia).

Fu finalmente Natalino Sapegno, nell’immediato dopoguerra sul primo numero della rivista “Risorgimento”[21], a collocare Manzoni nella cultura che fu la sua e del suo tempo, percorsa da vitali elementi dell’illuminismo milanese creativamente rivissuti, ma mai abbandonati, dal nipote di Cesare Beccaria:

Dagli illuministi attingeva il patrimonio di idee e di atteggiamenti che rimarrà fondamentale per lui anche in seguito: (…) erano le idee forza del secolo, e che in lui dovevano poi articolarsi e chiarirsi, assecondando il processo generale della cultura contemporanea, attraverso la conquista di un più maturo senso storico, a contatto col Cuoco e col Foscolo dapprima, e quindi con gli ideologi francesi[22].

La conversione del 1810 è vista da Sapegno «non come una crisi o un capovolgimento; bensì come un coronamento e una definitiva sistemazione di questo patrimonio ideale, che rimaneva intatto nelle sue linee essenziali, (…) Il Manzoni cristiano rimase illuminista, democratico, umanitario»[23].

Il giudizio critico-letterario di Sapegno è sicuro e coerente con queste premesse, descrivendo la ricerca letteraria manzoniana tutta tesa a fuoruscire dal petrarchismo come dal romanzesco e dalla retorica, per fondare una nuova poesia, e soprattutto una nuova prosa letteraria italiana.

La conclusione è netta: «I Promessi sposi saranno anzi in un certo senso l’epopea degli umili e degli oppressi, delle loro pene e delle loro ansie, delle loro speranze incerte e tumultuose e del loro perenne fecondo sacrificio»[24].

Naturalmente G. non poteva leggere e non lesse il saggio di Sapegno, benché i due avessero frequentato per qualche tempo almeno la stessa Università di Torino e, soprattutto, benché potesse accomunarli l’amicizia con Gobetti.

Mi permetto di dire che invece purtroppo Sapegno lesse Gramsci, e quando fu pubblicato nell’edizione Togliatti-Platone il volume Letteratura e vita nazionale (1950) ne scrisse[25], sforzandosi (in un saggio di molto inferiore a quello del ’45) di circoscrivere, se non di negare, l’antimanzonismo gramsciano e anche la propria precedente difesa di Manzoni del 1945.

Forse perfino in un intellettuale eccelso come Sapegno si faceva sentire il “gramscismo” degli anni ’50 fatto di citazioni isolate e di ortodossia, così diverso dall’originale sperimentazione di Antonio Gramsci.

4. Manzoni nei Quaderni

Nei 16 «Argomenti principali» all’inizio dei Quaderni[26] , si legge al punto 12: «La quistione della lingua in Italia: Manzoni e G.I. Ascoli».

Si comprende bene come mai G., al momento di progettare (ancora inevitabilmente un po’ in astratto) la sua scrittura in carcere torni con la memoria al lavoro del 1918 su Manzoni e Ascoli e si riprometta di riprenderlo e completarlo. Non lo farà, anche se questo linguistico resterà a lungo l’approccio prevalente di G. a Manzoni.

4.1 Manzoni e il problema della lingua

Nel Q1 §73, un testo A[27] (La letteratura italiana moderna del Crémieux), G. torna sull’argomento recensendo, e stroncando, un saggio di Bellonci. Nella riscrittura in testo C, intitolata Bellonci e Crémieux (Q23, §40) G. parlerà più icasticamente di «un articolo abbastanza scemo». Ma noi interessa ciò che si legge proposito della lingua e di Manzoni:

Il Manzoni «sciacquò» in Arno il suo tesoro lessicale [«lessico personale lombardizzante», nel testo C], meno la morfologia, e quasi nulla la sintassi, che è più connaturata allo stile e quindi alla coltura personale artistica. (…)

Il Bellonci scrive: «Sino al cinquecento le forme linguistiche scendono dall’alto, dal seicento in poi salgono dal basso». Sproposito madornale, per superficialità. Proprio fino al 500 Firenze esercita l’egemonia culturale, perché esercita un’egemonia economica (papa Bonifacio VIII diceva che i fiorentini erano il quinto elemento della terra) e c’è uno sviluppo dal basso, dal popolo alle persone colte. Dopo la decadenza di Firenze, l’italiano è la lingua di una casta chiusa, senza contatto con una parlata storica. Non è questa forse la quistione posta dal Manzoni, di ritornare all’egemonia fiorentina e ribattuta dall’Ascoli che, storicista, non crede alle egemonie linguistiche per decreto legge [nel testo C: «non sorrette cioè da una funzione nazionale più profonda e necessaria?»], senza la struttura economico-culturale?[28]

Come abbiamo già detto, è prova dell’acuta sensibilità linguistica di G. la considerazione secondo cui Manzoni non «risciacqua» la morfologia e la sintassi (già l’abbiamo letto nella citata lettera a Tania del 17 novembre 1930), e naturalmente è importante il ribadimento della preferenza per le posizioni di Ascoli, qui definito «storicista».

Peraltro le teorie linguistiche di Manzoni sono un problema assai complesso e in continuo movimento, che non è affatto riassumibile nella formuletta scolastica della “risciacquatura” dei panni in Arno. Non è questa la sede (e, non essendo un linguista, non ne avrei le capacità) per approfondire questa pagina, non secondaria, della nostra storia linguistica (e politica)[29]. Mi limito a ricordare che Mario Sansone, facendo un bilancio del tema, lamentava la mancanza di un’opera critica capace di fare sintesi dei numerosi interventi e opuscoli che Manzoni, dal 1850 al 1871, dedicò al problema della lingua italiana e della sua unità, e il libro conclusivo sul tema, a cui Manzoni sembra avesse lavorato a lungo, non vide mai la luce.

D’Ovidio e soprattutto Michele Barbi (1938) posero ordine nell’argomento, individuando tre diversi momenti nella posizione manzoniana: un primo fino alla fine del 1829 circa, caratterizzato da una sorta di eclettismo linguistico, rivolto a vocaboli e modi di dire effettivamente comuni ai diversi dialetti italiani; un secondo dal 1830 al 1840 circa, quando guardava alla lingua dell’uso in Toscana; infine un terzo, centrato sulla lingua d’uso dei parlanti fiorentini[30]. Ma direi che non si può non concordare con Croce il quale (assai critico con le teorie linguistiche manzoniane) ne ridimensiona la portata teorica sottolineandone piuttosto un’esigenza politica e civile[31].

Per quanto riguarda G. mi sembra notevole che nel Q 29 del 1935, dedicato esplicitamente allo studio della grammatica, stranamente, Manzoni non compaia mai (forse G. considerava il tema Manzoni esaurito?), mentre ritorna Bartoli e ritorna il De Vulgari Eloquio di Dante. Qui G. affronta anche il problema di quali siano i «Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse nazionali »:

1) La scuola; 2) i giornali; 3) gli scrittori d’arte e quelli popolari; 4) il teatro e il cinematografo sonoro; 5) la radio; 6) le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose; 7) i rapporti di «conversazione» tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti – (una quistione alla quale forse non si dà tutta l’importanza che si merita è costituita da quella parte di «parole» versificate che viene imparata a memoria sotto forma di canzonette, pezzi d’opera, ecc.) (…) ; 8) i dialetti locali, intesi in diversi sensi (dai dialetti più localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali più o meno vasti: così il napoletano per l’Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la Sicilia, ecc.).[32]

L’unico accenno a Manzoni è indiretto, alla polemica fra manzoniani e «classicisti» di cui G. traccia una sorta di bilancio, come fosse ormai cosa del passato; e forse c’è qui anche un’attenuazione della condanna ascoliana degli interventi normativi dall’alto, dato che G. sembra riconoscere la necessità di un intervento attivo e organizzato (benché non «decisivo») sul processo:

Poiché il processo di formazione, di diffusione e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non bisogna considerarlo come «decisivo» e immaginare che i fini proposti saranno tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata lingua unitaria: si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità, e l’intervento organizzato accelererà i tempi del processo già esistente; quale sia per essere questa lingua non si può prevedere e stabilire: in ogni caso, se l’intervento è «razionale», essa sarà organicamente legata alla tradizione, ciò che non è di poca importanza nell’economia della cultura.

Manzoniani e «classicisti». Avevano un tipo di lingua da far prevalere. Non è giusto dire che queste discussioni siano state inutili e non abbiano lasciato tracce nella cultura moderna, anche se non molto grandi. In realtà in questo ultimo secolo la cultura unitaria si è estesa e quindi anche una lingua unitaria comune. Ma tutta la formazione storica della nazione italiana era a ritmo troppo lento.[33]

.

Si trova qui la nota e citatissima conclusione del ragionamento gramsciano:

Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale[34].

4.2 Manzoni e il carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana

Manzoni torna nella riflessione gramsciana sul carattere non nazionale-popolare della nostra letteratura, sulla scorta delle riflessioni di Ruggero Bonghi (che, non dimentichiamolo, fu sempre assai vicino a Manzoni, quasi un suo interprete ufficiale).

Si tratta di una nota (nel Q3, § 63, pp.342-345, I nipotini di padre Bresciani, testo A), ripresa ed estesa nel Q 21 §5 (testo C, pp.2113-2120) con il titolo Concetto di ‘nazionale-popolare’. La nota è occasionata dalle lamentele di “Critica Fascista” e di altri quotidiani per la pubblicazione di alcuni romanzi di appendice francesi ed è il luogo della elaborazione del celebre concetto gramsciano di nazionale-popolare[35]:

Q 21, § 5 Concetto di «nazionale-popolare». (…) La «Critica» confonde diversi ordini di problemi: quello della non diffusione tra il popolo della così detta letteratura artistica e quello della non esistenza in Italia di una letteratura «popolare», per cui i giornali sono «costretti» a rifornirsi all’estero (certo nulla impedisce teoricamente che possa esistere una letteratura popolare artistica – l’esempio più evidente è la fortuna «popolare» dei grandi romanzieri russi – anche oggi; ma non esiste, di fatto, né una popolarità della letteratura artistica, né una produzione paesana di letteratura «popolare» perché manca una identità di concezione del mondo tra «scrittori» e «popolo», cioè i sentimenti popolari non sono vissuti come propri dagli scrittori, né gli scrittori hanno una funzione «educatrice nazionale», cioè non si sono posti e non si pongono il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo averli rivissuti e fatti propri); (…)

Cosa significa il fatto che il popolo italiano legge di preferenza gli scrittori stranieri? Significa che esso subisce l’egemonia intellettuale e morale degli intellettuali stranieri, che esso si sente legato più agli intellettuali stranieri che a quelli «paesani», cioè che non esiste nel paese un blocco nazionale intellettuale e morale, né gerarchico e tanto meno egualitario. Gli intellettuali non escono dal popolo, anche se accidentalmente qualcuno di essi è d’origine popolana, non si sentono legati ad esso (a parte la retorica), non ne conoscono e non ne sentono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi, ma, nei confronti del popolo, sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta, cioè, e non un’articolazione, con funzioni organiche, del popolo stesso. La quistione deve essere estesa a tutta la cultura nazionale-popolare e non ristretta alla sola letteratura narrativa: le stesse cose si devono dire del teatro, della letteratura scientifica in generale (scienze della natura, storia ecc.).(…)

La quistione non è nata oggi: essa si è posta fin dalla fondazione dello Stato italiano, e la sua esistenza anteriore è un documento per spiegare il ritardo della formazione politico-nazionale unitaria della penisola. Il libro di Ruggero Bonghi sulla impopolarità della letteratura italiana. Anche la quistione della lingua posta dal Manzoni riflette questo problema, il problema della unità intellettuale e morale della nazione e dello Stato, ricercato nell’unità della lingua. Ma l’unità della lingua è uno dei modi esterni e non esclusivamente necessario dell’unità nazionale: in ogni caso è un effetto e non una causa[36].

Questa impostazione ridefinisce completamente anche il concetto di “contenuto”. G. scrive nel Q 8 (del 1931-32), articolando un paragone fra l’atteggiamento di Manzoni e quello di Verga e del verismo:

Assenza di un carattere nazioanle-popolare nella letteratura italiana. Da un articolo di Paolo Milano nell’«Italia letteraria» del 27 dicembre 1931: «Il valore che si dà al contenuto di un’opera d’arte non è mai troppo – ha scritto Goethe. (…)

Del resto per «contenuto» non basta intendere la scelta di un dato ambiente: ciò che è essenziale per il contenuto è l’atteggiamento dello scrittore e di una generazione verso questo ambiente. L’atteggiamento solo determina il mondo culturale di una generazione e di un’epoca e quindi il suo stile. Anche nel Manzoni e nel Verga, non i «personaggi popolareschi» sono determinanti, ma l’atteggiamento dei due scrittori verso di essi, e questo atteggiamento è antitetico nei due: nel Manzoni è un paternalismo cattolico, una ironia sottintesa, indizio di assenza di profondo istintivo amore verso quei personaggi, è un atteggiamento dettato da un esteriore sentimento di astratto dovere dettato dalla morale cattolica, corretto appunto e vivificato dall’ironia diffusa. Nel Verga è un atteggiamento di fredda impassibilità scientifica e fotografica, dettata dai canoni del verismo applicato più razionalmente che dallo Zola. L’atteggiamento del Manzoni è il più diffuso nella letteratura che rappresenta «personaggi popolareschi» e basta ricordare Renato Fucini; esso è ancora di carattere superiore, ma si muove su un filo di rasoio e infatti degenera, negli scrittori subalterni, nell’atteggiamento «brescianesco» stupidamente e gesuiticamente sarcastico[37].

E ancora, nel Q 14:

Carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana. (…) Non si riesce a capire che l’arte è sempre legata a una determinata cultura o civiltà e che lottando per riformare la cultura, si tende e si giunge a modificare il «contenuto» dell’arte, cioè si lavora a creare una nuova arte non dall’esterno (pretendendo un’arte didascalica, a tesi, moralistica), ma dall’interno, perché si modifica tutto l’uomo, in quanto si modificano i rapporti di cui l’uomo è l’espressione necessaria. Che sia esistita ed esista la coscienza di questo carattere non nazionale-popolare, si può vedere dalle polemiche: 1) «Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia?» per dirla con la parola del Bonghi; 2) sulla non-esistenza di un teatro italiano, polemica impostata dal F. Martini; 3) sulla quistione della lingua impostata dal Manzoni; [4) se sia esistito un romanticismo italiano][38].

Il problema del Romanticismo è declinato originalmente (in rapporto con la Rivoluzione francese) in un’altra nota dello stesso Q 14:

Letteratura popolare. Contenuto e forma. (…) La domanda se sia esistito un romanticismo italiano può avere diverse risposte, a seconda di ciò che s’intende per romanticismo. E certo molte sono le definizioni che del termine di romanticismo sono state date. Ma a noi importa una di queste definizioni e importa non precisamente l’aspetto «letterario» del problema. Romanticismo ha, tra gli altri significati, assunto quello di uno speciale rapporto o legame tra gli intellettuali e il popolo, la nazione, cioè è un particolare riflesso della «democrazia» (in senso largo) nelle lettere (in senso largo, per cui anche il cattolicismo può essere stato «democratico» mentre il «liberalismo» può esserlo non stato). (…)

In questo senso il romanticismo precede, accompagna, sanziona e svolge tutto quel movimento europeo che prese nome dalla Rivoluzione francese; ne è l’aspetto sentimentale-letterario (…).

La ricerca quindi è di storia della cultura e non di storia letteraria, meglio di storia letteraria in quanto parte e aspetto di una più vasta storia della cultura. Ebbene, in questo preciso senso, il romanticismo non è esistito in Italia, e nel miglior caso le sue manifestazioni sono state minime, scarsissime e in ogni caso di aspetto puramente letterario. (Su questo punto è necessario il ricordo delle teorie del Thierry e del riflesso manzoniano, teorie del Thierry che appunto sono uno degli aspetti più importanti di questo aspetto del romanticismo di cui si vuole parlare). (…)

Si è detto che la parola «democrazia» non deve essere assunta in tal senso, solo nel significato «laico» o «laicista» che si vuol dire; ma anche nel significato «cattolico», anche reazionario, se si vuole; ciò che importa è il fatto che si ricerchi un legame col popolo, con la nazione, che si ritenga necessaria una unità non servile, dovuta all’obbedienza passiva, ma un’unità attiva, vivente, qualunque sia il contenuto di questa vita. Questa unità vivente, a parte ogni contenuto, è appunto mancata in Italia, è mancata almeno nella misura sufficiente a farla diventare un fatto storico, e perciò si capisce il significato della domanda: «è esistito un romanticismo italiano»?[39]

Questa nota – che a me sembra geniale nella parte che riguarda il romanticismo italiano – è fortemente ispirata alle teorie storiografiche di Augustin Thierry (1795-1856), che metteva in rapporto la lotta di classe con un originario contrasto fra popolazioni autoctone e invasori barbari; è da ricordare che Manzoni aveva frequentato la casa di Thierry nei primi anni Venti dell’Ottocento e che Marx ebbe a definire Thierry «le père della lotta di classe nella storiografia francese» (lettera a Engels del 27 luglio 1854).

È interessante notare che quasi a conclusione del suo lavoro (il Q 21, dedicato in particolare alla letteratura italiana, è del 1934-35) G. tracci un progetto di studi ulteriori, cioè un «catalogo delle più significative quistioni da esaminare», in Q 21, § 1[40].

Nesso di problemi. Polemiche sorte nel periodo di formazione della nazione italiana e della lotta per l’unità politica e territoriale e che hanno continuato e continuano ad ossessionare almeno una parte degli intellettuali italiani. Alcuni di tali problemi (come quello della lingua) molto antichi. (…) Risalgono ai primi tempi della formazione di una unità culturale italiana. (…)

Ecco il «catalogo» delle più significative quistioni da esaminate ed analizzare: 1) «Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia?» (per usare l’espressione di Ruggero Bonghi); 2) esiste un teatro italiano? polemica impostata da Ferdinando Martini e che va collegata con l’altra sulla maggiore o minore vitalità del teatro dialettale e di quello in lingua; 3) quistione della lingua nazionale, così come fu impostata da Alessandro Manzoni; 4) se sia esistito un romanticismo italiano; 5) è necessario provocare in Italia una riforma religiosa come quella protestante? cioè l’assenza di lotte religiose vaste e profonde determinata dall’essere stata in Italia la sede del papato quando fermentarono le innovazioni politiche che sono alla base degli Stati moderni fu origine di progresso o di regresso?; 6) l’Umanesimo e il Rinascimento sono stati progressivi o regressivi?; 7) impopolarità del Risorgimento ossia indifferenza popolare nel periodo delle lotte per l’indipendenza e l’unità nazionale; 8) apoliticismo del popolo italiano che viene espresso con le frasi di «ribellismo», di «sovversivismo», di «antistatalismo» primitivo ed elementare; 9) non esistenza di una letteratura popolare in senso stretto (romanzi d’appendice, d’avventure, scientifici, polizieschi ecc.) e «popolarità» persistente di questo tipo di romanzo tradotto da lingue straniere, specialmente dal francese; non esistenza di una letteratura per l’infanzia. In Italia il romanzo popolare di produzione nazionale è quello anticlericale oppure le biografie di briganti. Si ha però un primato italiano nel melodramma, che in un certo senso è il romanzo popolare musicato[41].

Sono intanto comparsi due temi cruciali del rapporto fra G. e Manzoni, i rapporti fra Manzoni e il gesuitismo e il paragone con Tolstoj.


4.3 Manzoni e il gesuitismo

Nel Q 1 §72, in una nota intitolata I nipotini di padre Bresciani. Arte cattolica, un testo A[42], G., prendendo spunto da un articolo di Edoardo Fenu, argomenta la difficoltà (o l’impossibilità) di essere artista “cattolico”, poiché per le esigenze dell’ortodossia dottrinale il «sentimento religioso schietto è stato disseccato», e «la religione cattolica può avere solo padri Bresciani, non più S. Francesco o Passavanti o Tommaso da Kempis. Può essere ‘milizia’, propaganda, agitazione, non più ingenua effusione di sentimenti. O non è cattolica: vedi la sorte di Fogazzaro».

Ma riprendendo il paragrafo come testo C[43] nel Q 23 §18, G. sopprime il riferimento a Fogazzaro e ne introduce uno a Manzoni:

L’esempio del Manzoni può essere portato a prova: quanti articoli sul Manzoni ha pubblicato la ‘Civiltà Cattolica’ nei suoi 84 anni di vita e quanti su Dante? In realtà i cattolici più ortodossi diffidano del Manzoni e ne parlano il meno che possono: certo non lo analizzano come fanno per Dante e qualche altro.

Questa annotazione è di grande importanza, perché dimostra che (anche correggendo qualche affermazione precedente) all’altezza cronologica del Q 23 (il 1934) G. è ora cosciente della forte contraddizione esistente fra la posizione manzoniana e quella dei gesuiti.

Questo tema è arricchito dalle considerazioni di altre note minori del Q 6 (Miscellaneo datato al 1930-32):

C’è una differenza tra il Manzoni e il Crispolti; il Manzoni proveniva dal giansenismo, il Crispolti è un gesuita laico; il Manzoni era un liberale e un democratico del cattolicesimo (sebbene di tipo aristocratico) ed era favorevole alla caduta del potere temporale; il Crispolti era un reazionario nerissimo e lo è rimasto[44].

Il movimento per la stampa cattolica, di cui parla la «Civiltà Cattolica», legato al nome di Cesare D’Azeglio è interessante anche per l’atteggiamento del Manzoni al riguardo: si può dire che il Manzoni comprese il carattere reazionario dell’iniziativa del D’Azeglio e si rifiutò elegantemente di collaborarvi, eludendo le aspettazioni del D’Azeglio con l’invio della famosa lettera sul Romanticismo[45].

Così G. considera l’atteggiamento di Manzoni nei confronti di padre Bresciani a partire dal tentativo di riabilitazione del gesuita che si verificò negli anni Trenta (un “rovescismo” ante litteram), ma il giudizio negativo di Manzoni – se ben capisco – sembra a G. ambiguo e ancora troppo diplomatico (viziato di gesuitismo?)[46].

Nello stesso Q 8 (1931-32, quello più filosofico), G. dimostra però (sulla scorta di «studiosi più serii come il Ruffini e il Trompeo») di conoscere bene gli aspetti giansenisti della spiritualità manzoniana, riflettendo sul “pari” (la “scommessa”) di Pascal:

La religione, il lotto e l’oppio del popolo (…) Vedere come gli studiosi di Pascal spiegano il «pari». Mi pare che ci sia uno studio di P. P. Trompeo nel suo volume Rilegature gianseniste, in cui si parla del «pari» in rapporto al Manzoni. (…) Questo elemento potrà essere accertato anche attraverso le ricerche sul giansenismo manzoniano pubblicate recentemente dagli studiosi più serii come il Ruffini e il Trompeo[47].

4.4. Il paragone fra Manzoni e Tolstoj (e “gli umili”)

Di grande importanza il reiterato paragone fra Tolstoj e Manzoni. G. fu sempre “tolstoiano”, direi almeno da quando, a Torino, Angelo Tasca gli regalò un’edizione in francese di Guerra e pace, con l’augurio di averlo presto «compagno di battaglia».

Il confronto Tolstoj-Manzoni è proposto prima nel testo A del Q 3, § 148 (pp. 402-403) col titolo Carattere popolare-nazionale negativo della letteratura italiana, poi ripreso con il titolo più esplicitò “Popolarità” di Tolstoj e del Manzoni nel testo C del Q 23, §51 (pp. 2244-2247). Lo spunto è un articolo sul «Marzocco» dell’11 novembre 1928 di Adolfo Faggi il quale avanza il confronto fra Tolstoj e Manzoni in uno studio critico su Shakespeare. Nel lavoro di Faggi, secondo G.:

sono contenuti alcuni elementi per istituire un confronto tra la concezione del mondo del Tolstoi e quella del Manzoni, sebbene il Faggi affermi arbitrariamente che i «Promessi Sposi corrispondono perfettamente al suo (del Tolstoi) concetto dell’arte religiosa», esposto nello studio critico sullo Shakespeare (…) Nota il Faggi che in Guerra e Pace i due personaggi che hanno la maggior importanza religiosa sono Platone Karatajev e Pietro Biezuchov: il primo è uomo del popolo, e il suo pensiero ingenuo ed istintivo ha molta efficacia sulla concezione della vita di P. Biezuchov. Nel Tolstoi è caratteristico appunto che la saggezza ingenua ed istintiva del popolo, enunciata anche con una parola casuale, faccia la luce e determini una crisi nell’uomo colto. Ciò appunto è il tratto più rilevante della religione del Tolstoi che intende l’Evangelo «democraticamente», cioè secondo il suo spirito originario e originale. Il Manzoni invece ha subìto la Controriforma: il suo cristianesimo ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un paternalismo popolaresco gesuitico [assai più tranchant la formulazione del testo A: «l Manzoni invece ha subito la Controriforma, il suo cristianesimo è gesuitismo», NdR]. (…)

Bisogna inoltre notare che nei Promessi Sposi non c’è popolano che non sia «preso in giro» e canzonato: da don Abbondio a fra Galdino, al sarto, a Gervasio, ad Agnese, a Perpetua, a Renzo, alla stessa Lucia: essi sono rappresentati come gente meschina, angusta, senza vita interiore. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l’Innominato, lo stesso don Rodrigo. (…)

L’importanza che ha la frase di Lucia nel turbare la coscienza dell’Innominato e nel secondarne la crisi morale è di carattere non illuminante e folgorante come ha l’apporto del popolo, sorgente di vita morale e religiosa, nel Tolstoi, ma meccanico e di carattere «sillogistico». In realtà anche nel Manzoni si possono trovare notevoli tracce di brescianesimo[48].

Nel Q 7, § 50, G. torna sul problema della Letteratura popolare avvertendo di averne già scritto in altra nota[49] e ripetendo in sostanza i medesimi argomenti:

Letteratura popolare. Del carattere non popolare-nazionale della letteratura italiana. Atteggiamento verso il popolo dei Promessi Sposi. <Il> carattere «aristocratico» del cattolicismo manzoniano appare dal «compatimento» scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoi) come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia, ecc. (…)

Questo articolo del Crispolti è interessante di per se stesso, per comprendere l’atteggiamento del cristianesimo gesuitico verso gli «umili».(…) Dice il Crispolti del Manzoni: «Il popolo ha per sé tutto il cuore di lui, ma egli non si piega ad adularlo mai; lo vede anzi collo stesso occhio severo con cui vede i più di coloro che non sono popolo». Ma non si tratta di volere che il Manzoni «aduli il popolo», si tratta del suo atteggiamento psicologico verso i singoli personaggi che sono «popolari»; questo atteggiamento è nettamente di casta pur nella sua forma religiosa cattolica; i popolani, per il Manzoni, non hanno «vita interiore», non hanno personalità morale profonda; essi sono «animali» e il Manzoni è «benevolo» verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. In un certo senso il Manzoni ricorda l’epigramma su Paolo Bourget: che per il Bourget occorre che una donna abbia 100.000 franchi di rendita per avere una psicologia. Da questo punto di vista il Manzoni (e il Bourget) sono schiettamente cattolici; niente in loro dello spirito «popolare» di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. (…)

Lo stesso Crispolti, nella frase citata, inconsapevolmente confessa questa «parzialità» (o «partigianeria») del Manzoni: il Manzoni vede con «occhio severo» tutto il popolo, mentre vede con occhio severo «i più di coloro che non sono popolo»: egli trova «magnanimità», «alti pensierì», «grandi sentimenti» solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo, che nella sua totalità è bassamente animalesco.

Che non abbia un gran significato il fatto che gli «umili» abbiano una parte di prim’ordine nel romanzo manzoniano, è giusto, come dice il Crispolti. Il Manzoni pone il «popolo» nel suo romanzo, oltre che per i personaggi principali (Renzo, Lucia, Perpetua, fra Galdino, ecc.) anche per la massa (tumulti di Milano, popolani di campagna, il sarto, ecc.), ma appunto il suo atteggiamento verso il popolo non è «popolare-nazionale», ma aristocratico.

Studiando il libro dello Zottoli, occorre ricordare questo articolo del Crispolti. Si può mostrare che il «cattolicismo» anche in uomini superiori e non «gesuitici» come il Manzoni (il Manzoni aveva certamente una vena giansenistica e antigesuitica) non contribuì a creare in Italia il «popolo-nazione» neanche nel Romanticismo, anzi fu un elemento anti-nazionale-popolare e solamente aulico. (…)”[50]

Letteratura popolare. Manzoni e gli umili. L’atteggiamento «democratico» del Manzoni verso gli umili (nei Promessi Sposi) in quanto è d’origine «cristiana» e in quanto è da connettere con gli interessi storiografici che il Manzoni aveva derivato dal Thierry e dalle sue teorie sul contrasto tra le razze (conquistatrice e conquistata) divenuto contrasto di classi. (…)

(Questo punto è da connettere con la rubrica «Storia delle classi subalterne», in cui si può fare riferimento alle dottrine del Thierry, che del resto hanno avuto tanta importanza per le origini della storiografia della filosofia della prassi)[51].

Nel Q 14, § 45, un testo B intitolato Letteratura popolare. Manzoni, G. parte ancora da Adolfo Faggi che nel «Marzocco» del 1° novembre 1931 scrive alcune osservazioni sulla sentenza «Vox populi vox Dei» nei Promessi Sposi.

La sentenza è citata due volte (secondo il Faggi) nel romanzo: una volta nell’ultimo capitolo ed appare detta da Don Abbondio a proposito del marchese successore di Don Rodrigo: «E poi non vorrà che si dica che è un grand’uomo. Lo dico e lo voglio dire. E anche se io stessi zitto, già non servirebbe a nulla, perché parlan tutti, e vox populi, vox Dei» (…). L’altra volta la sentenza si trova nel cap. XXXI, dove si parla della peste: «Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?) deridevano gli auguri sinistri, gli avvertimenti minacciosi dei pochi, ecc.». Qui il proverbio è riportato in italiano e in parentesi, con intonazione ironica.

Negli Sposi Promessi (cap. III del tomo IV, ediz. Lesca) il Manzoni scrive a lungo sulle idee tenute generalmente per vere in un tempo o in un altro dagli uomini e conchiude che se oggi si possono trovare ridicole le idee diffuse tra il popolo al tempo della peste di Milano, non possiamo sapere se idee odierne non saranno trovate ridicole domani, ecc. Questo lungo ragionamento della prima stesura è riassunto nel testo definitivo nella breve domanda: «Era anche in questo caso voce di Dio?» (…)

Ma il Faggi non pone molto esattamente la quistione, che non può essere risolta senza riferirsi alla religione del Manzoni, al suo cattolicismo. Così riporta per esempio il famoso parere di Perpetua a don Abbondio, parere che coincide con l’opinione del card. Borromeo. Ma nel caso non si tratta di una quistione morale o religiosa, ma di un consiglio di prudenza pratica, dettato dal senso comune più banale. Che il card. Borromeo si trovi d’accordo con Perpetua non ha quella importanza che sembra al Faggi. (…)

Tra il Manzoni e gli «umili» c’è distacco sentimentale; gli umili sono per il Manzoni un «problema di storiografia», un problema teorico che egli crede di poter risolvere col romanzo storico, col «verosimile» del romanzo storico. Perciò gli umili sono spesso presentati come «macchiette» popolari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia voce di Dio: tra il popolo e Dio c’è la chiesa, e Dio non s’incarna nel popolo, ma nella chiesa. Che Dio s’incarni nel popolo può crederlo il Tolstoi, non il Manzoni. Certo questo atteggiamento del Manzoni è sentito dal popolo e perciò i Promessi Sposi non sono mai stati popolari: sentimentalmente il popolo sentiva il Manzoni lontano da sé e il suo libro come un libro di devozione non come un’epopea popolare[52].

D’altra parte il discorso gramsciano è più generale e riguarda la generalità degli intellettuali italiani e il loro rapporto con il popolo:

Gli «umili». Questa espressione – «gli umili» – è caratteristica per comprendere l’atteggiamento tradizionale degli intellettuali italiani verso il popolo e quindi il significato della «letteratura per gli umili». Non si tratta del rapporto contenuto nell’espressione dostoievschiana di «umiliati e offesi». In Dostojevschij c’è potente il sentimento nazionale-popolare, cioè la coscienza di una missione degli intellettuali verso il popolo, che magari è «oggettivamente» costituito di «umili» ma deve essere liberato da questa «umiltà», trasformato, rigenerato. Nell’intellettuale italiano l’espressione di «umili» indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento «sufficiente» di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come tra adulto e bambino nella vecchia pedagogia o peggio ancora un rapporto da «società protettrice degli animali», o da esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia[53].

In Italia, la pretesa «naturalistica» dell’obbiettività sperimentale degli scrittori francesi che aveva un’origine polemica contro gli scrittori aristocratici, si innestò in una posizione ideologica preesistente, come appare dai Promessi Sposi, in cui esiste lo stesso «distacco» dagli elementi popolari, distacco appena velato da un benevolo sorriso ironico e caricaturale. In ciò Manzoni si distingue dal Grossi che nel Marco Visconti non canzona i popolani e persino dal D’Azeglio delle Memorie, almeno per ciò che riguarda le note sulla popolazione dei castelli romani[54].

4.5 Altre citazioni di Manzoni nei Quaderni (spunta la politica contemporanea)

Meno importanti altre citazioni cursorie di Manzoni, come quella nel Q 1, § 97[55], o come un giudizio di Manzoni su Victor Hugo, o la coscienza della pochezza di Napoleone III riferite dal manzoniano (e cavouriano) Ruggero Bonghi[56], o ancora l’ammirazione di Manzoni per il “materialista” Cabanis (un maestro dello storico Taine) ammirazione confermata anche dopo la conversione[57] e, infine, come la nota sull’egemonia del diritto germanico nel Medioevo[58].

Breve, ma filosoficamente rilevante, è la nota del Q 8[59], sulla distinzione operata da Manzoni fra buon senso e senso comune[60] nel cap. XXXII del romanzo: «il buon senso c’era: ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

Sono particolarmente interessanti due luoghi in cui G. prende spunto dal romanzo per criticare atteggiamenti politici a lui contemporanei, anzi per riferirsi a problemi del suo Partito e dell’Internazionale.

Assai originalmente, nel Q 14, G. paragona l’astrattezza teorico-politica del bordighismo («le così dette ‘tesi’ di Roma»), e più in generale dell’estremismo, alla «forma mentale» di don Ferrante:

Passato e presente. La logica di don Ferrante. Si può avvicinare la forma mentale di don Ferrante a quella che è contenuta nelle così dette «tesi» di Roma (ricordare la discussione sul «colpo di Stato» ecc.). Era proprio come il negare la «peste» e il «contagio» da parte di don Ferrante e così morirne «stoicamente» (se pure non è da usare un altro avverbio più appropriato). Ma in don Ferrante in realtà c’era più ragion «formale» almeno, cioè egli rifletteva il modo di pensare dell’epoca sua (e questo il Manzoni mette in satira, personificandolo in don Ferrante), mentre nel caso più moderno si trattava di anacronismo, come se don Ferrante fosse risuscitato con tutta la sua mentalità in pieno secolo XX[61].

Il medesimo riferimento a don Ferrante era stato utilizzato da G. nel 1917 per deridere il social-patriota belga Gaspar (“la maschera della massoneria francese”) il quale, con un paralogismo degno di don Ferrante, affermava la necessità che i socialisti sostenessero la guerra essendo questa fatta per il bene dell’umanità [62] (un argomento, come si vede, mai più usato da nessuno, men che meno ai giorni nostri).

Altrettanto originale, e rilevante, è l’accusa di «ideologia» (cioè di sensismo, in ultima analisi di materialismo volgare) rivolta al Bucharin, prendendo spunto dall’influenza che gli idéologues ebbero su Manzoni. Si noti che qui G. usa «Ideologia» e «ideologi» in senso filosofico proprio, come riferimento alla filosofia del cenacolo francese (Destutt de Tracy, Cabanis, Condorcet, Say, Sieyés, etc.) a cui Manzoni, con la madre Giulia Beccaria, partecipò all’inizio del secolo XIX):

L’«ideologia» è stata un aspetto del «sensismo», ossia del materialismo francese del XVIII secolo. Il suo significato originario era quello di «scienza delle idee» e poiché l’analisi era il solo metodo riconosciuto e applicato dalla scienza, significava «analisi delle idee» cioè «ricerca dell’origine delle idee». Le idee dovevano essere scomposte nei loro «elementi» originari e questi non potevano essere altro che le «sensazioni»: le idee derivano dalle sensazioni. Ma il sensismo poteva associarsi senza troppa difficoltà colla fede religiosa, con le credenze più estreme nella «potenza dello Spirito» e nei suoi «destini immortali» e così avviene che il Manzoni, anche dopo la sua conversione o ritorno al cattolicismo, anche quando scrisse gli Inni Sacri, mantenne la sua adesione di massima al sensismo, finché non conobbe la filosofia del Rosmini.

E nella stessa nota, dopo aver affermato che «il Freud sia l’ultimo degli Ideologi» (come De Man), G. non perde l’occasione per criticare ancora una volta il Saggio popolare di Bucharin:

È da esaminare come l’autore del Saggio popolare sia rimasto impigliato nell’Ideologia, mentre la filosofia della prassi rappresenta un netto superamento e storicamente si contrapponga appunto all’Ideologia. Lo stesso significato che il termine di «ideologia» ha assunto nella filosofia della prassi contiene implicitamente un giudizio di disvalore ed esclude che per i suoi fondatori l’origine delle idee fosse da ricercare nelle sensazioni e quindi, in ultima analisi, nella fisiologia: questa stessa «ideologia» deve essere analizzata storicamente, secondo la filosofia della prassi, come una superstruttura[63].

Fa riferimento ancora alla caratteristica religiosità manzoniana (la Pentecoste), una originalissima nota sul “centralismo”, che si occupa in realtà del rapporto fra la disciplina di partito e la libertà dei militanti:

Passato presente. Centralismo organico e centralismo democratico. Disciplina. (…) La disciplina pertanto non annulla la personalità in senso organico, ma solo limita l’arbitrio e l’impulsività irresponsabile, per non parlare della fatua vanità di emergere. Se si pensa, anche il concetto di «predestinazione» proprio di alcune correnti del cristianesimo non annulla il così detto «libero arbitrio» nel concetto cattolico, poiché l’individuo accetta «volente» il volere divino (così pone la quistione il Manzoni nella Pentecoste) al quale, è vero, non potrebbe contrastare, ma a cui collabora o meno con tutte le sue forze morali. La disciplina pertanto non annulla la personalità e la libertà[64].

Ricordiamo infine il divertente equivoco sorto per l’espressione manzoniana «un barbaro non privo di ingegno» (riferita a Shakespeare), di cui gli inglesi non colsero l’ironia (che in realtà è rivolta contro Voltaire, non contro Shakespeare!):

Nel «Marzocco» del 18 settembre 1932 Tullia Franz scrive sulla quistione sorta tra il Manzoni e il traduttore inglese dei Promessi Sposi, il pastore anglicano Carlo Swan, a proposito della espressione, contenuta verso la fine del capitolo settimo, impiegata per indicare Shakespeare: «Tra il primo concetto di una impresa terribile e l’esecuzione di essa (ha detto un barbaro che non era privo d’ingegno) l’intervallo è un sogno pieno di fantasmi e di paure».(…)

Nonostante che Swan conoscesse gli scritti del Voltaire contro Shakespeare, egli non colse l’ironia manzoniana, che era appunto rivolta contro il Voltaire (che aveva definito lo Shakespeare «un sauvage avec des étincelles de génie»)[65].

5. Limiti (ed errori) dei giudizi gramsciani

Non saremmo fedeli alla qualifica di gramsciani non dogmatici a cui aspiriamo se, per conformistica prudenza, evitassimo di rilevare quelli che ci appaiono oggi le contraddizioni, e anche i limiti, delle posizioni di G. a proposito di Manzoni. «Quandoque bonus dormitat Homerus» (Ars Poet. 358-359), e forse talvolta può capitare anche al nostro Antonius di dormicchiare.

Se il Marco Antonio di Shakespeare ha detto «Io vengo a seppellire Cesare non a lodarlo», noi dovremmo forse rovesciare questa frase e dire che «Noi non siamo venuti a lodare Antonio ma a disseppellirlo», cioè a far rivivere il suo pensiero, anche criticandolo.

Le contraddizioni nel giudizio in merito al preteso gesuitismo di Manzoni[66] sono fin troppo evidenti, e non vale la pena tornarci. La spiritualità giansenista, e semmai protestantica, di Manzoni è l’esatto contrario del gesuitismo. Senza contare che, in tempo di non expedit, Manzoni fu favorevole all’unità d’Italia e anche a Roma capitale.

Mi concentro invece sul paragone con Tolstoj, così negativo per Manzoni.

Consideriamo solo il brano del Q 23 spesso citato a carico di Manzoni:

Il rilievo del Faggi che «nei Promessi Sposi sono gli spiriti superiori come il padre Cristoforo e il cardinale Borromeo che agiscono sugli inferiori e sanno sempre trovare per loro la parola che illumina e guida» non ha connessione sostanziale con la formulazione di ciò che è l’arte religiosa di Tolstoi, che si riferisce alla concezione generale e non ai particolari modi di estrinsecazione: le concezioni del mondo non possono non essere elaborate da spiriti eminenti, ma la «realtà» è espressa dagli umili, dai semplici di spirito.

Bisogna inoltre notare che nei Promessi Sposi non c’è popolano che non sia «preso in giro» e canzonato: da don Abbondio a fra Galdino, al sarto, a Gervasio, ad Agnese, a Perpetua, a Renzo, alla stessa Lucia: essi sono rappresentati come gente meschina, angusta, senza vita interiore[67].

Queste affermazioni non mi sembrano fondate, almeno per due motivi: 1) ci sono “popolani” niente affatto presi in giro (si pensi solo alla madre di Cecilia! o alla stessa Lucia, che non è mai derisa) e – di converso – sono presi in giro, e pesantemente, anche membri delle classi dominanti, da Azzeccagarbugli a don Ferrante al Ferrer, e si rifletta che lo stesso don Abbondio, il più preso in giro di tutti, non è personaggio “popolare” ma, in quanto ecclesiastico, appartiene all’élite; 2) molti personaggi popolari hanno, eccome, vita interiore, a cominciare da Renzo e Lucia e da molti altri. E ancora:

L’importanza che ha la frase di Lucia nel turbare la coscienza dell’Innominato e nel secondarne la crisi morale è di carattere non illuminante e folgorante come ha l’apporto del popolo, sorgente di vita morale e religiosa, nel Tolstoi, ma meccanico e di carattere «sillogistico» si possono trovare notevoli tracce di brescianesimo (pp. 2246-47).

Nel Tolstoi è caratteristico appunto che la saggezza ingenua ed istintiva del popolo, enunciata anche con una parola casuale, faccia la luce e determini una crisi nell’uomo colto (p. 2246).

La crisi morale di un “signore” innescata da una frase o parola di un “umile” è esattamente ciò che accade fra Lucia e l’Innominato! Neanche Platon Karatajev parla molto. E neppure il servo di Ivan Ilič, che svolge analoga funzione di rivelazione/soluzione della crisi morale del protagonista, parla molto.

Ma la critica si deve addensare, per una volta, sulla collocazione di classe e il significato storico di Manzoni, cioè proprio le due caratteristiche di solito più forti del pensiero gramsciano.

Partiamo dal romanzo: nella rassegna dei personaggi che G. compie mi sembra che venga rimossa la categoria, decisiva, della borghesia. Come don Abbondio non è popolo, così fra Cristoforo non è affatto un signore (come è noto e come Manzoni sottolinea, si tratta anzi un borghese che aspirerebbe, invano, a diventare signore), e questo ragionamento potrebbe, continuare con molti altri personaggi, ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano. Si potrebbe infatti leggere l’intero romanzo come lo sforzo (e la difficoltà) di fuoruscire dal disordine del Seicento controriformistico e signorile per accedere al nuovo ordine civile e borghese, di cui il matrimonio stesso è simbolo e coronamento. Non a caso questo processo è quello che vive Renzo il quale diventa borghese attraverso le vicende del romanzo (e alla fine del romanzo, mettendo su la sua “fabbrichetta” lo è diventato!),

Questa singolare rimozione del problema della borghesia che mi sembra di leggere in G. coinvolge anzitutto la stessa figura di Manzoni, se G. (al contrario del citato saggio di Sapegno) non sviluppa fino in fondo nella sua valutazione critica affermazioni importanti come la seguente:

Formazione e diffusione della nuova borghesia in Italia. In altra nota ho segnato che si potrebbe fare una ricerca «molecolare» negli scritti italiani del Medio Evo per cogliere il processo di formazione intellettuale della borghesia, il cui sviluppo storico culminerà nei Comuni per subire poi una disgregazione e un dissolvimento. La stessa ricerca si potrebbe fare nel periodo 1750-1850, quando si ha la nuova formazione borghese che culmina nel Risorgimento. (…)

Foscolo e Manzoni in un certo senso possono dare i tipi italiani. Il Foscolo è l’esaltatore delle glorie letterarie e artistiche del passato (cfr i Sepolcri, i Discorsi civili, ecc.), la sua concezione è essenzialmente «retorica» (sebbene occorra osservare che nel tempo suo questa retorica avesse un’efficienza pratica attuale e quindi fosse «realistica»).

Nel Manzoni troviamo spunti nuovi, più strettamente borghesi (tecnicamente borghesi). Il Manzoni esalta il commercio e deprime la poesia (la retorica). Lettere al Fauriel. Nelle Opere inedite ci sono dei brani in cui il Manzoni biasima l’unilateralità dei poeti che disprezzano la «sete dell’oro» dei commercianti, disconoscono l’audacia dei navigatori mentre parlano di sé come di esseri sovrumani. In una lettera al Fauriel scrive: «pensi di che sarebbe più impacciato il mondo, del trovarsi senza banchieri o senza poeti, quale di queste due professioni serva più, non dico al comodo, ma alla coltura dell’umanità[68].

Credo che si possa legare a questa lucida coscienza dal carattere propriamente borghese di Manzoni, l’apprezzamento per il carattere “dialettico” della sua narrazione che si legge, poche pagine dopo, nello stesso Q 8[69].

In sintesi: Alessandro Manzoni è il massimo intellettuale espresso dalla moderna borghesia italiana, e proprio per questo ne riflette tutte le contraddizioni.

Quel Manzoni gran nevrotico e ossessivo, dotato dello strepitoso DNA familiare che sappiamo, che pensava in francese, che sapeva a memoria tutti i nomi dei membri della Convenzione, che possedeva (credo unico in Italia) la raccolta completa del “Moniteur” con i verbali degli interventi nelle assemblee rivoluzionarie, una raccolta che però provvide a bruciare lui stesso nel suo giardino, in un impressionante personalissimo auto da fé, che si dedica negli ultimi anni a scrivere (lasciandolo incompiuto) il debolissimo, e lunghissimo, saggio comparativo[70] fra la rivoluzione francese del 1789 e la “vera” rivoluzione, che sarebbe poi quella italiana del 1859 (!)…

Edoardo Sanguineti, che nel 1974 aveva partecipato in “Critica Marxista” con Salinari al dibattito sul Manzoni di Gramsci, ebbe a scrivere molti anni dopo:

Credo che si possa affermare che con la presa della Bastiglia finisce non solo l’ancien régime, ma finiscono gli ancien régimes (…) In quel momento nasce anche una rivoluzione culturale: non si tratta soltanto di tagliare le teste ai re, o come diceva bene il Carducci di Versaglia, a Dio, per opera di Kant e Robespierre, ma succede qualcosa di più. Volentieri mi accade di indicare, a testimonianza di questo, un uomo che passa per essere stato un grande conservatore, un moderato, come Alessandro Manzoni. Quando (…) nella Lettera sul Romanticismo, avverte che sono finite le regole, sono finiti i modelli, che non ha più nessun significato il mondo ideologico fondato sulla imitazione e la tradizione, segna una svolta radicale in tutta la storia culturale che è senza precedenti[71].


BIBLIOGRAFIA MINIMA DI RIFERIMENTO:

R. Caputo, Il tempio e la fabbrica. Risultanze della critica manzoniana, in AA.VV., Giornata di studi per il centenario della nascita di Alessandro Manzoni, Roma, s.e., 1987, pp 85-109.

T. De Mauro, Il linguaggio dalla natura alla storia. Ancora su Gramsci linguista, in * Gramsci da un secolo all’altro, A cura di Giorgio Baratta e Guido Liguori; Roma: Editori Riuniti, 1999

A. Leone De Castris, Il Manzoni di Gramsci, in * Gramsci e la modernità. Letteratura e politica tra Ottocento e Novecento., A cura di Valerio Calzolaio. Introduzione di Pino Fasano.; Napoli: CUEN, 1991

A. Gramsci, La lingua unica e l’esperanto (firmato A.G. in “Il Grido del Popolo”, 6 febbraio 1918), ora in A. Gramsci, Scritti giovanili 1914-1918, Torino, Einaudi, 1975, pp. 174-178 (pp.176-177)

F. La Porta, La gogna? Rileggete Manzoni, please, in “L’Unità”, 3 novembre 2023, pp. 1,7.

-A Manzoni, Storia della colonna infame, a cura di Adriano Prosperi, Torino, Einaudi, 2023.

– Id., Sulla lingua italiana. Lettera al Signor Cavaliere Consigliere Giacinto Carena…(1850), in Opere varie, Milano, Redaelli Rechiedei, 1870, pp. 779-797.

– Id., Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla. (Relazione al Ministro della Pubblica Istruzione…), Ibidem, pp. 799-812.

G. Veneziani, Gramsci e Manzoni, in * Manzoni vivo: atti del Convegno manzoniano nazionale di Andria Barletta e Trani / a cura di Savino Blasucci e Giuseppe Brescia; Bari: Levante, 1987

C. Salinari, La struttura ideologica dei “Promessi sposi”, in “Critica marxista”, 3-4 (1974)

E. Sanguineti, Glosse a Salinari, in “Critica marxista”, 3-4 (1974)

Id., Ritratto del Novecento, a cura di Nina Lorenzini con uno scritto di Angelo Guglielmi, Lecce, Manni, 2009

M. Zanantoni, Antonio Labriola e Alessandro Manzoni. Alcune considerazioni sulla ricerca di un modello letterario nazionale, in * La prosa del comunismo critico: Labriola e Gramsci. A cura di Lea Durante e Pasquale Voza, pp. 321 – 328

Roma novembre 2023 R.M.

  1. Questo scritto riproduce, con qualche modifica, la relazione intitolata Gramsci e Manzoni da me presentata al Seminario della International Gramsci Society-Italia il 10 novembre 2023. Presso il sito della IGS si può accedere a questa relazione e anche al filmato del seminario e della discussione che ne seguì. Ringrazio i discussants di quel seminario (i colleghi Lelio La Porta, Donatello Santarone e Camilla Sclocco) per i loro importanti interventi di correzione e integrazione. Ma il mio ringraziamento va soprattutto al Presidente dell’IGS, il prof. Guido Liguori, che mi ha aiutato nella concezione e nella stesura di questo saggio con i suoi consigli.
  2. Sono debitore a. Lelio La Porta e Donatello Santarone per la segnalazione di un tema liceale in cui il giovane G. segnala la “sciatteria” della versificazione manzoniana.
  3. A. Gramsci, Sotto la Mole 1916-1920, Torino, Einaudi, 1971, pp.232-234 (p.234). Alle pp.235-237 segue una nota intitolata Carneade, in cui torna il paragone con don Abbondio per il comportamento pilatesco della stampa cattolica in merito alla minacciata esecuzione nel Minnesota del socialista Carlo Tresca.
  4. A. Gramsci, La lingua unica e l’esperanto (firmato A.G.) in “Il Grido del Popolo”, 6 febbraio 1918, ora in: Id., Scritti giovanili 1914-1918, Torino, Einaudi, 1975, pp. 174-178 (p. 176).
  5. A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Sergio Caprioglio e Elsa Fubini, Torino, Einaudi, 1965.
  6. Ivi, p. 378.
  7. Cfr. A. Gramsci, Epistolario, I, gennaio 1906-dicembre 1922, Roma, Enciclopedia italiana, 2009, p. 428.
  8. A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit., p. 379.
  9. Cfr. Q 1 § 73, p. 82, testo A, e Q 23 § 40, p.2237, testo C. (Citiamo i Quaderni dall’edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, 4 voll., Torino, Einaudi, 1975; l’abbreviazione Q, naturalmenmte, sta per “Quaderno”).
  10. Ma: “Se avessi la possibilità di consultare il materiale necessario”.
  11. Sono da leggere in questa ottica non pochi dei sedici “Argomenti principali” annotati sulla prima pagina dei Quaderni (8 febbraio 1929). Cfr. Q 1, p.5. L’edizione di riferimento è quella a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975.
  12. A. Gramsci, Lettere dal carcere, cit., p.491.
  13. L’argomento sarà ripreso e sviluppato nel Q 10, §4, pp. 1215-1216.
  14. Questa espressione, riferita da Dante nel canto XVII del Paradiso a Bartolomeo della Scala, signore di Verona, fu poi usata da Giulio Cattaneo per definire Gadda.
  15. Cfr. A. Prosperi, La minaccia nascosta. Per una rilettura de La colonna infame, in A Manzoni, Storia della colonna infame, a cura di Adriano Prosperi, Torino, Einaudi, 2023. p.iv.
  16. Manzoni peraltro autocriticò spietatamente l’Adelchi, nella lettera a Fauriel, per quel “colorito romanzesco che non s’accorda coll’insieme e mi irrita come un lettore mal predisposto”.
  17. A. D’Ancona-O. Bacci, Manuale della letteratura italiana, vol.V, Firenze, Barbèra, 1923 (12a edizione!).
  18. Fra questi spicca la Relazione al Ministero della Pubblica Istruzione sulla unità della lingua italiana, ivi, pp. 317-322.
  19. Si veda in particolare il fortunato volume L. Russo, Personaggi dei Promessi sposi, Bari, Laterza, 1952.
  20. Cfr. R. Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria, Roma, Editori Riuniti, 2007, p. 89.
  21. N. Sapegno, Manzoni e il primo Risorgimento, in “Risorgimento”, a. I, n. 1, aprile 1945, pp. 67-80; poi il saggio è ripubblicato in Id., Ritratto di Manzoni, Bari, Laterza, 1966, pp. 45-62 (ma con modifiche anche nel titolo: qui Ritratto di Manzoni). Tanto per misurare da quali altezze siamo precipitati nell’attuale abisso, mi sia consentito riferire in questa nota che la rivista “Risorgimento”, diretta da Carlo Salinari, citava nella Presentazione Gobetti, Gramsci, Rosselli, Pintor, Ginzburg, Colorni, e pubblicava in quel suo primo numero scritti di Sturzo, Paolo Treves, Umberto Massola, Lussu, Sereni, Saba, Moravia, Fedele D’Amico etc. (oltre a un disegno di Guttuso).
  22. N. Sapegno, Manzoni e il primo Risorgimento, cit., p. 69.
  23. Ivi, p. 69-70.
  24. Ivi, p. 70.
  25. N. Sapegno, Manzoni tra De Sanctis e Gramsci, in “Società”, a. VIII, 1952, ora in Id., Ritratto di Manzoni, cit., pp.87-99.
  26. Q 1, p.5 (è la c.1 dei Q: febbraio 1929).
  27. Q 1, §73, p.82. Che diventerà il testo C in Q 23, § 40, pp.2236-2237, con il titolo Bellonci e Crémieux.
  28. Q 1, §73, p.82.
  29. Della sterminata bibliografia sull’argomento mi limito a citare: S. Gensini, Pasolini, Gramsci e le “Questioni linguistiche”, in AA. VV., Il Gramsci di Pasolini. Lingua, letteratura e ideologia, a cura di Paolo Desogus, Venezia, Marsilio, 2022, pp. 87-108 (assai ricco di indicazioni bibliografiche); L. Rosiello, La componente linguistica dello storicismo gramsciano, in A. Caracciolo-G. Scalia (a cura di), La città futura. Saggi sulla figura e il pensiero di Antonio Gramsci, Milano, Feltrinelli, 1959, pp. 299-327; F. Lo Piparo, Lingua intellettuali egemonia in Gramsci, Prefazione di T. De Mauro, Roma-Bari, Laterza, 1979; per una rassegna della critica dal secondo dopoguerra, cfr. R. Caputo, Il tempio e la fabbrica. Risultanze della critica manzoniana, in AA.VV., Giornata di studi per il centenario della nascita di Alessandro Manzoni, Roma, s.e., 1987, pp 85-109.
  30. M. Sansone, Alessandro Manzoni, in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. Binni, vol.II, Da Vico a D’Annunzio, Firenze, la Nuova Italia, 1973, p. 476.
  31. Sulla stessa linea interpretativa Migliorini che vede nelle posizioni di Manzoni un fine di «politica sociale» piuttosto che strettamente teorico e storico.
  32. Q 29, § 3, p. 2345.
  33. Q 29, § 3, pp. 2345-2346.
  34. Q 29, § 3, p. 2346.
  35. «E perché non esiste in Italia una letteratura «nazionale» del genere, nonostante che essa debba essere redditizia? È da osservare il fatto che in molte lingue, “nazionale” e “popolare” sono sinonimi o quasi (così in russo, così in tedesco in cui “volkisch” ha un significato ancora più intimo, di razza, così nelle lingue slave in genere; in francese “nazionale” ha un significato in cui il termine “popolare” è già più elaborato politicamente, perché legato al concetto di “sovranità”, sovranità nazionale e sovranità popolare hanno uguale valore o l’hanno avuto). In Italia il termine «nazionale» ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con «popolare», perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla «nazione» e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento politico popolare o nazionale dal basso: la tradizione è «libresca» e astratta e l’intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Il termine corrente «nazionale» è in Italia legato a questa tradizione intellettuale e libresca, quindi la facilità sciocca e in fondo pericolosa di chiamare «antinazionale chiunque non abbia questa concezione archeologica e tarmata degli interessi del paese» (Q 21 § 5, p. 2116).
  36. Ivi, pp. 2117-2118.
  37. Q8, § 9, pp. 942-943.
  38. Q 14, § 14, pp. 1669-1670 (testo A).
  39. Q 14, § 72, pp. 1737-1740.
  40. I testi A sono in Q 17, § 38, pp. 1940-1, e in Q14, § 14, pp. 1669-70.
  41. Q 21, § 1, pp. 2107-2110.
  42. Q 1 §72, pp.80-82.
  43. Q 23 §18, pp.2206-2208.
  44. Q 6, § 56, p. 726.
  45. Q 6, § 183, p. 829. Lettera «che, scrive la “Civiltà Cattolica”, “dato il motivo che la provocò, può considerarsi come una dichiarazione di principii. Evidentemente il vessillo letterario non era che lo schermo di altre idee, di altri sentimenti, che li divideva”, e cioè il diverso atteggiamento nel problema della difesa della religione».
  46. Q 8, § 104, p.1002. «I nipotini del padre Bresciani. A. Luzio. Articolo di A. Luzio nel “Corriere della Sera” del 25 marzo 1932 (La morte di Ugo Bassi e di Anita Garibaldi) in cui si tenta una riabilitazione del padre Bresciani. Le opere del Bresciani “al postutto non possono, quanto al contenuto, venir liquidate con sommarie condanne”. Il Luzio pone insieme il saggio del De Sanctis con un epigramma del Manzoni (il quale, interrogato se conoscesse l’Ebreo di Verona, avrebbe risposto, secondo il diario di Margherita di Collegno: “Ho letto i due primi periodi; paiono due sentinelle che dicano non andate avanti”) e poi chiama “sommarie” le condanne; non c’è del gesuitico in questo furbo giocherello? E ancora: “Non simpatico certo è il tono con cui egli, portavoce della reazione susseguita ai moti del ’48-49, rappresentava e giudicava gli assertori delle aspirazioni nazionali: ma in più d’uno dei suoi racconti, sopratutto nel Don Giovanni ossia il Benefattore occulto (volumi 26-27 della “Civiltà Cattolica”), non mancano accenti di umana e cristiana pietà per le vittime; parziali episodi vengono equamente messi in bella luce, per esempio la morte di Ugo Bassi e la straziante fine di Anita Garibaldi”. Ma forse che il Bresciani poteva far diversamente? Ed è proprio notevole, per giudicare il Luzio, che egli dia per buono al Bresciani proprio il suo gesuitismo e la sua demagogia di bassa lega».
  47. Q 8, § 228 pp. 1084-5. Nel testo C (in Q 16, § 1, ora intitolato La religione, il lotto e l’oppio della miseria) G. aggiunge: «Da vedere anche il Ruffini pel suo studio sul Manzoni religioso)» (Q 16, § 1, pp.1837-1840, p. 1839).
  48. Q 23, §51, pp.2244-2247. Importante la conclusione metodologica: «In queste note occorre evitare ogni tendenziosità moralistica tipo Tolstoi e anche ogni tendenziosità del «senno di poi» tipo Shaw. Si tratta di una ricerca di storia della cultura, non di critica artistica in senso stretto: si vuole dimostrare che sono gli autori esaminati che introducono un contenuto morale estrinseco, cioè fanno della propaganda e non dell’arte, e che la concezione del mondo implicita nelle loro opere è angusta e meschina, non nazionale-popolare ma di casta chiusa. La ricerca sulla bellezza di un’opera è subordinata alla ricerca del perché essa è “letta”, è “popolare”, è “ricercata” o, all’opposto, del perché non tocca il popolo e non l’interessa, mettendo in evidenza la assenza di unità nella vita culturale nazionale».
  49. Cioè in Q 3, § 148, pp. 402-403, che abbiamo già considerato, vedi supra, p.000.
  50. Q 7, § 50, pp. 895-897.
  51. Q 14, § 39, p. 1696. A proposito del Thierry, cfr. supra cap. 4.2, p. 11.
  52. Q14, § 〈45〉, pp.1701-1703.
  53. Q 21, § 3, pp. 2112. Cfr Quaderno 9 (XIV), p. 97.
  54. Q 23, § 56, pp. 2249-50. Cfr Quaderno 6 (VIII), pp. 2 – 2 bis.
  55. «Salvadori, Valli e il lorianismo. Valli e la sua interpretazione «cospiratoria» e massonica del Dolce Stil nuovo (col precedente di D. G. Rossetti e del Pascoli) e Giulio Salvadori che nei Promessi Sposi scopre il dramma di Enrichetta (Lucia) oppressa da Condorcet, Donna Giulia e il Manzoni stesso (Don Rodrigo, l’Innominato ecc.) appartengono a una branca del Lorianesimo. (Di Giulio Salvadori e della sua interpretazione vedi un articolo in “Arte e Vita” del giugno 1920 e il libro postumo Enrichetta Manzoni – Blondel e il Natale del 33, Treves, 1929)» (Q 1, § 97, p. 93). Il testo C è in Q 28, § 13, p. 2232.
  56. Q 2, § 8 e § 9, pp. 160-161.
  57. Q 2, § 91, p. 249.
  58. «C’è un periodo, quello dell’egemonia del diritto germanico, in cui però il legame tra il vecchio e il nuovo rimane quasi unicamente la lingua, il Mediolatino. Il problema di questa interruzione ha interessato la scienza e cosa importante ha interessato anche intellettuali come il Manzoni (vedi suoi scritti sui rapporti tra romani e longobardi a proposito dell’Adelchi): cioè ha interessato nel principio del secolo XIX quelli che si preoccupavano della continuità della tradizione italiana dall’antica Roma in poi per costituire la nuova coscienza nazionale» (Q 3 § 87, pp. 367-368).
  59. Q8, § 19, p. 65, poi ripresa nel testo C del Q 11, § 56, p. 1483.
  60. L’argomento è trattato anche nel Quaderno di traduzione 7 [a], da Marx, Lohanarbeit und Kapital, vol. I, 2007, p. 805.
  61. Q 14, § 25, p. 1682.
  62. A. Gramsci, Sotto la Mole, cit., p.324-325.
  63. Q 11, § 63, pp. 1490-91. Il testo A è in Q 4, § 35, p. 453, dove G. scrive del «Legame tra cattolici e Ideologia: Manzoni-Cabanis-Bourget-Taine».
  64. Q 14, § 48, pp. 1706-7.
  65. Q 15, § 37, pp. 1792-3.
  66. Come abbiamo già visto supra: «Ciò appunto è il tratto più rilevante della religione del Tolstoi che intende l’Evangelo “democraticamente”, cioè secondo il suo spirito originario e originale. Il Manzoni invece ha subìto la Controriforma: il suo cristianesimo ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un paternalismo popolaresco gesuitico» (Q 23, § 51) E nel testo A: «Il Manzoni invece ha subito la Controriforma, il suo cristianesimo è gesuitismo».
  67. Q 23, § 51, p. 2246.
  68. Q 8, § 3, pp. 937-938. «Il Franelli osserva: “I lavori di storia e di economia politica li mette più in alto che una letteratura piuttosto (?!) leggera. Sulla qualità della coltura italiana d’allora ha dichiarazioni molto esplicite nelle lettere all’amico Fauriel. Quanto ai poeti, la loro tradizionale megalomania lo offende. Osserva che oggidì perdono tutto quel gran credito che godettero in passato. Ripetutamente ricorda che alla poesia ha voluto bene in ‘gioventù’”».
  69. Q 8, § 13, p. 945. «Passato e presente. Manzoni dialettico. Cap. VIII dei Promessi Sposi, episodio della tentata sorpresa di Renzo e Lucia a Don Abbondio per farsi sposare in casa: “Renzo che strepitava di notte in casa altrui, dove s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza di un oppressore; eppure alla fin dei fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure in realtà era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimosettimo”».
  70. Cfr. A. Manzoni, La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Saggio comparativo, in Tutte le opere, a cura di G. Orioli, E. Allegretti, G. Manacorda, L. Felici, edizione diretta da B. Cagli, Roma, Avanzini e Torraca, 1965, pp. 672-767.
  71. E. Sanguineti, Ritratto del Novecento, a cura di Nina Lorenzini con uno scritto di Angelo Guglielmi, Lecce, Manni, 2009, p. 23.

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