Gramsci, il fascismo, il neofascismo e il problema dell’egemonia

Raul Mordenti

Gramsci, il fascismo, il neofascismo e il problema dell’egemonia

Intervento al Seminario “Gramsci, fascismo e antifascismo ieri e oggi”

(con Angelo D’Orsi, Guido Liguori, Raul Mordenti, coordina Francesca Chiarotto,

Montesacro (III municipio), ANPI sezione “Orlando Orlandi Posti”, 30 gennaio 2023)

Vorrei porre un problema, storiografico e politico, molto importante per la lotta politica del nostro oggi: il fascismo fu capace di egemonia, oppure no?

E se la risposta fosse sì: di quale egemonia sui generis si trattò? Quali le sue caratteristiche? Quali i suoi limiti e punti deboli?

Una domanda complessa, per rispondere alla quale occorre distinguere all’interno del concetto stesso di egemonia, o arricchirlo e precisarlo meglio.

Noi sappiamo dal nostro Gramsci che il dominio di una classe sull’altra non è fatto solo di coercizione, di polizia e carabinieri, di magistratura, di carcere, etc., esso è fatto anche di un complesso e vitale apparato ideologico che garantisca una certa misura di consenso, a cui con G. diamo il nome di egemonia.

G. opera una sostanziale innovazione, semantica anche se non lessicale, rispetto all’uso tradizionale (diciamo “pre-gramsciano”) del termine “egemonia”.

Non a caso G. usa le virgolette (“egemonia politica”) quando cita per la prima volta (nel Q 1,§ 44) l’egemonia, per segnalare che il temine va inteso diversamente dai significati correnti di predominio, prevalenza, potere, supremazia, etc.; e userà le virgolette ancora nel Q10, §6, 1245[1], accompagnando al termine l’aggettivo “politica” in una frase densissima:

“La filosofia della praxis concepisce la realtà dei rapporti umani di conoscenza come elemento di ‘egemonia’ [fra virgolette, NdR] politica.”

Cambiano storicamente le proporzioni – per dir così – di queste due componenti, coercizione e consenso, dominio ed egemonia, ma esse sono sempre presenti; anche nella situazione più coercitiva che possiamo immaginare – diciamo una dittatura o un’occupazione militare straniera – è necessario che una parte almeno della popolazione risulti consenziente e persuasa, ad esempio i collaborazionisti o il personale addetto alla repressione.

Si potrebbe dire, di converso, che anche nel socialismo ci sarà, e ci dovrà essere, qualche forma di coercizione, e che essa sparirà solo con la fine della lotta di classe, cioè con una situazione di estinzione dello Stato, che noi chiamiamo comunismo. Scrive G.:

“(…) l’elemento Stato-coercizione si può immaginare esaurentesi mano a mano che si affermano elementi sempre più cospicui di società regolata (…)”, passando per una fase di “Stato guardiano notturno (…) riducente gradualmente i suoi interventi autoritari e coattivi (…) fino a un’era di libertà organica” (Q6, §88, 763-4)

(cioè appunto il comunismo).

Superfluo notare in una sede come questa quanto questo originale concetto di egemonia sia centrale per tutta l’elaborazione di G., basti dire che:

“la guerra di posizione [che noi dobbiamo considerare come il nome gramsciano della rivoluzione in Occidente, NdR] in politica, è il concetto di egemonia.”

D’altronde i “sistemi o apparati egemonici” che G. prende in esame chiariscono bene la vastità e la complessità del concetto:

“dato che ogni rapporto di ‘egemonia’ [di nuovo fra virgolette, NdR] è necessariamente un rapporto pedagogico” (Q10, II, §44, 1331):

tali “sistemi o apparati egemonici” sono certamente il sistema scolastico, ma anche le imprese giornalistiche, ma anche

“una molteplicità di altre iniziative e attività cosiddette private”, perfino “le opere pie e i lasciti di beneficenza” (Q14, §56, 1715).

Dunque parlando di egemonia non si può separare mai “politica” da “culturale” né da “politico-intellettuale”, né da “politica e culturale” etc. (gli altri aggettivi che accompagnano nei Q il lemma egemonia), e questo non è affatto un caso, ma deriva proprio dal carattere costitutivamente complesso, ad un tempo strutturale e sovrastrutturale, dell’egemonia e dal fatto che

il terreno su cui si svolge la “lotta per l’egemonia è quello della società civile” (Q4, §46, 473).

A sua volta la società civile è inseparabile dello Stato, anche se (contro Gentile) G. precisa che lo Stato (e tanto più lo Stato-governo, cioè il fascismo) non riassorbe affatto in sé la società civile:

“Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corrazzata di coercizione” (Q6, §88, 793-4).

Al punto di contatto fra società civile e società politica si colloca

“ciò che si chiama ‘opinione pubblica’”

della quale appare dunque chiara l’importanza, politicamente decisiva, su cui torneremo.

Per rispondere alla domanda da cui siamo partiti (il fascismo fu egemonico?) occorre partire dal fatto che il fascismo, in quanto potere della borghesia, è il risultato di una crisi di egemonia, quella dello Stato liberale pre-fascista:

“l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diventa sempre più difficile”, da cui deriva la “crisi del principio di autorità”, “la dissoluzione del regime parlamentare” e una vera e propria “crisi di egemonia” (Q13, §23, 1663).

E allora, questo risultato della “crisi di egemonia” della borghesia italiana, il fascismo, come ha potuto vincere e durare, come ha potuto godere (almeno in certe fasi) del consenso popolare, come ha potuto esercitare (in una forma che dobbiamo capire) una qualche sua egemonia?

L’egemonia, che definirei “vera e propria” (o storica, o positiva) consiste nella capacità di una classe, e di un gruppo dirigente, di risolvere i problemi principali all’ OdG di una società in un momento storico dato. In questo senso furono egemonici, come G. ricorda, i moderati del Risorgimento, i quali, nonostante tutto, seppero risolvere il problema allora centrale dell’unità nazionale.

Ma il fascismo? Quale egemonia “vera e propria” esercitò mai? Abbassando i salari[2], tenendo il Sud nel sottosviluppo, immobilizzando le masse e impedendone ogni iniziativa autonoma (la “rivoluzione passiva”), esasperando le disuguaglianze, portando il Paese a una serie continua di guerre fino alla catastrofe?[3] E non cito neppure la vergogna suprema del razzismo, anche ben prima delle leggi antisemite del 1938.

Non ci devono ingannare gli elementi di modernizzazione capitalistica che il fascismo evidentemente introdusse (specie per soccorrere il capitalismo in crisi dopo il ’29): lo Stato fascista interviene nell’economia, ma sempre a sostegno della proprietà privata che non è mai, in alcun modo, messa in discussione, come anche il prelievo fiscale (non progressivo[4]) lascia intatti i grandi patrimoni e la finanza.

Il fascismo non è affatto “la prosecuzione dell’Ottobre”: è il suo esatto contrario.

Al problema di capire che cosa fu il fascismo, che – non si dimentichi mai questo fatto – rappresentava una novità assoluta senza precedenti, dette un contributo decisivo, sulla scorta dell’impostazione di G., in particolare Palmiro Togliatti (e faccio notare che fu questa nuova linea promossa dai comunisti italiani a permettere al proletariato internazionale la politica dell’unità antifascista e della Resistenza, e fu ciò che – in ultima analisi – ci permise di vincere la guerra antifascista).

Nel “Corso sugli avversari” (del 1935), un testo straordinario che sarebbe ancora utilissimo rileggere per tutti noi, Togliatti parte dalla definizione del fascismo uscita dal XIII Plenum dell’Internazionale:

“Il fascismo è una dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario”,

ma si sforza di approfondire quei concetti e – soprattutto – di trarne una politica.

Si tratta, spiega Togliatti:

“di unire, di collegare i due elementi del fascismo, la dittatura della borghesia e il movimento delle masse piccolo-borghesi” (…) “Se ci si ferma al primo elemento non si vede, si perde di vista, la grande linea dello sviluppo storico del fascismo e il contenuto di classe. Se ci si ferma al secondo elemento, si perdono di vista le prospettive.” (P. Togliatti, Opere, vol. III, 2, Torino, Einaudi, 1973, pp. 533-4)

L’errore da cui guardarsi (Togliatti ripete più volte questo ammonimento) è “lo schematismo”. Lo “schematismo” conduce a sottovalutare il carattere specifico e originale del fascismo che consiste nelle organizzazioni a base di massa; solo quando si verifica questo si tratta di fascismo vero e proprio (e Togliatti mette in guardia dall’uso indiscriminato del termine “fascismo” per ogni Governo di destra):

“La dittatura fascista (…) si sforza di avere un movimento di massa organizzando la borghesia e la piccola borghesia.” (p.537)

Questo è il problema politico principale per i comunisti, che anche il Rapporto di Dimitrov al VII Congresso della Internazionale Comunista mette al centro:

“Qual è l’origine dell’influenza del fascismo sulle masse? Il fascismo riesce ad attirare una parte delle masse perché fa appello demagogicamente ai loro bisogni e alle loro aspirazioni più sentite. Il fascismo non attizza soltanto i pregiudizi profondamente radicati nelle masse, ma specula anche sui migliori sentimenti delle masse, sul loro senso di giustizia e qualche volta persino sulle loro tradizioni rivoluzionarie.”

Ci troviamo dunque di fronte a un paradosso, che richiede appunto una grande capacità di analisi e iniziativa politica: il fascismo persegue, e ottiene, la passivizzazione delle masse attraverso la loro organizzazione!

E non è questo l’unico paradosso del fascismo, che anche sul piano ideologico è tutto e il contrario di tutto, “assomiglia ad un camaleonte”, dice Togliatti (p.541): si dichiara anti-imperialista (nel manifesto di Sansepolcro) e dà vita alle guerre imperialiste, si dice anti-capitalista ma prende i soldi dagli industriali e fa i loro interessi, è repubblicano ma servo del re, si dice anticlericale ma firma il Concordato, e anche sul piano più strettamente culturale, è futurista ma ultra-tradizionalista e strapaesano, idealista e grettamente neo-positivista, maschilista-puttaniere e cattolicissimo-brescianesco, etc.

L’incendiario futurista Marinetti che finisce indossando la feluca dell’Accademia d’Italia è il simbolo perfetto di questa assoluta e disinvolta doppiezza fascista.

Il fascismo sostituisce insomma a una vera egemonia della classe borghese (ormai storicamente impossibile, impossibile dopo l’Ottobre) un impressionante intervento sul terreno che come abbiamo visto G. (ricordate?) definiva “il punto di contatto fra società civile e società politica” dove si colloca “ciò che si chiama ‘opinione pubblica’”, cioè la comunicazione, la narrazione, la persuasione (e la costrizione) di massa, etc., tutto ciò che possiamo definire (ma con una parola assai riduttiva rispetto alla cosa) propaganda.

Si può anche ipotizzare che fra le due cose esista un rapporto inversamente proporzionale, cioè tanto meno si può esercitare una vera positiva egemonia, tanto più si deve ricorrere alla propaganda presso l’opinione pubblica, con una sorta di meccanismo di compensazione.

Il fascismo crea e utilizza un pervasivo apparato di artifici, cioè di propaganda, e ricordiamoci che la moderna propaganda politica di massa trovò nel nazista Goebbels uno dei principali inventori e protagonisti.

Con quali modalità il fascismo compie questa operazione? Con la “nazionalizzazione delle masse” (il mito della I guerra mondiale e dei suoi martiri, la retorica dannunziana, le adunate a piazza Venezia, le sfilate militari, etc.) e, determinante su tutto, la guerra, la cultura della guerra (riflettano su questo coloro che hanno indossato l’elmetto della NATO: il fascismo genera la guerra e la guerra genera il fascismo). Con l’organizzazione capillare della società civile (i balilla, il “sabato fascista”, il dopolavoro, il GUF, etc.). Con l’utilizzazione, veramente assai moderna, dei mezzi di comunicazione di massa del tempo, della radio, dei cinegiornali e del cinema (“L’arma più potente” secondo Mussolini).

Ma il vero scopo di questo imponente apparato di propaganda di massa del fascismo era proprio e solo la “passivizzazione delle masse”, la loro immobilizzazione. Il fascismo si dimostra capace di controllare e irreggimentare le masse, e non più solo di escluderle e ignorarle come faceva lo Stato liberale, il quale dunque si era rivelato incapace dopo la guerra di fronteggiare l’ingresso nella scena politica (con le elezioni del 1919) del proletariato organizzato dal PSI e anche dei contadini organizzati dal PPI.

Alla propaganda (ma questo termine – ripeto – è assai riduttivo) si somma lo sforzo massimo dedicato alla coercizione, utilizzata selettivamente dal fascismo soprattutto per impedire che possa manifestarsi una nuova egemonia alternativa, colpendo dunque anzitutto la politica dei comunisti, per mantenere così l’avversario storico, il proletariato, in una situazione che G. definisce di “debolezza relativa”.

Sono questi i due elementi che caratterizzano il fascismo, quella che ho chiamato propaganda e rendere impossibile l’alternativa. Ricordiamocene, questi due elementi li riprenderemo fra poco.

Senza procedere a banali attualizzazioni, dobbiamo domandarci: ci ricorda qualcosa dell’oggi questa “egemonia senza egemonia”, che sostituisce alla soluzione dei veri problemi della nostra società un apparato propagandistico di consenso e, al tempo stesso, una mortificazione della democrazia per impedire che si manifesti e si organizzi un’opposizione alternativa? (per esempio, mutatis mutandis, non con il carcere ma per ora con leggi elettorali truffa che ostacolino e impediscano la rappresentanza del conflitto di classe nel Parlamento, e presto con il definitivo stravolgimento della Costituzione tramite il presidenzialismo).

Il Governo Meloni, nonostante le sue promesse elettorali sovraniste e demagogiche, non può in alcun modo discostarsi dalla cosiddetta “Agenda Draghi”, cioè dal programma del capitale finanziario europeo e mondiale, fatto di fedeltà atlantica e di guerra, di obbedienza alla BCE, di privatizzazioni, di riduzione dei diritti sociali e del reddito del proletariato.

In questo senso l’attuale Governo si trova a dover risolvere una contraddizione analoga a quella che il fascismo si trovò di fronte: costruire un’egemonia senza egemonia.

Ecco perché questo Governo, che non può risolvere nessuno dei problemi veri del Paese, deve concentrarsi sulla sua propagandistica narrazione (o storytelling, come oggi si dice) che gli consente di pagare in qualche modo il debito verso il suo elettorato; deve allora prendersela con i rave, deve criminalizzare gli studenti e le studentesse non appena si muovono (occorre “umiliare” gli studenti e le studentesse, ha detto il ministro Valditara), deve inventarsi sulle prime pagine dei suoi giornali un “pericolo anarchico”, e deve soprattutto attaccare l’antifascismo e la Resistenza, le vere basi della nostra libertà e della Costituzione. Ora finalmente i neo-fascisti possono fare quello che hanno sempre fatto ma seduti sul seggio di Presidente del Senato o sulla cattedra di Ministro di quella che fu la Pubblica Istruzione (adesso l’aggettivo “pubblica” è stato non a caso soppresso).

E non dimentichiamo che questo Governo, questo regime, tramite le tv e il monoplio della stampa ormai unificata dispone di un pervasivo apparato mediatico senza precedenti,

Dunque il terreno della lotta fra le due narrazioni, quella fascista e quella antifascista, diventa centrale per noi, anche politicamente, non si tratta solo di storiografia. Dobbiamo combattere e vincere una battaglia su questo terreno, una battaglia che abbiamo perso negli ultimi decenni senza combatterla. Abbiamo infatti permesso che il tradizionale viscido a-fascismo della borghesia italiana si trasformasse in esplicito anti-antifascismo, ben prima di Meloni grazie ai Pansa, ai Violante, ai paolimieli ai brunivespa, alle mozioni-vergogna che equiparano nazismo e comunismo votate al Parlamento europeo anche dal PD (una cosa di cui non potremo mai perdonare quel partito), etc. Tutto questo ha prodotto, con un lavoro durato da circa un ventennio, l’esito dell’attuale Governo Meloni[5].

Il piccolo contributo che noi abbiamo dato a tale necessaria battaglia politico-culturale è questo libretto, Dodicesima disposizione (disponibile anche gratuitamente on line in forma di audio-video nel sito di Rifondazione) che non ricostruisce solo, sia pure in modo elementare, la storia del fascismo ma anche quella del neo-fascismo, il quale forse è ancora più oscuro e sanguinario del fascismo stesso.

Per dirne una: il MSI, il partito che conserva il suo simbolo in quello di FdI e che è stato celebrato nell’anniversario della sua fondazione da Meloni, La Russa, etc., non è solo il partito di un antisemita redattore della “Difesa della razza” e poi fucilatore di partigiani ma è anche il luogo politico da cui provengono tanti esecutori di aggressioni e bombe, e a cui vanno a finire, di solito come presidenti, i Borghese, i De Lorenzo, i Birindelli, i Miceli, etc.

C’è una scia di sangue che percorre tutta intera la storia repubblicana: dalla prima strage di Stato di Portella della Ginestra, a piazza Fontana, al “rumor di sciabole” di De Lorenzo nel ’64, al golpe Borghese del ’70, all’assassinio di Moro, all’Italicus, alla strage di Bologna, etc. In tutte queste vicende c’è sempre un triangolo (il riferimento alla massoneria della P2 non è casuale) composto da tre vertici: esecutori fascisti (o mafiosi), servizi segreti italiani inquinati dal fascismo a fare da protettori e servizi segreti stranieri anglo-americani a fare da mandanti e registi.

Nel nostro libro c’è tutto questo e c’è anche un agghiacciante elenco (curato dalle madri antifasciste di ragazzi uccisi) di aggressioni, omofobia, razzismo, ferimenti, omicidi etc. ad opera dei neofascisti, un elenco che solo dal 2014 al 2021 occupa ben 9 pagine!

Ricostruire specie fra i giovani, una narrazione di verità è oggi un compito politico come non mai, il compito della nuova generazione della nuova Resistenza.

RM, 30/1/23

  1. Con la sigla Q si designano i Quaderni del carcere, nell’edizione curata da Valentino Gerratana (Torino, Einaudi, 1975); le cifre seguenti indicano il paragrafo e la pagina di quell’edizione. La “G” maiuscola puntata sta – naturalmente – per “Gramsci”.
  2. Rispetto al 1923, nel 1938 i salari reali erano scesi di circa il 20%.
  3. Per non dire della repressione diretta, prima e dopo essere diventato regime: aggressioni, pestaggi, licenziamenti, discriminazioni, incendi, omicidi politici; basti dire che tra il 1926 (anno della sua istituzione) e il 1943 al “Tribunale speciale” furono deferiti 15.806 antifascisti/e (891 le donne), 12.330 furono inviati/e al confino e ben 160.000 furono gli “ammoniti” sottoposti a “vigilanza speciale”, che comportava fra l’altro periodici e immotivati arresti. Gli imputati al “Tribunale speciale” furono 5.619 (124 donne), i condannati 4.596. Gli anni totali di prigione inflitti furono 27.735, 42 le condanne a morte. Traggo queste cifre da: AA. VV., Dodicesima disposizione, Roma, Bordeaux, 2022.
  4. Per prelievo fiscale “progressivo” si intende un sistema in cui la percentuale del reddito da pagare in tasse cresce con il crescere del reddito stesso.
  5. E c’è chi, nel centrosinistra, si “sorprende” del Governo Meloni! Basterebbe ricordare a costoro che con la legge elettorale proporzionale Meloni avrebbe avuto (forse) il 20% dei voti e non sarebbe andata da nessuna parte. È solo la legge elettorale maggioritaria “rosatellum” (voluta da chi? votata da chi? mantenuta da chi?) che – come si sapeva benissimo anche prima del voto – ha consegnato la vittoria alla destra (e spinto all’astensione il 35% degli elettori).

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