Raul Mordenti
Il testo e la tradizione.
A proposito del testo informatico
A mio fratello Adriano
Debiti:
Licenziando finalmente per le stampe un lavoro che è durato davvero troppo a lungo, mi si affollano alla mente i debiti contratti, talmente numerosi da non poter essere riconosciuti per intero qui.
Valgano dunque come una parte per il tutto i nomi che elenco, quasi alla rinfusa, qui di seguito.
All’inizio di tutto, e fino alla fine di questo lavoro, c’è lo schivo magistero teorico di Tito Orlandi, a cui sono grato in particolare per avermi incoraggiato sempre a pensare l’informatica umanistica nonostante le difficoltà che tuttora incontro nell’usare “Word”; legato al mio apprendistato, resta indelebile la cara memoria di Giuseppe Gigliozzi.
Ma prima ancora di quell’inizio, c’è la lezione etico-politica di amore e rispetto per la storica materialità dei testi che mi viene da Armando Petrucci, e poi dall’esempio, e dall’amicizia, di Attilio Bartoli Langeli.
Fra coloro che negli anni hanno letto e riletto questo testo nelle diverse successive versioni, correggendolo e modificandolo ogni volta!, ricordo solo i nomi di Claude Cazalé Bérard, di Luca Serianni, di Daniela Guardamagna (e i suoi due, per me anonimi ma preziosi, referees), di Alberto Gianquinto, di Dino Buzzetti, di Domenico Fiormonte, di Antonio Perri, di Paolo Sordi, di Myriam Silvera. A tutti e a tutte loro va la mia gratitudine.
Né posso dimenticare i miei studenti e le mie studentesse del Corso di Laurea Magistrale in “Informazione e sistemi editoriali” dell’Università di Roma “Tor Vergata”: a loro negli ultimi anni ho raccontato queste cose, prima di scriverle, mentre le scrivevo e dopo averle scritte e riscritte, facendo sempre tesoro delle loro reazioni e osservazioni.
Gli errori (e certo ne sono ancora tanti) sono invece tutti ed esclusivamente miei.
R.M.
«Tutto quello che noi diciamo che è nasce dal mutare luogo, dal movimento, dalla mescolanza reciproca: non parliamo in modo corretto, dal momento che niente mai è, ma tutto diviene…» (Platone, Teeteto, 152,d-e)
«And nothing is but what is not.»
(Shakespeare, Macbeth, I, III, 142)
(0. Posizione del problema)
0.1. Il testo informatico è stato legato a un’obiezione teorica radicale: esiste una linea interpretativa (di provenienza specialmente americana: cfr. Landow, 1988; ma se ne veda una rassegna ragionata in Orfei, 2002) che collega direttamente al testo informatizzato la teoria decostruzionista e la cosiddetta «semiosi illimitata» o «ermetica».
0.1.1. tale linea individua anzi una sorta di preistoria dell’ipertesto informatico che, prima ancora di essere reso praticamente possibile dalla tecnologia, era stato teoricamente vaticinato da pensatori come Barthes, Foucault, Derrida tutti per vie diverse «precursori di un movimento capace di rompere con i canoni tradizionali della testualità, mettendo in discussione in particolare i concetti di autore, lettore e linearità» (Orfei, 2002: 159).
0.1.2. Si pensi anzitutto (ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi) al Roland Barthes di S/Z (1964), che legge Sarrasine di Balzac ricorrendo al concetto di “lessìe” (autonomi «blocchi di significazione»; cfr. anche Barthes, 1991: 299) e individuando nella «tecnologia del libro» la gabbia costrittiva che incatena nella rigidità univoca della successione fissa delle pagine la pluralità infinita dei legami, dei rimandi e dei significati infinitamente aperti all’interpretazione.
A questa situazione gutemberghiana Barthes contrappone la possibilità di un «testo ideale» (e, al tempo tecnologico in cui lui scriveva, davvero solamente ideale) in cui: «le reti (reseaux) sono multiple e giocano fra loro senza che nessuna possa ricoprire le altre; questo testo è una galassia di significanti, non una struttura di significati; non ha inizio: è reversibile; vi si accede da più entrate di cui nessuna può essere decretata con certezza la principale.» (Barthes, 1970: 11).
0.1.2.1. Un tale testo metterebbe in discussione radicalmente anche il ruolo che la nostra tradizione attribuisce al Lettore di fronte all’Autore (ciò che Barthes definisce come il loro «divorzio inesorabile mantenuto dall’istituzione letteraria»), giacché spetterebbe ora al Lettore un’autonoma attività di costruzione dei significati tramite la sua libera scelta di attraversamento delle lessìe testuali.
Sarebbe in effetti difficile non leggere queste parole come una descrizione dell’ipertesto informatico avant la lettre (o meglio: avant la chose).
0.1.3. Da parte sua Michel Foucault (1971) non solo riduce l’Autore a una «funzione» del discorso, ma afferma che «l’essere del linguaggio appare di per se stesso solo nella scomparsa del soggetto». Così la domanda evocata da «io parlo» ha delle conseguenze dirompenti per la metafisica occidentale, spezzandone il nesso fondativo fra Soggetto e logos: «Se in effetti il linguaggio risiede unicamente nella sovranità solitaria dell’ ‘io parlo’, niente avrà più il diritto di porgli un limite – né colui a cui esso si rivolge, né la verità di quel che dice, né i valori o i sistemi rappresentativi che utilizza; in breve, non è più discorso e comunicazione di un senso, ma distendersi del linguaggio nella sua bruta essenza, pura esteriorità dispiegata; e il soggetto che parla non è più il responsabile del discorso (…) ma piuttosto l’inesistenza nel cui vuoto s’insegue senza tregua l’effondersi infinito del linguaggio.» L’ «io parlo» funziona in tal modo al contrario – per così dire – rispetto all’ «io penso» cartesiano e compie un cammino esattamente inverso: «Quest’ultimo [l’«io penso» cartesiano, NdR] conduceva infatti alla certezza indubitabile del’Io e della sua esistenza; quello [l’ «io parlo», NdR], al contrario, respinge, disperde, cancella questa esistenza e non ne lascia apparire che lo spazio vuoto.» (Foucault, 1986: 13, 15). Se il primo fondava sul Soggetto l’ontologia occidentale, il secondo la smaschera definitivamente e la rende impossibile.
0.1.3.1. Si tratta allora semmai solo di interrogarsi sulle condizioni di esercizio della funzione enunciativa, spiegare «perché il discorso non abbia soltanto un senso e una verità, ma una storia specifica», cioè chiarire le condizioni di possibilità di un discorso che in quanto tale non appartiene, e non può appartenere, a nessuno.
È quanto Foucault propone con il concetto di «a priori storico» (un concetto latamente contraddittorio, anzi ossimorico: «Giustapposte, queste due parole producono un effetto un po’ stridente»– ammette Foucault). L’a priori storico non è «condizione di validità per dei giudizi, ma condizione di realtà per degli enunciati. (…) A priori non di verità che potrebbero non venire mai dette, né realmente offerte all’esperienza; ma di una storia che è data, perché è quella delle cose effettivamente dette.» (Foucault, 1980: 170-1).
0.1.3.2. Appare tuttavia significativo che, a partire da queste posizioni, l’ultimo Foucault (si tratta delle lezioni al Collège de France del febbraio-marzo 1984, pochi mesi prima della morte) torni ad interrogarsi sul problema della verità, ma spostandone – per così dire – il terreno, da quello della verifica di validità dei processi conoscitivi a quello della vita. È ciò che Foucault fa attraverso il recupero, geniale e spiazzante, di una sotterranea tradizione cinica, da Antistene di Atene a Diogene («il Socrate pazzo»). Di questa tradizione Foucault rintraccia nella cultura occidentale una sorta di longue durée (costante sotto le forme cangianti dell’asceta, del rivoluzionario, del militante, dell’artista e oggi, direi soprattutto, dei “punk a bestia”): «Quando la verità è rimessa continuamente in discussione dallo stesso amore per la verità, qual è la forma di esistenza che meglio si accorda con questo continuo interrogarsi? Qual è la vita necessaria quando la verità non lo è più? Il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, tutto è permesso. La sua formula è piuttosto: se devo confrontarmi con il pensiero che ‘niente è vero’ come devo vivere?» (Foucault, 2009: 5; ma cfr. anche Foucault, 1996).
0.1.3.3. Sono del tutto evidenti le analogie del modo in cui Foucault pensa la testualità con la realtà attuale della comunicazione segnata e dominata dal computer. Scrive Mario Perniola: «Anticipando di quarant’anni una condizione comunicativa che si realizzerà solo nel nuovo millennio con la diffusione dei forum, dei blog e dei wiki attraverso Internet, [Foucault] immagina una cultura dove i discorsi circolino e siano ricevuti senza che la funzione-autore appaia mai.» (Perniola, 2009: 61).
0.1.4. La critica più radicale alla metafisica occidentale, quella elaborata instancabilmente da Jacques Derrida, non per caso procede dalla messa in questione simultanea del soggetto e del linguaggio, l’uno e l’altro fondati surrettiziamente su una presupposizione metafisica.
Come è noto, Derrida riprende e sviluppa l’idea heideggeriana del linguaggio non più inteso come manifestazione trasparente di un’essenza semantica che viene presupposta come già posseduta dal soggetto; giacché il linguaggio è un dire originario (anzi un Dire/Mostrare, due verbi assonanti in tedesco: Sagen/Zeigen), che precede ogni nostro dire e che è sempre una «parola già detta» («In ciò che è stato detto il parlare resta custodito»: Heidegger, 1973: 30).
Il linguaggio così inteso non può dunque in alcun modo essere considerato come uno strumento a disposizione del soggetto che parla, anzi è il linguaggio che ci parla, parla noi e attraverso noi, nel senso che con le sue stesse strutture il linguaggio delimita il campo della nostra esperienza del mondo, e la determina, dato che: «Solo nel linguaggio le cose ci possono apparire, e solo nel modo in cui esso le lascia apparire.» (Vattimo, 1982: 121).
0.1.4.0.1. Di questo si accorse bene il pensiero femminista quando denunciò l’uso linguistico del maschile come neutro-universale, in quanto costitutivo della superiorità ontologica del maschile.
0.1.4.1. Ma Derrida si spinge più oltre, e si domanda: dove il linguaggio si fa parola? come ci appare il linguaggio in quanto linguaggio? in cosa consiste l’esperienza che abbiamo di esso? E la risposta è: nel gramma, nella traccia, nella scrittura. «Se “scrittura” significa iscrizione ed innanzitutto istituzione durevole di un segno (e questo è il solo nucleo irriducibile del concetto di scrittura), la scrittura in generale ricopre tutto il campo dei segni linguistici».
0.1.4.2. È appunto l’istituzione durevole del segno, di una «marcatura» e della differenza che le è connessa, ciò che costituisce il segno, e senza di essa il linguaggio sarebbe ineffabile, cioè non esperibile. «In tale senso esperire è scrivere» (Petrosino, 1989: 24). Per questo la scrittura non è il segno di qualcosa: «La scrittura non è segno di segno, salvo dire questo, il che sarebbe più profondamente vero, di ogni segno.» (Derrida, 1969: 50, 48).
Per questo Derrida parla di una «archi-scrittura», non perché essa sia un’origine ma perché è sempre implicata in un gioco di rimandi che retrocedono dinamicamente, e senza fine: «Una scrittura che non si esaurisce nel sistema di segni che possiamo scrivere su una superficie, ma attraverso il concetto di archi-scrittura ci rimanda alla traccia sempre già istituita (…)» (Dovolich, 1995: 53).
0.1.4.3. Tale scrittura esprime fondamentalmente un’assenza: non solo una banale (e anzi quasi ovvia) assenza del referente, ma anche la ben più impegnativa e problematica assenza dell’emittente e del destinatario.
0.1.4.3.1. Assenza dell’emittente: «Scrivere è produrre una marca che costituirà una sorta di macchina a sua volta produttrice che la mia scomparsa futura non impedirà assolutamente di funzionare e di dare, di darsi a leggere e a riscrivere. (…) Perché uno scritto sia uno scritto è necessario che esso continui ad “agire” ed essere leggibile anche se ciò che si chiama l’autore dello scritto non risponde più di ciò che ha scritto, di ciò che sembra aver firmato, ch’egli sia provvisoriamente assente, che sia morto o che in generale non abbia sostenuto con la sua intenzione o attenzione assolutamente attuale e presente, con la pienezza del suo voler-dire, ciò stesso che sembra essersi scritto “in suo nome”.» (cfr. Petrosino, 1989: 25)
0.1.4.3.1.1. (Scrivere è dunque di per sé, costitutivamente, per il futuro e contro la morte: ricordiamocene, su questo dovremo ritornare.)
0.1.4.3.2. Assenza dell’emittente, ma anche assenza del destinatario: «Affinché la mia “comunicazione scritta” esprima la propria funzione di scrittura, cioè la propria leggibilità, è necessario che essa resti leggibile malgrado la scomparsa assoluta di ogni destinatario in generale.(…) Ogni scrittura deve dunque, per essere ciò che è, poter funzionare in assenza radicale di ogni destinatario empiricamente determinato in generale. E questa assenza non è una modifica continua della presenza, è una rottura della presenza, della “morte” o la possibilità della “morte” del destinatario iscritta nella struttura della marca.» (cfr. Petrosino, 1989: 25-26)
0.1.4.4. In tal modo Derrida smentisce la risposta, implicita quanto cogente, di tutta intera la tradizione filosofica occidentale (da Platone fino a Husserl) basata sul primato della phoné, della voce. Per questa tradizione la voce sarebbe infatti la più prossima alla coscienza del soggetto, e questa, a sua volta, la sede di un significato puro, di un senso ideale inteso come “voce interiore” e come logos.
0.1.4.4.1. Si fonda(va) qui non solo la presupposizione di una presenza piena, originaria, perfetta nei cieli della metafisica (di cui il segno sarebbe appunto rappresentante in terra) ma anche la separazione, sempre presupposta e mai dimostrata, fra un significante (faccia sensibile) e un significato (faccia intelligibile).
0.1.4.4.2. De-costruire questo procedimento, smentire in radice il privilegio accordato dalla tradizione occidentale alla phoné, significa poter riconoscere il vero fondamento non fondato del logos occidentale, di ciò che Derrida definisce “logocentrismo”, cioè l’ontologia, l’identificazione fra essere e logos.
0.1.4.4.2.1 Notiamolo en passant: deriva da qui, dal primato indiscusso (non mai discusso) della phoné, anche il privilegio esclusivo affidato dalla teoria alla scrittura fonetica, fra tutte le altre scritture possibili. Per la teoria occidentale (possiamo ora chiamarla così?) è come se le scritture non fonetiche non fossero scritture, e dunque la smentita della centralità della voce che da queste scritture proviene non ha alcuna voce.
0.1.4.4.2.2. D’altra parte, lo sappiamo, le scritture non fonetiche non sono occidentali, e infatti non per caso al “fonocentrismo” e al “logocentrismo” è inestricabilmente connesso anche l’ “etnocentrismo” occidentale. E questi tre termini-chiave dell’elaborazione di Derrida, “logocentrismo” “fonocentrismo” “etnocentrismo”, compaiono a un parto nella Grammatologia (Dovolich, 1995: 53).
0.1.4.4.3. Non per caso Derrida pone a esergo di La voce e il fenomeno (il saggio del 1967 che prepara la Grammatologia e che lo stesso Derrida definisce in un’intervista «il saggio a cui tengo di più»: cfr. Sini, 2001: 10) il seguente brano tratto da Husserl: «Un nome pronunciato davanti a noi ci fa pensare alla galleria di Dresda e all’ultima visita che vi abbiamo fatto: giriamo per le sale e ci arrestiamo davanti a un quadro di Teniers che rappresenta una galleria di quadri. Supponiamo inoltre che i quadri di questa galleria rappresentino a loro volta dei quadri che a loro volta rappresentino delle iscrizioni che fosse possibile decifrare, ecc.» (Derrida, 2001: 29).
0.1.4.5. Riassumendo: priorità e primato della scrittura intesa radicalmente in quanto traccia; un sistema di rinvii inesauribili di/fra tracce che, moltiplicandosi, rimandano solo a se stesse, ad altre tracce, senza nessuna posa e senza nessun limite (sempre il rinvio da una traccia a un’altra traccia, e mai da una traccia a una cosa); radicale messa in questione della distinzione fra la materialità del significante e l’immaterialità del significato; autonomia assoluta di un tale sistema di scritture, che conduce all’assenza, o alla insignificanza, non solo del referente ma anche dell’emittente (e tanto più del cosiddetto Autore!) e perfino di qualsiasi destinatario empiricamente determinato, etc.
Ma – dobbiamo domandarci – non è forse questa una descrizione possibile (precisa quanto preterintenzionale) delle concrete modalità di esistenza e funzionamento del testo informatico esposto nella rete?
0.1.5. D’altra parte – come si è già accennato in 0.1.2.1. – ciò che viene messo in questione è il ruolo stesso dell’Autore e il suo dominio nei confronti del Testo e del Lettore. Ora quel dominio (antico e assoluto, ma non legittimo) è negato, e anzi rovesciato: il potere del Lettore di costruire significati viene postulato come privo di limiti (letteralmente: il-limitato), dunque ben più radicale di quanto non fosse la «cooperazione interpretativa» già concessa dalla semiotica. Tale potere del Lettore si svolge ora a partire dalla possibilità di attraversare liberamente, senza alcun ordine né norma che non sia la propria libera volontà, le lessìe testuali (e queste divengono così iper-testuali, anche a prescindere dal computer). Gli ipertesti sarebbero dunque testi scrivibili (e non più solo leggibili), in cui il Lettore diventa produttore o distruttore (ma di certo non solo passivo recettore) di senso.
0.1.6. Sembra insomma che dall’interno stesso della filosofia, della critica e della teoria della letteratura sia emerso un vero cambio di paradigma che riduce il testo a pretesto: «La semiosi aperta all’imprevedibilità dei contesti e degli attori interpretativi ha prodotto i suoi primi effetti nell’ambito degli studi letterari. Se un tempo l’interpretazione di un testo coincideva con l’evidenziazione del significato intenzionale dell’autore, ovvero della sua natura oggettiva, a partire dagli anni Sessanta abbiamo assistito a un mutamento di paradigma: le varie pratiche di decostruzione hanno fatto del testo un puro stimolo per le derive interpretative. Il testo è diventato un pretesto per una disamina di istanze, a volte sociologicamente fondate, ma molto più spesso proiezioni fantasmatiche tra le quali sembra avvenire un intenso quanto “immateriale” scambio comunicativo.» (Ferraro, Montagnano, 1994: 16-17).
0.1.6.1. Così Rorty polemizza con la differenza proposta da Umberto Eco fra l’interpretazione e l’uso dei testi, negando la «distinzione fondamentale» (avanzata dallo stesso Eco) fra il testo e l’autore, così come quella tra l’intentio operis e l’intentio lectoris: «(…) la coerenza del testo non è qualcosa che esso possiede prima di essere stato descritto, più di quanto non abbia coerenza un insieme di punti prima che essi vengano tra loro collegati. La sua coerenza non è altro che il fatto che qualcuno abbia trovato qualcosa di interessante da dire su un gruppo di segni o di rumori, un modo di descrivere quei segni e quei rumori che li pone in relazione ad alcune delle altre cose per cui proviamo interesse a parlare».
D’altra parte una tale affermazione deriva coerentemente dall’asserzione seguente di Rorty: «Una frase può essere controllata solo grazie ad altre frasi, frasi a cui è connessa da diverse relazioni labirintiche di tipo inferenziale.» E questa è la conclusione: «l’idea che vi sia qualcosa di cui un testo dato tratta veramente, qualcosa che verrà rivelato dall’applicazione rigorosa di un metodo, questa idea (…) è sbagliata come l’idea aristotelica che vi sia qualcosa che realmente e intrinsecamente è una sostanza, in opposizione a ciò che è solo in apparenza, per accidente o razionalmente». Ed è per questo che, di nuovo con assoluta coerenza, lo stesso Rorty polemizza anche con «l’infelice idea» – da lui attribuita a De Man – «che esista una cosa utile chiamata “metodo decostruzionista” (…).» (Rorty, 1995: 116, 119, 122, 125).
0.1.6.1.1. Ancora una volta: non è affatto un caso che per sostenere la sua posizione («tutto ciò che chiunque fa con qualunque cosa è usarla») Rorty faccia qui ricorso all’esempio di un programma per computer: sforzarci di capire come funziona un testo sarebbe altrettanto sciocco e inutile che cercare di decifrare le subroutines del basic che utilizziamo (ivi: 126-7). L’informatica è significativamente assunta a paradigma della inaccessibilità del senso del testo (o della sua inesistenza).
0.1.6.2. Si sarebbe così determinata una formidabile tenaglia fra la tecnologia dominante dell’informatica e la teoria della “deriva ermetica” più estrema di matrice statunitense (diciamo: Derrida riletto dagli americani).
Le due cose sembravano tenersi perfettamente e rafforzarsi a vicenda: il testo informatico (o meglio: l’ipertesto descritto da Landow) appariva perfettamente corrispondente alle teorie critiche che volevano il testo totalmente fluido, privo di qualsiasi consistenza stabile e di ogni univoco significato, un testo anzi che si voleva intrinsecamente, e per sua stessa natura, impossibilitato a significare, essendo continuamente rielaborato, modificato, stravolto a ogni atto di lettura e, insomma, radicalmente ridotto a pre-testo per qualsivoglia interpretazione, oppure (che è dire la stessa cosa) per qualsivoglia mis-interpretazione .
0.1.7. E tuttavia anche quest’apologia della crisi conosce la sua crisi, a partire proprio dalle Università statunitensi, come scrive Remo Ceserani: «È arrivato il momento, nelle vicende della critica letteraria americana, delle recriminazioni e dei pentimenti. Dopo gli anni degli entusiasmi (…), dopo gli anni delle teorizzazioni sperimentali e delle pretese totalizzanti della Teoria, scritta con la lettera maiuscola, sono arrivati la stagnazione teorica, l’indebolimento complessivo degli studi letterari e umanistici nelle Università, il disorientamento, la sfiducia».
0.1.7.1. E come accade in tutte le reazioni qualcosa di prezioso (che pure quelle teorie portavano con sé) rischia ora di andare perduto: penso soprattutto all’apertura, o piuttosto alla critica, del riduttivo “canone occidentale”, maschile, “bianco”, etc.; come se l’unica alternativa al non sense, a letture deliranti e filologicamente insostenibili, fosse un heri dicebamus, un ritorno seccamente restaurativo e neo-aristocratico alla bella Letteratura di una volta, con la l maiuscola.
0.1.7.2. Hanno contribuito a questa crisi negli Stati Uniti anche tre “scandali”: in primo luogo la scoperta di scritti giovanili, filo-nazisti e antisemiti, del maggior esponente del decostruzionismo di Yale, il critico belga Paul De Man (il quale, nel frattempo scomparso, fu generosamente difeso da studiosi come Derrida e Kristeva). In secondo luogo il conferimento del «premio per il peggior esempio di scrittura critica» assegnato polemicamente alla studiosa femminista di Berkeley Judith Butler (scrive la filosofa Martha Nussbaum: «Quando le sue idee sono espresse chiaramente e in modo succinto ci si accorge che, senza molte distinzioni e argomentazioni, esse non vanno lontano e non sono poi così nuove. Perciò l’oscurità riempie il vuoto lasciato da un’assenza di vera complessità del pensiero e del discorso. Il quietismo hip della Butler è una risposta comprensibile alla difficoltà di costruire la giustizia in America. Ma è una cattiva risposta. Collabora con il male. Il femminismo chiede di più e le donne meritano di meglio»).
E, infine, la cosiddetta “affaire Sokal”, cioè la pubblicazione da parte della prestigiosa rivista dei Cultural Studies «Social Text» di un delirante articolo-tranello proposto dal fisico Alan Sokal, «un articolo parodistico e pieno di enormità pseudo-scientifiche, di citazioni incredibili da Lacan, Lyotard, Kristeva e molti altri, di riferimenti alla matematica e alla fisica contemporanee e di pretenziose teorie filosofiche sulla “social construction” delle verità della scienza, intitolato Transgressing the Boundaries: Toward a Tranformative Hermeneutics of Quantum Gravity (= Trasgredendo i confini: verso un’ermeneutica trasformativa della gravità dei quantum). L’articolo, purtroppo, è stato pubblicato.» (Ceserani, 2005a: 12; 2005b: 14; si veda un’equilibrata ricostruzione dell’ “affaire Sokal” in Cazalé, 1999).
0.1.8. Senza ricorrere agli scandali (e ai pericoli sempre connessi a questo modo un po’ barbaro di affrontare le discussioni teoriche e culturali), Cesare Segre aveva polemizzato con Roland Barthes, mentre ancora quell’egemonia francese si trovava all’apogeo, osservando criticamente: «Si trasforma tutto in segni che però non comunicano nulla, o al massimo la propria esistenza, e si soffocano per loro mezzo i segnali e i simboli del nostro agire nel mondo; si uniforma in una nebbia argentea ciò ch’è attivo e ciò ch’è passivo, cause ed effetti, valori e disvalori, sforzi e fallimenti. (…) Nella notte in cui si confondano lupi e agnelli, i lupi potranno divorare in tutta libertà gli agnelli.» (Segre, 1969: 43).
In altre parole l’attenzione veniva richiamata sul versante etico-politico della questione del testo (un aspetto, quello dell’etica, divenuto sempre più cruciale; afferma anche Derrida: «La giustizia è l’indecostrubile»), insomma sul pericolo che la critica di ogni fondamento finisca per togliere ogni fondamento alla critica. Con il bel risultato di rendere la critica impossibile, o meglio, impensabile e dunque ingenuamente grottesca.
Se le cose stessero davvero così resterebbe infatti solo l’apologia (sia pure disincantata e ironica) dello stato di cose presente; un esito certo preterintenzionale (anzi: paradossale, considerando la personale e dichiarata radicalità politica di molti latori delle posizioni di cui parliamo), e tuttavia un esito del tutto inevitabile, come i due decenni terribili dell’assordante grande blob post-moderno ci hanno ad abbondanza dimostrato.
Questa è, in effetti, la partita che si gioca attorno al concetto di testo, e questa è la posta in gioco.
0.2. La tesi che si vuole qui argomentare è che non esista affatto una corrispondenza necessaria fra la modalità informatica del testo (in particolar modo caratterizzata dalla inesausta mobilità, che la testualità informatica sembra in effetti recare con sé) e la “deriva ermetica” della decostruzione riletta dagli americani.
In altre parole, non è necessario (e anzi, come ci sforzeremo di dimostrare, non è neppure possibile) far derivare dalla nuova mobilità del testo informatico la sua insensatezza, cioè la sua impossibilità/incapacità di comunicare sensati significati condivisi fra membri del genere umano.
0.3. Corre l’obbligo di confessare, ancora in premessa, che il vero fondamento teorico di queste note è rappresentato dall’impostazione, che faccio risalire a Tito Orlandi ed alla sua “scuola romana” di Informatica Umanistica, secondo cui l’informatica non va riguardata tanto come una macchina (da utilizzare nell’ambito delle problematiche date e delle procedure ad esse legate) quanto come un nuovo assetto euristico, dunque come un generatore di problemi, di inedite configurazioni e di nuove procedure.
Per questo lo sforzo che l’applicazione dell’informatica richiede è anzitutto uno sforzo teorico, rivolto alla ridefinizione dei concetti e delle procedure.
In questo senso l’informatica sarebbe più un’episteme che una tecnologia.
0.4. Comunque: «…per tecnica deve intendersi non solo quell’insieme di nozioni scientifiche applicate industrialmente che di solito s’intende, ma anche gli strumenti “mentali”, la conoscenza filosofica.» (Gramsci, Quaderni, 10: 1346).
(1.Testo I)
1.1. Il testo è uno strumento della comunicazione inter-umana e, più precisamente, è una forma di messaggio (cfr. infra 2.1.).
1.1.1. Un testo che non comunica non è dunque un testo perché non è un messaggio (anche se comunicazione può avvenire in mancanza di un testo).
1.2. Il testo verbale umano è un tipo di testo; il testo scritto è un tipo di testo verbale (benché anch’esso contenga, a ben vedere, anche elementi non-glottici che noi trascureremo).
Esistono molti altri tipi non-verbali di testo (musicale, iconico, etc.) di cui qui non ci occuperemo.
(2. Comunicazione)
2.1. Intendiamo per comunicazione la trasmissione intenzionale di un messaggio (M) da un soggetto umano A (Mittente) ad un soggetto umano B (Destinatario).
2.2. Il fatto che tanto A quanto B possano giovarsi per comunicare fra loro del supporto di una macchina, o di più macchine, completa e varia (come vedremo) questo schema elementare, ma non lo contraddice.
2.2.1. Del tutto analogo è il caso in cui l’uomo si nasconda, per così dire, dietro la macchina, cioè affidi (attraverso opportune istruzioni) alla macchina una serie di reazioni (o retro-azioni), che egli comunque decide e delega.
2.2.2. La situazione in cui o A o B, o entrambi, siano macchine, e non soggetti umani, non costituisce invece comunicazione, ma semmai mera “trasmissione” (di segnali), che propongo di non confondere, né concettualmente né lessicalmente, con “comunicazione” (e occorre anche distinguere rigorosamente questa situazione da quella a cui si allude in 2.2., dato che esse sono molto diverse).
2.2.2.1. La trasmissione di un segnale elettrico da macchina a macchina può fare accendere una luce verde, ma solo la comunicazione inter-umana può rendere quel segnale un messaggio (ad es. di “via libera”). In questo caso è evidente come le macchine abbiano funzionato solo da tramite e intermediarie di una comunicazione inter-umana (punto 2.2.), ed è altresì evidente come a questo fine sia stata operata una significazione sulla base di un codice.
(3. Messaggio/Codice)
3.1. Il codice è un sistema che associa dei segni a dei significati, cioè è un’interfaccia sociale fra l’aspetto semiotico e quello semantico del Messaggio. Si può anche dire (con Segre, 1979: 47) che il codice è «un sistema di segni convenzionali atti a comunicare».
3.2. La comunicazione richiede non solo l’esistenza di un materiale medium comunicativo e di un canale, ma soprattutto l’esistenza di un codice ‘c’ condiviso dai soggetti della comunicazione A e B (in questo caso il Mittente A sta per Autore e il ruolo di Destinatario B è svolto da un Lettore); così che M (in questo caso un Messaggio/Testo scritto) è in effetti sempre Mc, cioè il Messaggio è sempre organizzato in un codice ‘c’, che viene utilizzato sia dal Mittente Ac per codificare e sia dal Destinatario Bc per de-codificare. Cfr. Schema 1:
Schema 1: Schema elementare della comunicazione
3.2.1 A rigore dovremmo dunque sempre scrivere ‘Mc’ per rappresentare ogni messaggio ‘M’, ma considereremo d’ora in poi sempre quasi incorporato in ‘M’ il concetto di codice, limitandoci a dire solo ‘Messaggio’ invece che (come dovremmo sempre dire) ‘Messaggio-c’, cioè Messaggio organizzato secondo un codice.
3.3. Il codice pertanto è, al tempo stesso, due cose, diverse e del tutto inscindibili fra loro: (i) un sistema che associa significati a significanti, e (ii) una porzione dell’enciclopedia socialmente condivisa da una cultura data nella storia.
3.3.1. Un codice che, per ipotesi, non presentasse la caratteristica (ii), cioè che non appartenesse all’enciclopedia di nessuno, non svolgerebbe la sua funzione di codice. Alla base del codice c’è sempre un contratto sociale, almeno fra un Mittente e un Destinatario, cioè fra due umani.
3.4. Consideriamo il caso-limite di un Messaggio il cui codice fosse condiviso solo dal Mittente; ciò permetterebbe al Mittente di comunicare il Messaggio solo a se stesso (ad es. a distanza di tempo): è questo il caso concreto di alcune scritture diaristiche scritte “in codice” (penso a quelle di Elias Canetti), cioè rese dall’Autore (Mittente) illeggibili a chiunque altro, attraverso l’intenzionale adozione di un codice non condiviso da nessun altro.
Ma anche in questo caso ci sarebbe comunicazione inter-umana, precisamente fra A, il Mittente in un dato momento della sua vita, e la stessa persona anagrafica del Mittente, ma in un momento diverso della sua vita terrena, dunque divenuto adesso un Destinatario B rispetto al Messaggio dell’antico Mittente A.
3.4.1. Questo banale caso limite è in effetti molto importante, perché ci aiuta a ricordare, e dimostra, che Mittente e Destinatario, in quanto esseri umani immersi nel tempo, sono sempre mobili, e mai eguali a se stessi (quale che sia la persistenza della loro identità anagrafico-burocratica).
3.4.1.1. Se noi umani cambiamo nel tempo, allora cambiano anche i nostri codici, soprattutto in quanto porzione dell’enciclopedia socialmente condivisa da una cultura data.
3.5. Non c’è alcuna comunicazione senza codice (tendenzialmente) condiviso fra Mittente e Destinatario, e l’efficacia di ogni comunicazione dipende dal grado di condivisione del codice.
3.5.1. Sul problema cruciale presentato pudicamente nel punto che precede con un avverbio fra parentesi, torneremo (cfr. infra punti 4.2.- 4.3.).
3.6. Anche il più ermetico del Messaggi è in realtà fatto per comunicare, solo che la comunicazione ermetica adotta intenzionalmente un codice condiviso da pochi per restringere in modo artificiale il più possibile (ad es. per motivi di sicurezza) il campo dei possibili Destinatari.
(4. Significazione)
4.1. Da questo punto di vista ogni comunicazione di messaggi fra gli esseri umani è significazione; e la comunicazione testuale prevede sempre un significante e un significato, o (per dirla più precisamente) un piano dell’espressione e un piano del contenuto, una semiosi e una semantica strettamente legati fra loro.
4.1.1. Come si vede, la distinzione fra questi due piani (o aspetti), sempre compresenti e interdipendenti, è meramente analitico-concettuale e comunque essa non passa affatto per la distinzione fra materia e spirito o fra sensibile e intelligibile (non foss’altro perché nella comunicazione/significazione anche l’espressione deve essere intelligibile e anche il contenuto deve essere esperito).
4.2. Ciò comporta anche che ogni comunicazione è convenzionale (cioè determinata dal codice condiviso, dal luogo geografico, dal tempo storico, dalle convenzioni sociali vigenti, dal medium utilizzato, etc.) e dunque è imperfetta.
4.2.1. Definire convenzionale la comunicazione non equivale affatto a definirla arbitraria (al contrario, la convenzione si oppone all’arbitrio), così come dire che è imperfetta non significa affatto dire che essa è necessariamente insensata.
4.2.2. Riconoscere l’imperfezione di una cosa non equivale affatto ad affermarne l’inesistenza.
4.2.2.1. Al contrario: si potrebbe anzi inferire proprio dall’imperfezione della comunicazione la sua esistenza, giacché tutte le cose che esistono sotto il cielo sono imperfette.
4.2.2.1.1. Prevengo un’obiezione possibile a quest’ultima affermazione: ebbene anche Naomi Campbell ha le cosiddette “patate” ai piedi.
4.2.3. Dire che la comunicazione è convenzionale significa dire – con Antonio Perri – che essa è pragmatica, inferenziale, relativa, instabile, interazionale e (ancora una volta) imperfetta, ma essa vive perché è così. Paradossalmente: proprio in tutto ciò consiste la sua perfezione, una ossimorica perfezione imperfetta che le consente di funzionare.
4.3. In particolare: la condivisione del codice c fra A e B è sempre tendenziale e asintotica, nel senso che non si dà mai (per definizione) un’assoluta coincidenza del codice usato da A per organizzare il Messaggio con quello usato da B per de-codificarlo. Dunque lo Schema 1 (di cui supra al punto 3.2.) va precisato e corretto come nello Schema 2:
Schema 2: Schema elementare della comunicazione imperfetta (c ≠ c’)
Poiché il codice c dell’Autore non coincide con il codice c’ del Lettore la decodifica lettoriale del Messaggio/Testo resta incompleta.
4.3.1. Per questo, e già lo sappiamo, la comunicazione è imperfetta (o meglio: è perfettamente imperfetta: cfr. punto 4.2.3.).
4.3.2. Ma, già lo sappiamo, l’imperfezione della comunicazione non è prova della sua inesistenza. Al contrario.
4.4. Quando la divaricazione fra il codice di A e il codice di B è tale da impedire completamente che il Lettore Bc” de-codifichi il Messaggio-c dell’Autore Ac, allora la comunicazione non ha luogo, e fallisce, come nello Schema 3:
Schema 3: Schema elementare della comunicazione impossibile (c ≠ c’’)
Poiché il codice c dell’Autore è del tutto diverso dal codice c” del Lettore la decodifica lettoriale del Messaggio/Testo si rivela impossibile.
4.4.1. L’esistenza di scritture non decifrate divenute per noi illeggibili (o, più precisamente: incomprensibili, cioè incapaci di comunicare a noi) perché non ne conosciamo più il codice, conferma quanto detto ai punti 3.2., 3.3., 3.5. e 4.4.
In questi casi infatti esiste (è esistito) il Mittente, esiste il Destinatario, esistono il medium fisico del Messaggio e il canale della comunicazione; manca solo la condivisione del codice del Messaggio, e una tale assenza basta perché la comunicazione fallisca completamente.
4.4.1.1. Qui Antonio Perri mi corregge: il fallimento così evocato non è mai completo, giacché anche la più misteriosa delle scritture non decifrate darà luogo a svariate ipotesi interpretative, dunque a “letture” (sia pure non soddisfacenti né conclusive).
(5.Testo II)
5.1. Ciò che differenzia essenzialmente un testo da un qualsiasi altro messaggio (o atto locutorio) è la sua (tendenziale) stabilità.
Il testo è un Messaggio caratterizzato da un’intenzione di stabilità.
5.2. La stabilità del testo è ciò che consente la sua ripetibilità, cioè la sua “trasportabilità” nel tempo e nello spazio. Come scrive Segre (1981): «La segnicità [del testo, NdR] è condizione di ripetibilità».
5.3. è dunque all’esigenza di ripetibilità del testo che si lega la sua fissità segnica, cioè l’organizzazione stabile del discorso; proprio questa tendenziale stabilità rappresenta l’intenzione del testo: poter essere κτη̃μα ει̉ς α̉εί (ktèma èis aèi = «possesso per sempre») come scrive Tucidide, o, secondo le parole di Erodoto, poter conferire durata all’informazione: «perché non si vanifichino nel tempo le imprese degli uomini, né si perda la fama…». Ed è qui utile ritornare a quanto abbiamo già letto in Derrida a proposito del nesso fondativo che lega l’iscrizione e la traccia alla volontà di sopravvivenza oltre la morte (cfr. supra: 0.1.4.3.1.1.).
5.3.1. Con affermazione tanto solenne quanto difficile da falsificare, si potrebbe dire che se gli esseri umani fossero immortali, e non soggetti al deterioramento cognitivo, cioè non esposti all’oblìo, essi non avrebbero alcun bisogno di dare luogo a tracce intenzionalmente durature, meno che mai a testi.
5.3.1.1. Forse ci segnala proprio questo Jorge Luis Borges nel suo racconto L’immortale, rivelando che gli Immortali sono in realtà dei trogloditi, «infantili nella barbarie», esseri animaleschi del tutto privi di parola e di scrittura, così che presso di loro «Non esistono meriti morali o intellettuali». (Borges, Aleph: 776, 780, 784)
5.3.2. Il testo consente infatti una comunicazione a distanza e in absentia del suo Mittente, sostituendo (di solito con un sovrappiù di informazione e di codificazione) l’assenza dei fattori contestuali, pragmatici e retro-attivi (prosodia e gestualità soprattutto) tipici della comunicazione interpersonale e in praesentia.
5.4. L’invarianza del testo è ciò che rappresenta il suo mistero. Essa infatti coesiste con una altrettanto costitutiva variabilità. Il testo varia ad ogni atto di ri-produzione, e addirittura dentro la sua composizione, così come varia ad ogni atto di lettura nella diversità delle interpretazioni. Eppure il testo consiste in un’intenzione di stabilità, cioè di invarianza.
Come osserva Buzzetti, parlando di testo come «oggetto mobile e immutabile ad un tempo, mobile per la sua variabilità e immutabile per la sua invarianza», i due elementi «si ritrovano dinamicamente ed essenzialmente collegati nella natura stessa del testo.» (Buzzetti, 2006: 53)
5.4.1. Se in un oggetto coesistono variabilità e invarianza, sembrerebbe che nella sua natura debba finire col prevalere l’aspetto della variabilità.
Se x è una variazione e y una invarianza, per ogni valore che x assuma, x + y dà sempre luogo ad una variazione, cioè:
x (x + y) = x
Invece nel testo (solo nel testo?) non è così; e potremmo dire che quali che siano gli elementi della variazione x il testo tende alla invarianza y:
x (x + y) = → y
5.4.2. Come si spiega questo apparente paradosso? Ciò può accadere perché il testo è capace di giocare l’intenzione della stabilità (che, come abbiamo visto, lo fonda) continuamente spostandosi – per così dire – dal piano dell’espressione a quello del contenuto, dal suo essere significante al suo essere significato, e viceversa.
Nel variare dell’espressione il testo si appella all’invarianza del contenuto, o del significato. Così Platone: «chi possiede la scienza dei nomi considera il loro valore e non si turba se qualche lettera viene aggiunta, spostata o tolta, o addirittura, se il potere del nome viene espresso in lettere del tutto diverse. (…) per esempio Astianatte ed Ettore non hanno nessuna lettera uguale, tranne il tau, eppure hanno lo stesso significato.» (Cratilo: 394, b-c); Segre: «…il testo può essere trascritto più volte, in materiale scrittorio e con caratteri differenti, ma non cessa di essere lo stesso testo»: 1981: 270). Forse allude a questo anche Aristotele quando afferma: «L’essere si dice in molti modi (πολλαχω̃ς)», (Metafisica: IV, 1003, a33; cfr. Eco, 1997: 10-16).
E di converso: nel variare del contenuto o del significato il testo fa invece appello al vincolo invariante rappresentato dalla persistenza della sua espressione, o del significante («Sic est textus!», «Sta scritto…»).
Il solco che impedisce una lettura de-lirante (cioè alla lettera: fuori dal solco) è il vincolo rappresentato dalla tendenziale stabilità del testo, a cui è sempre possibile fare ricorso.
5.5. Il fatto che il testo organizzi se stesso nella forma della stabilità, per sfidare l’entropia (dispersione dell’informazione) e gli ostacoli frapposti dal tempo e dallo spazio alla comunicazione, ci conferma che non solo il testo è un Messaggio (dunque un atto di comunicazione/significazione) ma che in esso l’intenzione comunicativa è assolutamente cruciale e fondativa.
Tale intenzione comunicativa va dunque rispettata: il testo vuole comunicare.
5.6. A ben vedere, né l’organizzazione stabile del discorso né la sua ripetibilità (i due tratti che abbiamo visto emergere come costitutivi del concetto di testo) sono legate necessariamente alla scrittura. Siccome anche un testo orale può essere (tendenzialmente) stabile e ripetibile, non c’è motivo per escludere i testi orali dal concetto di testo verbale.
5.6.1. Si pensi ai testi omerici, di certo fra quelli fondativi della nostra cultura occidentale: non a caso Omero è cieco, e la sua cecità allude meno alla impraticabilità del gesto della Lettura/Scrittura che all’ipertrofia della memoria e alla sua centralità come luogo della conservazione, della stabilità e della ripetibilità del testo nell’episteme antica.
5.6.2. Non c’è dubbio che l’insediarsi della Lettura/Scrittura (per secoli dominanti e pressoché incontrastate) sembrerebbe legittimare, almeno di fatto, l’identificazione fra testo e testo scritto; ma una tale identificazione porterebbe ora con sé il rischio di identificare il testo con il testo a stampa, o gutemberghiano, e questo è un rischio che di fronte all’emergere del testo informatico (o post-gutemberghiano) non possiamo più permetterci.
La nostra ipotesi è infatti che per capire il testo post-gutemberghiano sia molto utile riflettere proprio sulle modalità non-gutemberghiane del testo, a cominciare dunque da quelle antiche pre-gutemberghiane, ancora così debitrici dell’oralità.
(6. Alfabeto)
6.1. Proviamo, per capire meglio il testo, a riflettere su quelli che nel nostro episteme occidentale rappresentano gli elementi costitutivi minimi del testo, cioè le lettere dell’alfabeto; partiremo ancora da una definizione di Segre: «Questo tessuto linguistico [il testo, NdR] è realizzato segnicamente nei testi scritti. Successione di lettere e accenti che costituiscono le parole, successione di parole e segni d’interpunzione che, in righe parallele o in versi, costituiscono l’assieme del discorso.» (Segre, 1981: 270; sottolineature nostre, NdR).
6.1.0.1. È peraltro evidente in questa definizione segriana il debito pagato alla testualità alfabetica occidentale (sintattica e lineare) e, ancora più direttamente, all’epistemologia di Gutenberg: «(…) successione di parole e segni d’interpunzione che, in righe parallele o in versi (…)».
6.1.1. Non c’è dubbio che questo sia un approccio segnato da fonocentrismo (non necessariamente però anche da etnocentrismo, e forse neppure da logocentismo).
Che noi non possiamo esimerci da un tale approccio dipende essenzialmente dal fatto che l’alfabeto fonetico è la casa che noi e i nostri testi abitiamo insieme, e deriva da questo limitato e limitativo abitare anche la personale assoluta incapacità di chi scrive di collocarsi – sia pure con la sola immaginazione – in una scrittura non alfabetica e in alfabeti non fonetici, che egli peraltro purtroppo ignora (si rimanda tuttavia per la proposta di uno stimolante percorso analitico, che contrappone la «creazione» occidentale al «processo» orientale, a Fiormonte, 1994: 102-106).
6.1.2. Quello che si dirà a smentita della corrispondenza presunta fra alfabeto e voce vorrebbe tuttavia funzionare da correttivo del dominio assoluto del fonocentrismo in cui pure siamo costretti a muoverci.
6.2. L’alfabeto fonetico è un sistema di rappresentazione, particolarmente funzionale per la sua estrema duttilità, che tende ad associare (in linea di massima) dei segni scritti o grafemi (le lettere dell’alfabeto) a dei fonemi.
6.2.1. Il problema consiste nel fatto che (come ricorda Cardona, 1981: 8) la voce che parla il linguaggio è acheropite (non fatta dalla mano dell’uomo) mentre tutte le forme di scrittura sono frutto artificiale della mano umana, dunque di convenzione culturale.
6.2.2. Così, nonostante le sue pretese, l’alfabeto corrisponde molto meno di quanto si creda, e comunque assai imperfettamente, alla voce.
6.2.2.1 Il carattere approssimativo e imperfetto dell’associazione alfabetica fra le lettere dell’alfabeto e i fonemi è dimostrato definitivamente dalla necessità di ricorrere all’alfabeto dell’Associazione Fonetica Internazionale, il quale cerca invece di rendere stabile e perfetta tale corrispondenza.
6.2.2.2. Senza contare che: «L’alfabeto latino di cui noi ci serviamo, già insufficiente a rappresentare i suoni della lingua per cui era stato elaborato (…), è ancora più insufficiente per l’italiano (…)» (Camilli, 1965: 11). Attilio Bartoli Langeli ha ricostruito magistralmente la vera e propria avventura, non priva di insuperabili ostacoli e di grottesche cadute, che vide protagonisti coloro i quali per primi osarono scrivere il parlato volgare italiano usando l’alfabeto latino (cfr. Bartoli Langeli, 2000: 13-39).
6.2.3. Si potrebbe aggiungere che anche la variabilità, secondo le diverse culture e i diversi tempi, dei segni alfabetici conferma il carattere arbitrario e imperfetto dell’associazione grafemi alfabetici/fonemi (senza dover pensare agli alfabeti diversi di lingue diverse, basterà ricordare che lo stesso nostro alfabeto latino aveva in passato molti elementi diversi dagli attuali in uso, e ciò, non per caso, fino all’avvento della stampa che li ridusse e li stabilizzò).
6.2.3.1. Sarebbe forse un test interessante sottoporre a un gruppo di persone colte la seguente domanda: «Quanti e quali sono esattamente i diversi segni del nostro alfabeto?». La ‘è’ costituisce un segno alfabetico diverso rispetto alla ‘é’ o alla ‘e’? La ‘o’ della ‘botte’ è davvero uguale alla ‘o’ delle ‘botte’? La ‘ü’ e la ‘œ’, che il ministro Calderoli sa pronunciare così bene, cosa sono esattamente? Grafemi autonomi o meri segni di pronuncia? E perché mai Socrate-Platone parla di sette vocali? (Teeteto: 203,b)? La lettera ‘i’ (cfr. Camilli, 1965: 11) è un segno diacritico (es. ‘ciancia’), una semiconsonante (es. ‘aia’), una vocale asillabica (es. ‘làido’) oppure una vocale sillabica (es. ‘aìta’)? La ‘h’, muta come è, non rappresenta in italiano una lettera dell’alfabeto ma solo un segno diacritico in forma di lettera: ma in altre lingue, che pure usano lo stesso alfabeto latino, è ancora così? Dunque lo stesso alfabeto cambia a seconda delle lingue? La ‘ç’ è una lettera del nostro alfabeto? Le lettere maiuscole sono diverse dalle minuscole, oppure sono uguali? Senza contare gli elementi demarcativi (spazi, sbarre, rubriche, paragrafi, etc.), i segni paragrafematici (come la punteggiatura), i dispositivi grafici che rivestono un qualche valore semantico (come ad es. il corsivo), e così via.
6.2.3.2. Senza voler qui considerare il problema (che pure riveste una grande importanza per la codifica informatica) della rappresentazione delle lettere dell’alfabeto considerandole sotto i diversi aspetti che esse, di volta in volta, assumono.
Come scrive Tito Orlandi: «Quella che è mancata da principio, e poi è stata raggiunta solo da pochissimi studiosi, è stata la consapevolezza che si doveva porre la distinzione fra lettera (dell’alfabeto), grafema, e glifo» (Orlandi, 2010: 48).
6.2.4. Emile Cazade e Charles Thomas, che hanno scritto la voce Alfabeto per l’Enciclopedia Einaudi, ricordano la possibilità di un alfabeto fonetico veramente internazionale «dove la molteplicità di nuove lettere notate numericamente (1 aspirazione, 2 espirazione, 3 bisciolamento, 4 rantolo, 5 brontolio, 6 ansamento, 7 sospiro, ecc.) tenderebbe a coprire la totalità dei suoni umanamente possibili»; ma un tale tentativo si muoverebbe in realtà in senso opposto rispetto al lavoro analitico che presiede alla scrittura alfabetica, perchè: «Questa non si rapporta all’uomo produttore di suoni, ma all’uomo come essere di linguaggio. Essa non cerca di tradurre le sue possibilità musicali, ma di servire la sua attività simbolica.» (Cazade, Thomas, 1977: 291). E infatti, saussurianamente, il valore denotativo delle lettere dell’alfabeto non sarebbe referenziale rispetto ai suoni ma piuttosto negativo e differenziale.
6.3. Se si dubitasse che l’alfabeto fonetico costituisce comunque una rappresentazione insoddisfacente e imperfetta della phoné, basterebbe riflettere al fatto che esso introduce il discreto nel continuum della voce ed è impossibilitato a rendere conto dei tratti sovra-segmentali della comunicazione orale. Così facendo l’alfabeto non riflette dunque la voce umana, ma piuttosto organizza in forma di simboli, e di sistema di simboli, proprio (e solo) ciò che nella voce umana non è più pura phoné, respiro, emissione, grido.
6.3.1. È da notare che tale sistema largamente artificiale di simboli discreti reagisce (con un lungo, molecolare processo di feed-back sociale, che certo iniziò fin dall’inizio) sulla stessa lingua parlata, regolarizzandola, cioè spingendola a rispettare i tratti segmentali tipici dell’alfabeto stesso (ad esempio: una più netta differenziazione del suono delle vocali). Così esiste anche un modo di parlare, non solo di scrivere, che risente dell’alfabeto e che è, per così dire, ‘alfabetizzato’. È questo il motivo per cui la lingua cinese, che utilizza gli ideogrammi e non l’alfabeto fonetico, presenta un’oralità meno regolata e uniforme, a tal punto che anche i parlanti della stessa lingua debbono talvolta ricorrere alla scrittura per comunicare fra loro non equivocamente?
6.3.2. Questa capacità regolativa della scrittura alfabetica sulla lingua parlata non era sfuggita al genio di Leopardi; secondo lui fu solo la scrittura alfabetica (la quale in apparenza segue la pronuncia ma in realtà serve a immobilizzarla nello scritto) che riuscì a determinare la regolazione e la fissità della lingua: «(…) mancanza [della scrittura, NdR] che toglieva ogni stabilità, ogni legge, ogni forma, ogni certezza, ogni esattezza, alle parole, ai modi, alla significazioni, e lasciava la favella fluttuante sulle bocche del popolo, e ad arbitrio del popolo, senza né freno, né guida, né norma.» (Zibaldone: 1267-1268).
6.3.3. Sembra dire la stessa cosa Hegel: «Il perfezionamento del linguaggio dei suoni dipende strettamente dall’abito della scrittura alfabetica, per mezzo di cui soltanto la lingua dei suoni acquista la determinatezza e purità della sua articolazione. (…) La lingua fonica cinese, a cagione della scrittura geroglifica, difetta della determinatezza oggettiva, che è acquistata nell’articolazione mediante la scrittura alfabetica.» (Hegel, Enciclopedia: 422).
6.3.4. Non sono forse questi tutti possibili indizi del fatto che in principio non era la voce? E meno che mai il verbo (cfr. De Mauro, 2006).
Ma dell’Origine noi non ci occuperemo in alcun modo.
6.4. L’alfabeto, considerato in quanto rappresentazione della voce, è in effetti, come ogni rappresentazione, il risultato di un’attività di modellizzazione della realtà.
6.4.1. Per modellizzazione si intende una costruzione ideale, che si presuppone isomorfa alla realtà delle cose (o meglio: ad alcuni tratti o aspetti della realtà delle cose, opportunamente selezionati) e che consente delle operazioni le quali sarebbero impossibili sulla realtà in sé considerata.
6.4.1.1. In verità nessun modello è trasparente, e meno che mai innocente. Il modello, infatti, non è affatto un duplicato della realtà delle cose, ma opera all’interno di questa delle scelte (cioè seleziona solo alcuni tratti o aspetti) e inoltre li traduce in una rappresentazione, vale a dire in un linguaggio.
6.4.1.2. Data una cosa del mondo reale x ne sono sempre possibili n rappresentazioni e modelli: x1, x2, x3…. xn.
6.4.2. Nella fattispecie il modello dell’alfabeto segue e presuppone un preventivo gesto di astrazione analitica operata sui suoni della lingua parlata.
Per questo Hegel può scrivere: «La scrittura alfabetica è in sé e per sé la più intelligente: in essa, la parola, che è per l’intelligenza il modo più caratteristico e degno di manifestare le sue rappresentazioni, è messa dinanzi alla coscienza, e fatta oggetto della riflessione. Nel lavorìo dell’intelligenza intorno ad essa, la parola viene analizzata; cioè la creazione dei segni viene ridotta ai suoi pochi e semplici elementi (…)» (Hegel, Enciclopedia: 422).
Tale processo di astrazione si può rendere secondo lo schema seguente (Schema 4), dove i momenti (2) e (3) rappresentano una modellizzazione, e la freccia tratteggiata rivolta all’ingiù rappresenta una continua, molecolare ed efficace retro-azione del modello-alfabeto sulla stessa lingua parlata (di cui supra ai punti 6.3.1-6.3.3):
Schema 4: La modellizzazione alfabetica della lingua
(1) messaggio verbale in forma orale –> (2) separazione ideale del continuum della voce in tratti segmentali discreti (e [freccia tratteggiata] retro-azione di tale operazione sulla lingua parlata) –> (3) rappresentazione grafematica di tali segmenti
6.4.2.1. La separazione ideale del continuum della voce in tratti segmentali discreti è stata talmente interiorizzata per secoli dagli uomini alfabetizzati da essere ormai pressoché automatizzata (ciò spiega perché il senso comune possa credere, ad esempio, che la ‘a’ esista in natura e sia, per dir così, ontologicamente fondata); in effetti – come abbiamo visto in 6.2.4. – sarebbe invece teoricamente possibile modellizzare la voce umana secondo criteri del tutto diversi da quelli alfabetici, cioè assumendo come pertinenti per il modello tratti e aspetti della voce del tutto differenti da quelli che il vigente modello-alfabeto considera.
6.4.2.2. L’attività di separazione in entità discrete del continuum della voce (cioè la sua modellizzazione secondo l’alfabeto) si dis-automatizza ed emerge alla luce del sole soltanto nelle fasi di apprendimento della scrittura, e più precisamente negli esercizi di dettato.
6.4.2.2.1. Non per caso chi detta scan-disce le parole (le sottopone ad uno scanner umano) cioè cerca di ridurle, artificialmente, agli elementi discreti di cui esse sono costituite secondo il modello dell’alfabeto.
6.4.2.2.2. Ed è per questo che la lettura è una capacità davvero paradossale che richiede, per poter funzionare, di essere dimenticata. Jean-Jacques Rousseau nelle Confessioni si ricorda di aver dimenticato: «non so come imparai a leggere, ricordo soltanto le mie prime letture e l’effetto che produssero su me: è il tempo al quale faccio risalire senza più interruzioni la coscienza di me stesso».
Ancora: Cazade e Thomas sostengono che un tale oblio rientra nella più generale (e del tutto necessaria) amnesia infantile analizzata da Freud, e si domandano: «Che cosa bisogna dimenticare? Si tratta di dimenticare come s’impara a leggere (…) per ricordarsi solo delle letture; si tratta di cancellare la forma di una pratica per meglio memorizzare un contenuto mentale identico a se stesso e vietarsi quindi l’analisi e la critica di questa pratica.» (Cazade, Thomas, 1977: 293)
6.4.2.2.3. Chi non sa leggere bene, o legge stentatamente lettera per lettera e parola per parola, sarebbe colpevole di non aver dimenticato abbastanza come si legge.
6.4.2.2.4. Ma (orrore e scandalo per i sostenitori del Puro Spirito) è proprio il corpo che, attraverso il lavoro, non dimentica come si scrive e come si legge; afferma Simone Weil: «Il mondo è un testo a più significati, e si passa da un significato a un altro mediante un lavoro. Un lavoro a cui il corpo prende sempre parte, come quando si impara l’alfabeto di una lingua straniera, tale alfabeto deve penetrare nella mano a forza di tracciare le lettere.» (Weil, 2000: 230-1; sottolineature nostre, NdR).
6.4.2.3. A conferma che si tratta dell’apprendimento di un codice convenzionale, e non del mero rispecchiamento del parlato nella scrittura, sarà da notare che il maestro sardo pretenderà comunque che si scriva ‘dato’ con una sola ‘t’, quello veneto che si scriva ‘tutto’ con due ‘t’, quello romano che si scriva ‘abile’ con una sola ‘b’ e ‘valigia’ con una sola ‘g’, e così via; insomma, a ben vedere il dettato (perfino il dettato!) richiede che la scrittura dell’allievo che scrive prescinda in buona sostanza da ciò che viene effettivamente pronunciato dalla voce del maestro che detta.
6.5. Le consonanti sono forse il luogo in cui si svela meglio il carattere astratto dell’alfabeto: le consonanti infatti non ri-suonano da sole («del ‘b’ non c’è né voce né suono, e neppure della maggior parte dei segni dell’alfabeto»: Teeteto, 203,b), e dunque a rigore non rappresentano affatto unità fonematiche minime riflesse in grafemi; esse sono piuttosto pura astrazione grafematica.
6.5.1. Da questo punto di vista la genialità dell’alfabeto, il suo gesto di radicale ma funzionale astrazione (che non deve cessare di stupirci), consiste nella “invenzione” delle consonanti più ancora che in quella delle vocali.
6.5.1.1. Le scritture prive di vocali (come, più in generale, tutte le forme di scriptio defectiva) portano in evidenza il vero significato di questa strepitosa invenzione, esse rivelano cioè che la scrittura non serve affatto a rispecchiare la voce o a rappresentarla ma serve piuttosto da promemoria per poter ri-produrre il Messaggio in forma di parole. Non solo, ma in tal modo esse evidenziano anche il carattere sempre futuro e tendenzialmente für ewig della scrittura (cfr. supra 0.1.4.3.1.1), cioè il suo consistere in una sorta di progetto di comunicazione oltre e contro la nostra morte, un progetto che qualcun altro, un giorno, forse, metterà in esecuzione.
6.5.2. Scrive ancora Leopardi a proposito dell’alfabeto: «grand’opera della lingua, opera che fa stordire il filosofo che vi pensa, e molto più del rappresentare le parole, e ciascun suono di ciascuna parola, chiamato lettera, mediante la scrittura, e ridurre tutti i suoni umani a un ristrettissimo numero di segni detti alfabeto».
Si tratta anzi per Leopardi di un’invenzione talmente geniale da doversi escludere che più uomini vi siano potuti giungere autonomamente per vie diverse: «Io tengo per certissimo che l’invenzione dell’alfabeto sia stata una al mondo, voglio dir che la scrittura alfabetica non sia stata inventata in più luoghi (o al medesimo tempo o in diversi tempi) ma in un solo (…). Non è presumibile che un’invenzione ch’è un miracolo dello spirito umano (o forse ha la sua origine dal caso come il più delle invenzioni strepitose) sia stata ripetuta da molti, cioè fatta di pianta da molti spiriti.» (Zibaldone: 1264, 2620).
6.5.2.1. Peraltro Walter Ong confermerà, molti anni e molte ricerche dopo, questa intuizione leopardiana: «Ma tra tutte le esperienze di scrittura che si sono fatte a partire all’incirca dal 3500 a.C. fino a quando gli aztechi hanno sviluppato il loro sistema di scrittura intorno al 1400 d.C. – quindi in un arco di tempo di circa 5000 anni – l’alfabeto è stato inventato una sola volta. Questa è forse la cosa più notevole dell’alfabeto: è stato inventato una volta sola.» (Ong, 2008: 35)
6.6. La convenzione sociale (cioè assolutamente arbitraria) che regge la scrittura alfabetica è che la lettura possa restituire il messaggio del parlato, secondo il meccanismo codifica (scrittura) – decodifica (lettura), che cioè il nostro Schema 4 possa arricchirsi nel modo dello Schema 5:
Schema 5: Il procedimento della scrittura/lettura alfabetica
(1) produzione del messaggio verbale in forma orale –> (2) separazione ideale del continuum del parlato in tratti segmentali discreti (e retro-azione del modello-alfabeto sulla lingua parlata) –> (3) rappresentazione grafematica di tali segmenti (scrittura) –> (4) lettura continua –> (5) ri-produzione del messaggio verbale in forma orale [=(1’)]
6.6.1. Da notare che questo schema (come tutti gli altri che seguiranno) descrive una sorta di “va e vieni”, è cioè un meccanismo di codifica/decodifica, che trova il suo vertice, o punto di svolta e ritorno, nel momento della rappresentazione (i momenti (1)-(3) appartengono all’attività di codifica, quelli (4)-(5) all’attività di de-codifica).
6.6.1.1. Ma c’è di più: sembra possibile, e necessario, applicare a tutti i passaggi delineati nel nostro schema, così come anche a tutti gli schemi che seguiranno, il meccanismo di feed-back o retro-azione che abbiamo considerato supra (cfr. punto 6.3.1. e Schema 4) a proposito del passaggio fra il momento (1) (messaggio verbale in forma orale) e il momento (2) (separazione ideale del continuum della voce in tratti segmentali discreti), dove – come si ricorderà – la freccia tratteggiata segnalava la retro-azione di quest’ultima operazione sulla stessa lingua parlata.
Analogo discorso di può fare, ad esempio, per i rapporti fra i momenti (2) e (3) dello Schema 5: infatti non c’è dubbio che il fatto di rappresentare grafematicamente i segmenti alfabetici (momento (3)) rafforzi enormemente (e forse consenta e produca) l’azione di cui al momento (2), cioè la rappresentazione ideale del parlato in tratti segmentali discreti, così che per diversi aspetti i due atti addirittura coincidono ed essi sono separabili e qui separati – ancora una volta – solo per motivi analitici.
Questa sorta di “va e vieni” vale in effetti per tutti i momenti che considereremo, senza eccezione, così che le linee tratteggiate, che stanno a rappresentare la retro-azione del momento seguente su quello precedente, compariranno d’ora in poi sempre nei nostri schemi, senza che sia necessario illustarle e giustificarle ogni volta (anche per il carattere del tutto utilitario e meramente illustrativo di tali schemi).
6.6.1.2. Così il modello che sommariamente si delinea, nonostante le sue lontane ascendenze saussuriane, è in realtà assai più circolare (o «a intreccio»: De Mauro, 1985; cfr. Basile, 2010: 9-10, 27; D’Ottavi, 2010) che non lineare. Infatti non solo la decodifica è eminentemente attiva, non meno di quanto sia attiva la codifica (si tratta essenzialmente di opeare un continuo feed-back, necessario perché si dia comunicazione) ma essa è in realtà sempre un’interpretazione, dunque un’attività ermeneutica compiuta dal Destinatario. (Cfr. infra punto 8.6. e Schema 8)
6.6.2. La differenza ineliminabile fra (1), il Messaggio parlato emesso dal Mittente, e (5=1’) il Messaggio parlato ricostruito dal Destinatario, sta a segnalare non solo l’imperfezione costituiva di ogni forma di comunicazione umana (di cui supra al punto 4.2.) ma soprattutto l’arbitrarietà e l’insufficienza del modello-alfabeto, cioè la sua incapacità di esprimere pienamente la lingua parlata (nonostante – come abbiamo visto – quest’ultima si sforzi di corrispondere al modello che su di lei è stato costruito). Questa differenza (in linea di principio ineliminabile) sarà anche in seguito vigente per ogni altro tipo di codifica/decodifica scritturale-alfabetica di cui avremo modo di parlare.
(7. Lettura/Scrittura, e intenzione comunicativa del testo)
7.1. Ma se le cose stessero semplicemente come sono descritte nello Schema 5 si avrebbe soltanto una traduzione (peraltro imperfetta) in segni grafici dei suoni della voce e, di converso, una realizzazione orale di tali segni grafici, senza che tutto ciò comporti implicazioni semantiche (esattamente come tu, fratello lettore, a condizione di conoscere il suono che corrisponde convenzionalmente alle due lettere dell’alfabeto latino ‘a’ e ‘d’, potrai perfettamente leggere ad alta voce la sequenza ‘da da da’ che io ho appena scritto qui in corsivo, per ipotesi senza attribuirle alcun significato).
Occorre allora intendere la Lettura/Scrittura in un’accezione più densa, cioè come operazioni che comportano una significazione e un’interpretazione (cfr. supra 6.6.1.2.), dunque una semantica.
7.2. La presenza fondamentale della significazione e dell’interpretazione nella Lettura/Scrittura del testo obbliga dunque a prolungare il nostro Schema 5, sia “all’indietro” che “in avanti” (cfr. Schema 6), per dare conto di un’intenzionalità comunicativa semantica che in realtà presiede sempre alla comunicazione verbale e la determina in tutti e due i suoi versanti (qui i momenti (1)-(5) appartengono all’attività di codifica, quelli (6)-(9) all’attività di de-codifica) :
Schema 6: Procedimento della comunicazione testuale (I)
(1) ideazione intenzionale del messaggio (produzione semantica) –> (2) significazione verbale (codifica del pensiero in forma di parole) –> (3) produzione (emissione) del messaggio vocale –> (4) separazione ideale del continuum della voce in tratti segmentali discreti (e retro-azione di tale operazione sulla lingua parlata)–> (5) rappresentazione grafematica di tali segmenti (scrittura) –> (6) lettura continua –> (7) ri-produzione del messaggio vocale (=3’) –> (8) de-codifica del significato verbale (=2’) –> (9) comprensione del messaggio e della sua intenzione (ri-produzione semantica) (=1’).
7.3. È talmente prevalente questo aspetto ideale e semantico nella comunicazione del Messaggio che la Lettura/Scrittura può benissimo funzionare (anzi: funziona di solito) nella modalità della Lettura/Scrittura silenziosa, cioè by-passando i momenti della emissione della voce e dell’udito (può infatti scrivere e leggere anche un sordomuto), mentre l’alfabetizzazione del messaggio verbale (momento (4)) è ormai talmente interiorizzata da essere divenuta del tutto automatica.
Più precisamente: mentre la lettura (momento (6)) diviene silenziosa, cioè meramente concettuale, i passaggi materiali e sensibili della lettura/scrittura (cfr. i momenti (3), (4), (7), i quali nello Schema 7 che segue sono ora espressi in corpo minore) non sono soppressi ma vengono dati per presupposti e (per dir così) solo “mimati”, restando logicamente presenti benché vissuti solo in modo automatico e virtuale (lo stesso si deve dire, e anzi a fortiori, della retro-azione del modello-alfabeto sulla lingua parlata, descritta supra al punto 6.3.1., come di tutte le altre retro-azioni a cui abbiamo solo accennato):
Schema 7: Procedimento della comunicazione testuale (II)
(1) ideazione intenzionale del messaggio (produzione semantica) –> (2) significazione verbale (codifica del pensiero in forma di parole) –> (3) produzione (emissione) del messaggio orale –> (4) separazione ideale del continuum della voce in tratti segmentali discreti (e retro-azione di tale operazione sulla lingua parlata) –> (5) rappresentazione grafematica di tali segmenti (scrittura) –> (6) lettura continua (anche silenziosa) –> (7) ri-produzione del messaggio orale (=3’) —> (8) de-codifica del significato verbale (=2’) –> (9) comprensione del messaggio e della sua intenzione (ri-produzione semantica) (=1’).
7.4. Così il testo tende a vivere preferibilmente nella testa degli uomini, e la lettura/scrittura occidentale tende, almeno in apparenza, a liberarsi dal corpo, riducendo al minimo indispensabile i rapporti con i suoi sensi. Non per caso l’unico senso implicato sembra qui essere il più immateriale dei cinque sensi umani, cioè la vista. (La metafisica idealistica del testo si fonda forse anche su questa particolarissimo tipo di corporeità?)
7.4.1. La possibilità di leggere e capire anche senza voce e senza alcuna pronuncia (la modalità che qui ci interessa) è banalmente confermata, dal tipo di lettura che molti di noi operano dei nomi impronunciabili (ma graficamente riconoscibili) di certi personaggi dei romanzi russi (in questi casi dunque possiamo by-passare senza danno il momento (7) dello Schema 7).
7.4.2. Ma sappiamo bene che non è sempre stato così, se il legere tacite, cioè solo con gli occhi, praticato da S.Ambrogio è annotato da S.Agostino ancora con qualche sorpresa: «Sed cum legebat, oculi ducebantur per paginas et cor intellectum rimabatur, vox autem et lingua quiescebant. (…) sic eum legentem vidimus tacite et aliter numquam» [= «Ma quando leggeva, gli occhi correvano lungo le pagine e il senso smuoveva l’intelletto, ma voce e lingua restavano in riposo. (…) lo vedevamo sempre leggere così, silenziosamente, e mai in altro modo»] (Confessioni, 6, 3, 3; traduzione nostra, NdR).
7.4.2.1. Faccio notare, come molto significativo, il fatto che Agostino si spieghi questa lettura silenziosa di Ambrogio con la volontà di questi di sfuggire alla necessità di commentare e spiegare ad altri ciò che stava leggendo: «et cavere fortasse, ne auditore suspenso et intento, si qua obscurius posuisset ille quem legeret, etiam exponere esset necesse aut de aliquibus difficilioribus dissertare quaestionibus atque huic operi temporibus inpensis minus quam vellet voluminum evolveret» [= «forse voleva anche evitare (leggendo così) che qualche ascoltatore attento e interessato davanti a passi alquanto oscuri lo ponesse nella necessità di spiegarglieli o di entrare in discussioni su punti difficili; il tempo impiegato in questo compito sarebbe andato a scapito dei libri che si era proposto di leggere»] (ivi).
La lettura silenziosa è individuale, esclude la discussione e il commento (anzi – suggerisce Agostino – essa forse serve proprio a questo), esattamente come la lettura dialogica (o collettiva), fondata su un’ermeneutica condivisa è necessariamente lettura ad alta voce.
7.4.3. Infatti è corporea, ad alta voce, collettiva ed eminentemente dialogica, la lettura ebraica della Bibbia, a riprova che la incorporeità della scrittura/lettura a cui siamo abituati è solo “occidentale” (cioè metafisica, ontologica e “greca”) e non appartiene affatto ad altre culture (si veda ad esempio, sulla scorta di Cardona, la scrittura azteca che Antonio Perri (2010) ha studiato dimostrandone la corporea materialità).
Cos’altro significa, se non il pieno coinvolgimento del corpo umano, questo insistere continuo del racconto biblico sull’udito (il senso della presenza e della prossimità) e sugli orecchi di tutto il popolo riunito? E cos’altro vuol dire questo gesto inaudito di leggere ad alta voce dinanzi a tutti e tutte, senza eccezioni, a cui è legato l’impegno a tenere per sempre vivo il testo sulla bocca di tutti e dei discendenti? «Leggerai questa legge davanti a tutto Israele, agli orecchi di tutti. Radunerai il popolo, uomini, donne, bambini e il forestiero che sarà nelle tue città, perché ascoltino, imparino a temere il Signore vostro Dio e si preoccupino di mettere in pratica tutte le parole di questa legge. I loro figli, che ancora non la conoscono, la udranno e impareranno (…)» (Dt. 31,9-13). E ancora: «Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntar della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci di intendere; tutto il popolo porgeva l’orecchio a sentire il libro della legge» (Ne. 8,3); «e le parole che ti ho messo in bocca non si allontaneranno né dalla tua bocca né dalla bocca della tua discendenza né dalla bocca dei discendenti dei discendenti, dice il Signore, ora e sempre.» (Is. 59,21).
Cos’altro ci dice (in Ez. 2,8-3,3) quel mangiare e inghiottire il rotolo da leggere, avvertendone perfino il sapore? (Ma il tema della grafofagia sarà poi ripreso in Ap. 5,1-5; 10,2; 10,8-11, e in tempo moderno – fra gli altri – anche da Albert Dürer.)
7.4.3.1. E si noti: in modo del tutto simmetrico e contrario all’ipotesi di Agostino a proposito di Ambrogio (la lettura che si fa silenziosa e individuale per evitare di dover commentare con altri: cfr. supra 7.4.2.1.), questa lettura ebraica richiede invece, fin dall’inizio, il collettivo e il commento: «Giosuè, Bani, Serebia, Iamin, Akkub, Sabbetai, Odia, Maaseia, Kelita, Azaria, Iozabad, Canan, Pelaia, leviti, spiegavano la legge al popolo e il popolo stava in piedi al suo posto. Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e con spiegazioni del senso, e così facevano comprendere la lettura.» (Ne. 8,7-8). (E va sottolineato qui, en passant, che il collettivo non è solo quello degli ascoltatori destinatari delle spiegazioni ma anche quello degli esplicatori e dei commentatori, di cui non per caso ci viene fornito il nutrito, e un po’ noioso, elenco).
Banon anzi afferma: «Chi è abituato alla lettura del Talmud sa come la lettura solitaria e silenziosa non sia ammessa. Non si può leggere “con gli occhi” un testo talmudico. (…) La lettura ad alta voce e le pause sono altrettanto essenziali alla comprensione logica del testo (…) dello scambio e del confronto con il compagno di studio.» (2009: 62)
7.4.3.2. Così commenta il commento e spiega la spiegazione Emmanuel Lévinas, descrivendo la “Torah orale”: «contemporanea alla Rivelazione sinaitica, e legata alla voce umana, e che vuole essere almeno pari in verità ed autorità – teologicamente, per così dire – alla Torah scritta (…) Almeno pari: perché la Torah scritta non assume la sua piena misura spirituale che attraverso la studio della Torah orale e gli scambi verbali di idee che questo studio comporta. (…) Importanza primordiale della lettura, del passaggio dalla Scrittura all’Oralità. (…) Lettura che è anche, e senza metafora, adorazione.» (Lévinas, 2009: 11).
7.4.4. Si impone così una domanda teorica radicale: questo carattere non immateriale, niente affatto incorporeo, non puramente mentale, non solo visivo, non teorico, non ideale [entrambe le parole, “teoria” e “idea”, rimandano alle radici greche che indicano il “vedere”] della lettura ebraica ha forse a che fare con una concezione dell’Essere non ontologica («non greca», come direbbe Lévinas)?
7.5. In ogni modo, se le cose stessero effettivamente così, se cioè il pensiero pensato precedesse la sua articolazione verbale in un messaggio (insomma: se il momento (1) dello Schema 7, venisse prima del momento (2), e questo a sua volta venisse prima del momento (3)), allora la Lettura (interiore) sarebbe precedente rispetto alla Scrittura (esteriore), cioè l’uomo leggerebbe sempre nella sua mente, e in un certo senso si auto-detterebbe praticando l’endofasia, ciò che si appresta a scrivere.
Tuttavia – si noti – questa situazione non configura affatto una originarietà della Lettura: resterebbe infatti da capire chi e come ha scritto ciò che il parlante legge dentro di sé.
7.5.1. Così Dante: «In quella parte del libro della mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: “Incipit vita nova”. Sotto la quale rubrica trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare [= trascrivere, copiare, NdR] in questo libello…» (Vita Nuova, I, 1)
7.5.2. E ancora: «I’ mi son un, che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando (…).» (Pg., XXIV, 52-54)
7.6. Sottolineo ancora una volta che il nostro elementare Schema 7 prescinde del tutto dal rilevante problema filosofico di cosa vi sia prima del momento (1), ammesso che vi sia qualcosa; di certo tale schema non vuole affermare, e non afferma, che l’ideazione intenzionale del Messaggio debba avvenire in perfetta autonomia e al di fuori di ogni contesto e di ulteriori stimoli; solo che tutto questo, non appartenendo alle nostre competenze, deve essere per forza qui tralasciato. Noi non ci occupiamo infatti dell’Origine (cfr. supra 6.3.4.). Così come il nostro discorso elementare deve prescindere dell’eventuale identificazione fra i momenti (1) e (2), e di converso fra i momenti (8) e (9) dello Schema 7 (insomma dall’illustre problema affrontato dalla linguistica cognitiva se sia possibile pensare altrimenti che in forma di parole).
7.7. Abbiamo però potuto definire in prima approssimazione lo Schema 7, su cui torneremo più avanti, come la Rappresentazione schematica della comunicazione testuale.
7.7.7. (L’Autore si permette di segnalare al complice Lettore la circostanza, non priva di una sua bellezza, e dunque secondo alcuni anche di qualche significato, per cui il punto 7.7. serve a segnalare il carattere cruciale dello Schema 7.)
(8. La ri-produzione del testo)
8.1. Dal nostro ragionamento emerge dunque una conseguenza fondamentale che riguarda anche il testo in quanto tale: la centralità della ri-produzione.
Il concetto di ri-produzione di qualsiasi messaggio verbale (e dunque, a fortiori, anche del testo) va dunque inteso alla lettera: significa produrre di nuovo il già prodotto, e tale concetto viene pertanto ad assumere un significato ben più ampio che non sia la “copiatura”; la ri-produzione consiste anzitutto (e sempre) nel ri-produrre il testo nell’esecuzione della lettura (cfr. sul concetto di esecuzione: Eco, 2003: 251-3).
8.2. In realtà la ripetibilità del testo (ciò che si potrebbe anche definire come la sua “trasportabilità”, nel tempo e nello spazio) è a ben vedere proprio la ripetibilità dell’atto di lettura, in quanto separata dalla scrittura ma, al tempo stesso, da questa consentita e dipendente.
8.3. Tale ri-produzione letturale (o lettoriale) ha per oggetto ogni testo e il testo in quanto tale, a prescindere da qualsiasi forma materiale in cui esso si presenti.
Perciò il testo è, come dice Iser: «un effetto potenziale che viene realizzato nel corso del processo di lettura» (Iser, 1987).
8.4. Il “potenziale” del testo che si realizza nella lettura è essenzialmente una semantica, cioè il suo significato.
8.4.1. L’esistenza di un sovrappiù semantico del testo rispetto agli elementi semplici che lo compongono è ciò che motiva l’osservazione di Platone: «bisogna porre che la sillaba [e tanto più la parola! NdR] non è i suoi elementi, ma una certa forma unitaria, composta da quelli, avente di se stessa un’unica Idea in sé, ma una Idea diversa da quella dei suoi elementi.» (Teeteto: 203e).
8.4.2. Per ciò che Platone definisce «una certa forma unitaria» che contiene l’idea (e altrove: «il potere del nome», cfr. supra 5.4.2.), è per noi possibile intendere il significato. Ed è del tutto evidente che tale sovrappiù semantico non deriva da una qualche misteriosa vis combinatoria delle lettere o delle sillabe (che in-significanti da sole significherebbero una volta messe assieme), bensì dall’intero processo (che abbiamo sommariamente descritto) della significazione scritturale del messaggio e della sua decodifica o ri-produzione semantica nella lettura (cfr. Schema 7).
8.5. Dunque, al di fuori di questa ri-produzione lettoriale, e prescindendo da essa, il testo sembra, a rigore, non esistere; anche il più assoluto e immateriale “testo per sé”, quello che volesse prescindere da ogni atto di copiatura, è dunque un paradossale oggetto che esiste solo in quanto è ri-prodotto (nella lettura, e ad ogni lettura). Cfr. supra 6.6.1.2.
8.6. Da questo punto di vista, il testo è necessariamente sempre il luogo di incontro fra due diverse attività, quella della scrittura e quella della lettura, più precisamente fra l’espressione dell’Autore e l’interpretazione del Lettore (cfr. Schema 8).
Schema 8: Il testo all’incontro di due diverse attività (scrittura/lettura)
(9. Tecnologie e testualità)
9.1. Abbiamo definito supra (nel punto 1.1. e passim) il testo in generale come un Messaggio (dunque un atto di comunicazione) attraverso lo spazio/tempo, per questo motivo caratterizzato da un’intenzione di stabilità. Ma per realizzare tale intenzione che lo fonda il testo deve sempre affidarsi a una tecnologia, o piuttosto alle tecnologie che, via via, sembrano garantire meglio agli uomini la stabilità del messaggio nel tempo la sua comunicabilità.
9.2. Esiste sempre un rapporto diretto fra i testi e le tecnologie che li veicolano (riferendosi alla «forma materiale» di un testo, ad es. i caratteri tipografici, Umberto Eco parla di «sostanza grafica»: 2003: 259-69). Il rapporto fra il testo e la sua forma tecnologica non è un rapporto fra un “fuori” e un “dentro”, fra un “sopra” e un “sotto”, fra uno spirito e una materia, e neppure quello fra una intima sostanza e un rivestimento esterno, ma, appunto, quello fra una forma e un contenuto e in questo caso fra un’espressione e un contenuto. Non c’è contenuto senza espressione e non c’è espressione senza contenuto; e non c’è testo verbale che non attraversi la forma materiale di una tecnologia (e non ne sia attraversato).
9.2.1. La tecnologia del testo dunque, non viene affatto dopo il testo, come se fosse una sua vernice; piuttosto essa interviene ad organizzarlo, dunque lo determina in maniera decisiva nella sua stessa costituzione; in altre parole, la tecnologia del testo influenza in modo determinante l’idea di testo che vige nelle diverse epoche e società e questa, a sua volta, presiede alla costituzione dei testi.
9.3. E tuttavia (è importante sottolinearlo) la segnicità materiale di cui il testo consiste e il suo relativo dipendere dalla tecnologia che lo incorpora, non esauriscono totalmente il concetto di testo.
Come scrive Cesare Segre, si tratterà: «in ogni realizzazione scritta» di «un riflesso, più o meno appannato, di un testo dalla consistenza puramente mentale»; insomma: «il testo non è una realtà fisica ma un concetto-limite.» (Segre, 1981: 270). Ma questa che appare come una costitutiva doppiezza del testo non è altro se non il fatto che ci troviamo di fronte a un apparato semiotico che veicola una semantica.
9.3.0.1. A proposito della immaterialità del testo: confermando che la letteratura vede talvolta prima e più lontano della filosofia, Thomas Mann segnala che, data la possibilità della traduzione, il suo testo narrativo prescinde a rigore perfino dalla lingua nazionalmente determinata («degli dèi indigeni delle lingue») che egli usa per scrivere; e fa dire al suo Eletto: «(…) impersonando io lo spirito della narrazione godo di quell’astrattezza (…) Però è del tutto incerto in quale lingua io scriva, se in latino, francese, tedesco o anglosassone, e non importa nemmeno saperlo perché se io scrivo qualche cosa in tedesco (…) domani sulla carta ci saranno forse parole britanniche, ed io avrò scritto un libro britannico. Non affermo affatto di aver la padronanza di tutte le lingue ma esse, mentre scrivo, confluiscono nella mia penna e diventano una cosa sola: la lingua. Lo spirito della narrazione è uno spirito libero da ogni vincolo fino all’astrattezza, il suo mezzo è la lingua in sé e per sé, che si pone come assoluto, e poco si cura delle varie favelle e degli dèi indigeni delle lingue. Ciò sarebbe politeista e pagano. Dio è spirito, e sopra le lingue è la Lingua.» (Mann, L’eletto: 610-1)
9.3.1. Abbiamo già visto (cfr. supra il punto 5.4., per noi fondamentale) che proprio questa cruciale polarità (fra espressione e contenuto, fra significante e significato) interna al concetto di testo è ciò definisce la sua caratteristica natura, consentendo al testo di essere variabile nell’invarianza e invariante nella variabilità.
9.3.1.1. La rassegna delle occorrenze e dei significati di “textus” presso gli umanisti (cfr. Rizzo, 1984) conferma, come meglio non si potrebbe, questa polarità: “textus” può voler dir tanto “il contenuto”, “il tenore”, “il senso” di uno scritto, quanto un determinato libro o codice o, addirittura, un determinato tipo di grafia.
9.3.1.2. La coesistenza nel concetto di testo di materialità e/o immaterialità (non la loro separazione!), l’essere cioè ogni testo un testimone storicamente dato e, al tempo stesso, il testo semanticamente archetipico a cui si rinvia (direi: il rapporto costante fra i “testi in sé” e il “Testo per sé”), tutto ciò costituisce esattamente il problema della filologia.
9.3.2. Il concetto di testo è dunque un concetto non solo denso ma anche ambiguo; è infatti un concetto composito, in cui – come abbiamo visto (cfr. supra punto 4.1.) – convivono, strettamente intrecciati una espressione e un contenuto, una semiosi e una semantica. Il testo è uno e bino e partecipa di due nature, e anche al rapporto fra le due nature del testo si possono applicare le parole del Concilio di Calcedonia a proposito delle due nature di Gesù Cristo: «senza confusione, senza mutazione, senza divisione, inseparabili.» (Cfr. La Valle, 2008: 127)
9.4. Noi abbiamo conosciuto tre fondamentali tornanti della storia della testualità: l’oralità, la chirografia, la stampa. E la nostra civiltà occidentale conosce almeno due svolte epocali nella storia delle tecnologia del testo: il passaggio dall’oralità alla scrittura, il passaggio dalla scrittura chirografica alla stampa. Ora è sotto i nostri occhi un altro di questi passaggi epocali, quello dalla “Galassia di Gutenberg” alla modalità informatica di produzione e fruizione del testo (che rappresenta l’occasione e lo specifico oggetto di questa riflessione).
9.4.1. Proprio il momento della svolta, del passaggio da una testualità all’altra ci interessa, perché è lì che si svela, come all’improvviso, il carattere storico dei vari concetti di testo e la loro variabilità (non voglio invece dire «la loro arbitrarietà», perché, come abbiamo visto, le diverse concezioni del testo sono tutte motivate da precise ragioni storico-culturali non meno che tecnologiche).
Ed è in quei momenti di svolta che è possibile cogliere meglio le diverse concezioni del testo che si sono succedute. Come accade in montagna: è quando la strada gira (non quando è addossata pedissequamente al monte) che appare più vasto e più visibile il panorama.
9.4.2. Naturalmente questi diversi modi di essere del testo (come le tecnologie testuali a cui sono legati) non si succedono affatto in modo lineare e meccanico; al contrario: essi coesistono a lungo e si influenzano a vicenda, determinando durature sopravvivenze e coesistenze non meno che imprevisti ritorni. E tuttavia una modalità testuale, legata ad una determinata tecnologia, diventa di volta in volta quella dominante instaurando una concezione del testo che prevale su tutte le altre.
9.5. Abbiamo argomentato in altra sede (cfr. Mordenti, 2001) intorno al passaggio dall’oralità alla scrittura chirografica e poi dalla chirografia alla stampa; non ripeteremo qui analiticamente quelle argomentazioni.
9.5.1. Tuttavia (come si ricorderà: cfr. supra 5.6.) abbiamo affermato la necessità di non escludere il testo orale dal concetto di testo verbale, e abbiamo fatto ciò soprattutto per poter verificare la produttività euristica della non-identificazione fra testo e testo a stampa.
E proprio riflettendo sul testo orale ci accorgeremo di una singolare circostanza: la prima occorrenza (e definizione) di testo si fa risalire, come è noto, alla Institutio oratoria di Quintiliano, che propone l’immagine di una trama verbale, di un tessuto di parole: «(…) quantumque interest sensus idem quibus uerbis efferatur, tantum uerba eadem qua in compositione uel in textu iungantur uel in fine claudantur» (così la traduzione di Simone Beta: «(…) quanto più il valore del significato cambia a seconda delle parole che lo esprimono, tanto più il valore delle parole stesse cambia a seconda della composizione che le unisce o all’interno o alla fine della frase [del testo, NdR]»: Institutio, IX, 4, 13: 380-3).
Ebbene, è da sottolineare che Quintiliano affronta qui (come peraltro fa in quasi tutta l’opera) il discorso orale, e in particolare sta trattando di quella «quaedam tacita uis (…) uehementissima» che risiede nei «ritmi» e nei «modi musicali» del discorso (così Jean Cousin traduce dal latino «numeris ac modis», d’altra parte Quintiliano sta parlando qui delle abitudini musicali dei Pitagorici). E infatti il suo discorso – che fra poco citerà il De Oratore di Cicerone – prosegue riferendosi apertamente al «dictum», cioè al parlato: «Denique quod cuique uisum erit uehementer dulciter speciose dictum, soluat et turbet: abierit omnis uis iucunditas decor» [= «Proviamo infine a sconvolgere e mettere sottosopra ogni frase che sembrerà essere stata pronunciata con efficacia, con dolcezza, con eleganza: ecco che scompariranno tutta la forza, tutta la grazia, tutta la bellezza»: Quintiliano, Inst., IX, 4, 14: 382-3]. Insomma è evidente che Quintiliano si riferisce, parlando di textus, alle modalità propriamente orali del discorso, anzi a quei suoi tratti di tonalità ed espressività che definiremmo oggi “soprasegmentali”.
Ciò significa che la metafora quintilianea del “tessuto” allude alla organizzazione complessa e stabile del discorso, non certo alla sua fissità nella scrittura.
9.6. Ora il nostro problema è capire che cosa succede con l’avvento del testo informatizzato, cioè organizzato e costituito a partire dalle tecnologie informatiche.
9.6.1. Più precisamente si tratta di capire che cosa sta succedendo nel passaggio dalla modalità gutemberghiana del testo (ancora dominante nella idea di testo vigente, e anche nelle nostre categorie analitiche) a quella post-gutemberghiana propria dell’informatica.
(10. Testo III)
10.1. Dobbiamo anzitutto cercare di definire il testo informatizzato (o informatico).
10.1.1. Con questa espressione, “testo informatico”, non intenderemo un testo che semplicemente faccia uso della macchina informatica (perché se così fosse tutte le nostre edizioni, da anni, sarebbero edizioni informatiche, dato che passano ormai per la macchina informatica tutti i nostri testi pressoché senza eccezione, sia tale macchina il computer di casa o una di quelle che usano i tipografi).
10.1.2. E neppure si possono considerare testi informatici veri e propri quelli che si limitano ad offrire in formato digitale i testi che già sono stati editi in formato cartaceo, magari passandoli per uno scanner.
Chiamerei piuttosto questi testi “digitalizzati”, per distinguerli da quelli informatici veri e propri.
10.1.2.1. In questi casi infatti l’informatica, per così dire, viene dopo, essa è un accessorio (per quanto importante e utile) e non un principio costitutivo: in particolare i testi digitalizzati restano fortemente debitori dei princìpi costitutivi delle edizioni gutemberghiane, delle loro caratteristiche, e soprattutto della ‘idea di testo’, fisso, rigido, ne varietur, che le edizioni gutemberghiane incorporano riflettendo in se stesse le caratteristiche della tecnologia della stampa meccanica. E infatti, a ben vedere, le stesse possibilità di ricerca che i testi meramente digitalizzati consentono sono esterne all’edizione, e pertengono semplicemente alla possibilità di applicare al testo (che è stato reso, da tipografico-cartaceo che era, digitalizzato) dei programmi informatici, ad es. in grado di trovare e quantificare delle stringhe di caratteri.
Insomma le edizioni digitalizzate rappresentano, per dir così, una versione digitale dell’edizione gutemberghiana e non ancora edizioni informatiche vere e proprie.
10.2. Per “testi informatici” (e per edizioni critiche informatiche) intenderemo invece solo quei testi che – per così dire – prendono sul serio l’informatica, cioè che considerano l’informatica come generatrice di problemi inediti comportati dal nuovo assetto e non solo come soluzione per i problemi tradizionali tipici del vecchio assetto; da un tale approccio deriva dunque anche una nuova procedura ecdotica. Si deve insomma trattare di testi che si costituiscono a partire dalle potenzialità (ripeto: teoriche e non solo tecnologiche) della nuova configurazione che il testo assume nell’ambiente segnato e determinato, e anzi caratterizzato, dall’informatica considerata pertanto come una epistemologia e non solo come una tecnologia,.
10.2.1. A questa novità teorica si accompagna e segue una novità strettamente tecnologica (si noti: è da tenere ben ferma questa gerarchia: ciò che conta davvero e ci interessa è la novità dello sguardo sul testo, non quella della tecnologia che veicola il testo, anche se fra queste due cose esiste evidentemente uno strettissimo rapporto).
10.3. Su queste basi ci si può riferire a tre modalità che definirei propriamente informatiche, che cioè non rappresentano un mero aggiornamento dell’edizione gutemberghiana (per il semplice ma validissimo motivo che esse erano praticamente impossibili in ambiente gutemberghiano): queste tre modalità sono: (i) l’ipertestualità (a cui è connessa anche (ibis) l’ipermedialità), (ii) la interattività, e (iii) l’essere pubblicato, cioè esposto e reso fruibile, tramite la rete.
Esaminiamole partitamente.
10.3.1. Per la prima caratteristica della modalità informatica del testo, (i) l’ipertestualità, intendo la possibilità di organizzare il testo e la sua lettura in modo non sequenziale e non unilineare.
10.3.1.1. In questo si nasconde però un equivoco assai diffuso, che sarebbe bene dissipare: per quanto il testo possa essere proposto in forma non sequenziale e non unilineare, la lettura umana resta di fatto sempre (direi: ossessivamente) sequenziale e uni-lineare, si svolge cioè lungo una sola linea o dimensione, quella del prima/poi (poco conta se questo movimento lineare si svolga da sinistra verso destra, da destra verso sinistra, o dall’alto verso il basso, etc.).
10.3.1.1.1. La percezione simultanea non appartiene infatti alla lettura. Né va confusa la lettura rapida con il concetto di simultaneità. E ciò nonostante che l’ex Presidente del Senato Marcello Pera abbia dichiarato ai giornali di essersi portato in vacanza ben 14 libri di filosofia che egli afferma di leggere con i nuovi metodi statunitensi della lettura rapida (detta impropriamente simultanea).
A proposito di tali metodi vale l’osservazione del filosofo newyorchese W. Allen, il quale ha testimoniato di aver letto in quel modo tutto Guerra e pace e di ricordarsi benissimo che la vicenda si svolgeva in Russia.
10.3.1.2. L’unilinearità della lettura appare anzi talmente invincibile da far pensare che essa abbia a che fare con un dato generale e insuperabile della condizione umana, e precisamente con il fatto che gli uomini sono immersi nel tempo e che le loro attività si svolgono necessariamente nella ferrea gabbia del ‘prima/poi’: ogni nostra azione viene prima dell’azione che la segue e dopo l’azione che la precede.
10.3.1.3. Comunque il testo nel suo complesso, come tutte le parole che lo compongono, sono percorsi da un movimento lettoriale lineare, e da uno solo, e precisamente dal movimento accumulativo che trasforma il “non ancora letto” in “già letto” spostando continuamente in avanti questo invisibile e mobile confine fra le due situazioni (cfr. Schema 9).
Schema 9: Movimento lettoriale: dal “non ancora letto” al “già letto”
10.3.1.4. Poiché non esistono letture di testi verbali che non siano lineari (a meno che il termine “lettura” sia usato in senso metaforico), ecco allora che un testo verbale organizzato in modo non lineare può dare luogo, nel momento della sua fruizione lettoriale, a una lettura semmai intermittente, sincopata, continuamente interrotta e ripresa da un punto diverso, e così via, ma mai non-lineare o multi-lineare; insomma la linea della lettura può anche essere trasformata in una serie disordinata di segmenti, ma la lettura di ciascuno di questi segmenti lettoriali (e dunque l’atto della lettura in quanto tale) sembra rimanere, se in sé considerata, del tutto lineare (cfr. Schema 10).
E le parti dell’ipertesto che non saranno percorse da una simile lettura, resteranno semplicemente non-lette (nello Schema 10 i segmenti indicati con linee tratteggiate), cioè non realizzeranno la loro potenzialità comunicativa, esattamente come accadrebbe alle pagine di un libro che rimanessero chiuse o trascurate dal Lettore.
Schema 10: Struttura non lineare di un ipertesto e lettura comunque lineare
Struttura non lineare di un ipertesto, comunque percorsa da segmenti di lettura lineare (indicati dalle frecce). Le linee tratteggiate indicano le parti dell’ipertesto che, pur essendo teoricamente leggibili, rimangono in pratica non lette.
10.3.1.5. Come è noto, esistevano modalità ipertestuali anche prima dell’informatica (ad esempio il passaggio dagli indici a luoghi del testo, o dal testo alle note etc.) ma esse sono talmente pallide e deboli da poter essere qui trascurate e da non contraddire l’identificazione proposta della intertestualità come una delle caratteristiche peculiari del testo informatico. Nel nostro caso diremo, con Jeff Conklin, che l’ipertesto (informatico) ha la sua caratteristica essenziale nelle «connessioni supportate dalla macchina», da cui «la capacità di gestire connessioni che permette un’organizzazione non lineare del testo».
10.3.2. Per la caratteristica (ibis) l’ipermedialità intendo inoltre la possibilità di far operare simultaneamente media diversi, che attivano (e rinviano a) sensi diversi dell’uomo: lettura ottica del testo ma anche ascolto di suoni, anche immagini, animazioni, e così via sbizzarrendosi.
10.3.2.1. Pure in questo caso occorre riflettere sul fatto che non si tratta di una novità assoluta introdotta dall’informatica. Non solo sono multimediali molte forme di espressione pre-informatiche (si pensi solo al cinema) ma la stessa testualità ha conosciuto molte forme di multimedialità nel rapporto fra la scrittura e le figurazioni: dalle miniature antiche, ai disegni che accompagnavano il testo, fino alle figure a stampa o all’inserimento di fotografie nei libri, etc.
L’antico sermonario con illustrazioni iconiche rovesciate rispetto alla scrittura (per renderle leggibili al pubblico man mano che il rotolo, letto ad alta voce dall’officiante, si svolgeva) veniva al tempo stesso letto, visto e ascoltato (magari con la musica): era cioè già un testo multimediale a pieno titolo.
10.3.2.2. Mia nipote Mimosa possiede un bel libro, intitolato Il libro del bebè (trad. it.: San Dorligo della Valle (TS), Edizioni EZ, 2005): in copertina una papera vellutata da carezzare; a p. 2 una margherita che suona e, se opportunamente tirata, cresce; a p. 3 le orecchie di un orsacchiotto squittiscono; inoltre ci si può specchiare comodamente in un piccolo specchio a forma di laghetto (con papera) a p. 6, e si possono ciucciare con gusto sia un’ape di stoffa posta dentro un fiore rosso, sia il berretto della luna (che, per giunta, contiene al suo interno una campanella), rispettivamente alle pp. 5 e 7. Tutti i sensi, non escluso l’odorato, sono attivati da questo libro. Ma non si vede perché mai questo libretto dovrebbe rappresentare una svolta nella storia della testualità; e, analogamente, non si vede perché mai dovremmo attribuire un tale ruolo agli esperimenti non meno ingegnosi che si possono trovare nella rete ad opera di autori sperimentali che esercitano la loro fantasia sull’ipertesto informatico (libri che si possono leggere un sola volta e poi scompaiono, racconti che si compongono variamente, favole che consentono al lettore diverse opzioni di svolgimento e diversi esiti, e così via: cfr. Orfei, 2002).
10.3.2.3. Rispetto alla multimedialità pre-informatica ciò che cambia è, una volta di più, solo la facilità con cui ora possono coesistere, grazie alla macchina informatica, media diversi (da cui derivano la forza e la pervasività della multimedialità nel testo informatico).
10.3.3. Per la seconda caratteristica della modalità informatica del testo, (ii) l’interattività, intendo la possibilità che il Lettore interagisca attivamente con il testo, rispondendo agli stimoli che provengono da esso in forma autonoma, e dunque di volta in volta differenziata.
10.3.3.1. Ma in base a quanto sostenuto supra nei punti 6.6.1.2. e 8.6. (cfr. Schema 8), cioè che ogni lettura è sempre e comunque un’attività, occorrerà ridimensionare fortemente la novità rappresentata dall’inter-attività del Lettore nella modalità informatica del testo rispetto alle altre modalità di lettura del passato, che ci sono apparse tutte e comunque inter-attive (si tratterà semmai di incremento quantitativo e, ancora una volta, di maggiore facilità, non di una situazione del tutto inedita e sconvolgente).
10.3.4. Per la terza caratteristica della modalità informatica del testo, (iii) la pubblicazione in rete, intendo infine la possibilità che il testo informatico sia connesso istantaneamente tramite Internet ad altri luoghi e ad altri testi o materiali resi disponibili sul web, e ciò fa del nostro testo un nodo collegato a diversi altri nodi di un medesimo sistema testuale di proporzioni inaudite. Questa situazione presenta potenzialità conoscitive meravigliose che siamo ben lungi dall’aver interamente esperito, e perfino compreso.
10.3.4.1. In questo caso, a differenza di tutte le altre caratteristiche poc’anzi richiamate (ipertestualità, multimedialità, interattività), sembra trattarsi in effetti di una novità assoluta del testo informatico, consentita solo dalla nuova tecnologia (a tal punto è debole e improponibile il confronto fra le antiche possibilità di nesso e rinvio fra testi diversi, che erano affidate alle sole forze dell’uomo, e quelle consentite ora dalla rete).
10.3.4.2. Quale che sia la straordinaria opportunità di diffusione della conoscenza legata alla pubblicazione in rete, e il legittimo entusiasmo che può derivarne, tuttavia non può sfuggire il fatto che tale modalità di pubblicazione sconvolge (e anzi frantuma e annichilisce) il secolare sistema di identificazione e attribuzione del testo elaborato durante l’era di Gutenberg. Tale sistema in sostanza consisteva nella griglia convenzionale Autore-Titolo-Editore cioè nella idea (a ben vedere abbastanza singolare, e tuttavia assunta e consolidata via via nel tempo fino ad apparire come naturale!) secondo cui a un testo dovesse corrispondere un Autore e uno solo, un titolo e uno solo, nonché un Editore, il quale ultimo non solo gestiva la commercializzazione ma anche garantiva – in qualche modo – l’attendibilità sociale del testo-libro (cfr. Mordenti, 2006). Poiché la rete tende a distruggere un tale sistema identificativo e attributivo (senza, almeno per ora, proporne un altro alternativo e altrettanto efficace), ecco che il testo informatico può trovarsi esposto nella rete adespoto, anepigrafo, acefalo, frammentario (e perfino gratuito!), insomma esposto non come la Gioconda è esposta al Louvre ma piuttosto come un trovatello è esposto nella ruota di un convento.
Questa situazione può effettivamente determinare confusione ed inconvenienti di ogni tipo, ma non si vede perché tali inconvenienti non possano essere affrontati (e risolti) in quanto tali, senza che la confusione testuale che attualmente deriva dalla rete sia assunta come una positiva novità teorica, o, peggio ancora, come una intrinseca caratteristica del testo.
10.4. Il testo informatico è in realtà una sequenza di caratteri digitali codificati.
10.4.0.1. Come scrive Buzzetti (2006: 43): «Il testo è (…) un tipo di dato, ossia una forma particolare di rappresentazione dell’informazione. L’informazione è rappresentata come una pura sequenza di caratteri alfanumerici. Ma questa forma di rappresentazione è espressivamente troppo povera per restituire tutta l’informazione testuale contenuta in un documento stampato o manoscritto – si pensi alla pura sequenza dei caratteri, senza i segni diacritici e senza l’impaginazione (…)».
10.4.0.2. C’è qui un apparente paradosso, che occorre sottolineare: proprio una sorta di povertà del dato testuale informatizzato (la sua unidimensionalità, la sua assoluta illeggibilità da parte dell’uomo senza il supporto della macchina, etc.) costringe a enfatizzare il momento della codifica, o mark-up, cioè costringe ad arricchire enormemente il dato rappresentato dalla mera sequenza binaria con i meta-dati della codifica. Il testo informatico è in realtà in-tessuto di meta-dati.
10.4.1. La codifica di cui parliamo è doppia: essa consiste, in primo luogo (i) nella codifica digitale che rende il testo leggibile e operabile dalla macchina informatica, e in secondo luogo (ii) nell’inserimento di una serie di marcatori (tags) che consentano nel momento della lettura la riproduzione di alcuni tratti segnici del testo considerati pertinenti per la sua rappresentazione; tali tratti segnici vanno dagli elementi più semplici dell’impaginazione (come gli a capo, che sono anch’essi solo marcatori di codifica) fino ai fenomeni più complessi codificabili secondo gli standard della Text Encoding Initiative (TEI) e dei linguaggi di marcatura, prima lo Standard Generalized Markup Language (SGML), e poi la sua derivazione, l’eXtensible Markup Language (XML).
10.4.1.1. Non deve trarci in inganno il fatto che la codifica (i) sia affidata alla ‘normalità’ della macchina, cioè che essa ci appaia come incorporata nella tastiera e nei programmi di scrittura di cui ci serviamo (che “imitano” la dattiloscrittura, e ci fanno credere che premendo il tasto della ‘a’ noi scriviamo la lettera alfabetica ‘a’, e non invece la sequenza binaria 01100001): si tratta anche in quel caso di una rappresentazione digitale per la macchina informatica tramite codifica binaria.
10.4.1.2. In effetti la codifica informatica è tutt’uno con il testo informatico, esattamente come la codifica alfabetica è tutt’uno con il testo alfabetico; in entrambi i casi si tratta di una distinzione meramente logica e analitica, non di due realtà differenti, giacché non esisterebbe alcun testo senza codifica e a prescindere da essa.
10.4.2. Qualsiasi trascrizione del testo per la macchina è dunque una ri-codifica informatica, che prevede sia la codifica (i) che la codifica (ii) di cui abbiamo parlato in 10.4.1. È questo motivo per cui (come si è argomentato altrove: cfr. Mordenti, 2001) il momento della trascrizione (al contrario di quanto accadeva nella filologia pre-informatica) rappresenta nella procedura ecdotica informatica il momento assolutamente decisivo, in termini di costi tempo-uomo non meno che in termini scientifici, giacché si tratta di decidere (esplicitamente e rigorosamente cioè senza poter ricorrere alla straordinaria comodità dell’umano sottinteso e dell’umano «più o meno uguale»), quali tratti segnici del testo considerare pertinenti per l’edizione (facendone oggetto di codifica per la macchina) e quali invece trascurare, e di fatto sopprimere in tutto il prosieguo del lavoro ecdotico.
10.5. La centralità della codifica nella procedura informatica ha conseguenze ancora più rilevanti: un testo ri-codificato per la macchina è un testo a cui la macchina può imprestare (per dir così) tutte le sue straordinarie potenzialità di ordinamento e di elaborazione.
10.5.1. In realtà la macchina, e i suoi programmi, operano sui dati del testo e sui metadati che lo organizzano, operando tutte (e solamente!) quelle de-codifiche ed elaborazioni che la codifica stessa ha previsto e consentito.
10.5.1.1. È proprio per consentire che si manifesti al massimo grado tale potenza di ordinamento e di elaborazione che diventa cruciale il problema di rendere più ricca e rigorosa che sia possibile la codifica (in particolare la codifica (ii) di cui al punto 10.4.1.).
Possiamo ora dire meglio che consiste proprio nella ricchezza e nell’accuratezza di tale codifica (ii) la differenza (proposta supra al punto 10.2.) fra un testo semplicemente “digitalizzato” e un testo che abbiamo definito propriamente “informatico”: solo quest’ultimo organizza se stesso a partire dalle potenzialità della macchina e dei programmi e con l’intento di massimizzare l’esito di tali potenzialità.
10.5.1.2. Quella che appare come la magica ‘attività’ del testo informatico è dunque in realtà solo la sua disponibilità a poter essere fatto oggetto delle attività di ordinamento ed elaborazione consentite dalla macchina e dai suoi programmi.
10.6. La situazione di fatto che così si determina, in confronto al testo non-informatico, è comunque assai differente; e ciò che conta davvero non è ciò che il testo effettivamente è ma come esso si offre a noi, cioè quello che con esso, e a partire da esso, diventa possibile fare.
10.6.1. Quello che appare decisivo del testo informatico è infatti la sua caratteristica (e nuova) disponibilità al fare: «La testualità digitale è costitutivamente processuale, non solo quando si scrive ma anche quando si legge, si consulta, si cerca, si scarica, si naviga, si lanciano applicazioni, e insomma quando ci si muove al suo interno. (…) Bisogna quindi cominciare a pensare alla testualità come a una relazione tra possibili azioni (…).» (Pellizzi, 2005: 90-1)
10.6.1.1. È forse questa la parziale verità interna della posizione di Rorty richiamata supra al punto 0.1.6.1.1.
10.7. Tutto ciò è comunque legato non solo a una codifica di tipo nuovo ma soprattutto a un nuovo ruolo della codifica nella procedura informatica: e, una volta che sia stato adeguatamente codificato per la macchina, il testo fa sue – per così dire – tutte le potenzialità che la macchina informatica porta con sé.
10.8. Ecco dunque che la procedura Lettura/Scrittura rappresentata nello Schema 7 (cioè il nostro Procedimento della comunicazione testuale (II), cfr. supra) si modifica ancora sostanzialmente.
Nello Schema 11 abbiamo soppresso, per comodità espositiva, i passaggi intermedi presenti nello Schema 7, riducendo il Procedimento della comunicazione testuale (III) ai cinque momenti decisivi della (1) Ideazione, (2) Scrittura, (3) Rappresentazione, (4) Lettura, (5) Comprensione. Questi cinque momenti conservano naturalmente il medesimo andamento simmetrico e “va e vieni” già descritto per lo Schema 7, facendo perno sul momento (3) della Rappresentazione:
Schema 11: Procedimento schematico della comunicazione testuale (III)
Ebbene, riferendo al testo informatico tale procedura, il Procedimento schematico della comunicazione testuale (III) diviene ora il Procedimento della comunicazione testuale informatica (cfr. Schema 12), il quale descrive una procedura che si svolge attraverso la macchina e per la macchina, mentre ai due momenti della Scrittura e della Lettura si aggiungono, rispettivamente, i due momenti forti della Codifica e della Decodifica informatiche (queste ultime due anzi finiscono per comprendere al loro interno Scrittura e Lettura).
Schema 12: Procedimento della comunicazione testuale informatica
10.8.1. La novità sostanziale del testo informatico è quella espressa graficamente nella parte superiore dello Schema 12: il fatto che ora il testo sia rappresentato informaticamente attraverso la macchina e per la macchina consente che si applichino al testo tutte le diverse elaborazioni di cui la macchina informatica e i suoi programmi sono capaci.
In altri termini, ora la fruizione (non solo lettoriale) del testo – per dir così – esplode aprendosi a possibilità di utilizzazione del tutto nuove, anche a quelle impreviste da parte dell’Autore e in alcuni casi perfino dallo stesso Editore (informatico).
10.8.2. Anche a proposito di quest’ultima circostanza (la possibilità di forme di fruizione del tutto impreviste dall’Editore) occorre ridimensionare l’apparente sconvolgente novità di questa situazione. Da quando esiste filologia è una caratteristica delle edizioni critiche ben fatte l’aspirare a essere «per tutti» e, tendenzialmente, «per sempre».
10.8.2.1. Semmai il problema della durata dell’edizione (o della sua longevità) si pone ora in modo diverso: da una parte essa è minacciata dalla rapida obsolescenza dei supporti tecnologici e del software; dall’altra invece essa è favorita (se non garantita) dal carattere aperto e modulare della pubblicazione propriamente informatica, cioè tramite la rete. Si potrebbe dire che questa modalità prefigura un’edizione sempre in fieri, in cui il nuovo (ad es. la scoperta, o la valutazione più perspicua di un testimone) si può funzionalmente aggiungere al vecchio senza sopprimerlo o vanificarlo.
10.8.2.2. Inoltre l’Editore critico non pubblica mai un testo solo per sé e per la propria ricerca, ma per offrirlo a ricerche e fruizioni diverse, siano quelle dei lettori comuni ma anche quelle dei linguisti, dei critici, dei lessicografi, e così via. Anzi proprio un tale prestarsi a una pluralità di successive utilizzazioni costituisce un parametro di giudizio sul valore di un’edizione critica, e un’edizione che non potesse essere utilizzata per ulteriori ricerche altrui non sarebbe un’edizione critica apprezzata.
È anche per questo che ogni edizione critica può essere definita come un moltiplicatore di conoscenza. Ciò era vero anche per le edizioni cartacee e gutemberghiane, nel caso dell’edizione critica informatica aumentano però esponenzialmente la possibilità e l’efficacia di tali riutilizzazioni, fino a giustificare la definizione che abbiamo proposto di edizione informatica come edizione sapiente (un calco della denominazione francese di edizione critica: édition savante), per dire che essa contiene e deve contenere, almeno potenzialmente, un significativo sovrappiù di conoscenza realizzabile in successive utilizzazioni.
10.8.3. Proprio in questi possibili trattamenti ulteriori può essere contenuto, o ricercato, un sovrappiù di valore conoscitivo. Per questo il sociologo Domenico Parsi ha potuto parlare di «media cognitivi» (e non solo «comunicativi»): «I media computazionali (cioè i media che hanno dietro il calcolatore) consentono una varietà di funzioni cognitive al di là di quella comunicativa: consentono di conservare, ritrovare, manipolare vari tipi di informazione, consentono di avere aiuti al lavorare insieme, collaborando con altri, consentono di agire, di manipolare oggetti, situazioni eventi anche se simulati. I media computazionali, quindi, diversamente dai media pre-computazionali, che sono unicamente media comunicativi, sono media cognitivi, o media di elaborazione cognitiva, nel senso che mediano praticamente ogni attività cognitiva umana, di cui quella comunicativa non è che una.» (Parsi, 1993: 88).
10.8.4. Il numero e le potenzialità di tali utilizzazioni sono, e debbono essere, superiori alla nostra possibilità di elencarli: si può andare dalla più tradizionale elaborazione automatica del testo per trarne Glossari, Indici o Concordanze etc., alla possibilità di rappresentare la mobilità del testo (il suo progressivo farsi, le sue varianti, etc.) fino a forme di fruizione scientifica o creativa attualmente per noi del tutto imprevedibili.
10.8.5. L’ampiezza e la varietà di tali fruizioni informatiche del testo è il motivo per cui viene enfatizzata l’inter-attività, o per meglio dire una sorta di partecipazione del Lettore alla stessa costituzione del testo, attraverso, appunto, una fruizione creativa e apparentemente im-prevista del testo stesso (ma, come si è visto, qualsiasi fruizione mediata dalla macchina informatica è in realtà consentita dalla codifica informatica e ne dipende strettamente).
10.9. Concepire un testo del tutto sganciato, almeno virtualmente, dalla tecnologia della stampa ci consente di (e al tempo stesso: ci costringe a) ripensare radicalmente il concetto stesso di testo; ed è questa una modifica capitale, gravida di conseguenze euristiche e operative, nonché inevitabilmente (come si è visto altrove) anche ecdotiche.
10.9.1. Il testo informatico è, come abbiamo visto, una serie di informazioni codificate in sistema binario da/per la macchina informatica. Anch’esso però è uno e bino, esattamente come il tradizionale concetto di testo della filologia, che contiene, e confonde, il Textus e i testes, l’idea di Testo e la materialità dei testi, una semantica e una semiotica (ma, contro la deriva idealistica, cfr. supra 4.1.1. e 9.3.1.2.). E anche il testo informatico può essere visto sotto due aspetti o come se fosse due cose diverse: può essere quel testo determinato e individuo, restituito fino nella sua più dettagliata configurazione materiale, riprodotto cioè negli a-capo e nella grafia e perfino nel colore dell’inchiostro o nella tonalità della carta; ma può anche essere solo ciò che (per dir cosi) esso effettivamente è “dentro” il computer, cioè una mera successione di caratteri alfanumerici, anzi di bytes, un’imprevista forma moderna di scriptio continua, alla cui essenzialità non appartengono né gli a capo né gli spazi bianchi, essendo tutto ciò niente altro che codifica fra le codifiche (o mark up).
10.9.1.1. Richiamo l’attenzione sul fatto che questa seconda configurazione è assai più vicina all’immagine di una linea, una semiretta continua priva di spessore e colore, che non a quella bidimensionale di un tessuto, di un textus.
10.10. Il punto scientificamente, cioè filologicamente, decisivo è però il seguente: nel caso del testo informatico, questo essere uno e bino del testo (di cui supra al punto 10.9.1.), o meglio la coesistenza all’interno del testo di virtualità diverse, non può e non deve rimanere nell’ambiguità (diversamente da quanto avveniva per il testo della tradizione filologica pre-informatica).
Al contrario, tale coesistenza di due nature diverse nel testo può e deve essere ora gestita nella più rigorosa chiarezza grazie all’onesta capacità del testo informatico di essere trattato dai programmi e dalla macchina, e in tal modo di “spogliarsi” e “rivestirsi”, ogni volta secondo le scelte dell’Editore informatico o dello stesso Lettore informatico, cioè di essere ogni volta, e non ambiguamente, ciò che noi vogliamo che sia: la riproduzione esatta di un testo (di quel testo) oppure la ricostruzione congetturale del Testo, una EDIC (Edizione Diplomatico-Interpretativa Codificata, o Computerizzata) di un testimone dato (cfr. Mordenti, 1999), da utilizzare per ricerche automatizzate su frequenze e variazioni della grafia, oppure la base per creare uno stemma di un’edizione lachmanniana, e così via.
10.10.1. All’editore informatico spetta, come abbiamo visto, una sola (ma assolutamente decisiva) costrizione, quella, appunto, di dovere scegliere cosa e come ri-codificare, esplicitando ogni volta le sue scelte senza potersi più affidare a quelle che Avalle definiva le «bonarie (…) tassonomie semiclandestine» della filologia tradizionale.
(11. Le somiglianze fra il testo informatico e il testo manoscritto Vs il testo a stampa)
11.1. In questa linea di ragionamento colpisce il fatto che siano molti, e assai vistosi, gli elementi che rassomigliano la scrittura informatica più alla scrittura fluida, “morbida”, sempre aperta alla correzione del copista e del lettore, tipica della chirografia antica (cfr. Canfora, 2002), che non a quella rigida, conclusa per sempre, fissa, separata ed estranea rispetto al lettore, tipica della stampa.
Nel caso del manoscritto, e del testo informatico, il testo sembra lasciare sempre aperto il vitale circuito Lettura/Scrittura/Ri-scrittura (non a caso Landow può parlare, a proposito dell’ipertesto, di un nuovo «scrilettore»), mentre nel caso del testo stampato, prodotto da una tecnologia esterna alle capacità del lettore e chiusa al suo intervento, ci troviamo di fronte ad un testo finito e perfetto che non richiede, anzi non tollera, ulteriori atti di scrittura.
È invece intrisecamente ‘attiva’ (come e più di quella della chirografia) la lettura prevista e richiesta dall’ipertesto informatico; per meglio dire si tratta ora di una lettura inter-attiva (cfr. Tabella 1), che realizza potenzialità pragmatiche offerte dal testo informatizzato (ormai tutt’uno con i programmi e le macchine che l’organizza e lo gestisce).
Tabella 1: Lettura attiva, “passiva” e inter-attiva (testo manoscritto, testo a stampa, testo informatico)
Testo manoscritto | Lettura attiva («con la penna in mano») |
Testo stampato | Lettura “passiva” (solo oculare) |
Testo informatizzato | Lettura inter-attiva (attivazione pragmatica di link) |
A proposito delle virgolette che che nella Tabella 1 delimitano, e circoscrivono, il concetto di “passività” della lettura gutemberghiana (come di qualsiasi altra lettura) si vedano supra i punti 6.6.1.1.- 6.6.1.2. e passim.
11.2. Inoltre, come si è visto, il testo informatico tende prepotentemente ad essere (ed in parte già è) un testo multimediale, sempre più aperto al rapporto reciproco con l’immagine e il suono, anche per questo aspetto somigliando all’antico testo orale/manoscritto (supporto ipomnemonico per realizzazioni performative orali: cfr. Pasquali, 1974) e così spesso accompagnato dall’immagine, da notazioni musicali, dal gesto del corpo, etc., e invece contrapponendosi ancora una volta alla esclusiva, silenziosa monomedialità (solo oculare e visiva) tipica del testo a stampa.
11.3. Ma quello che colpisce soprattutto del testo informatico è il suo essere mobile, ciò che definirei la sua rigorosa mobilità; ad esempio la possibilità di trascorrere in un attimo dal testo all’apparato, e viceversa, di consentire diversi e plurimi percorsi di lettura, o di offrire (sempre in un attimo, e sempre in modo assolutamente affidabile e rigoroso) diversi “stati del testo”, diversi rami dello stemma, diverse varianti e così via (beninteso: sempre e solo se l’editore critico addetto alla codifica abbia previsto e consentito tali possibilità).
(12. Il senso del testo)
12.1. Possiamo allora tornare alla questione posta all’inizio del nostro ragionamento (cfr. supra punti 0.1.- 0.2.), se cioè la mobilità del testo (che in effetti sembra intrinsecamente legata alla sua modalità informatica) debba condurre a smentire le possibilità di significazione del testo e a legittimare (per dir così: per via tecnologica) la deriva ermetica del decostruzionismo più oltranzista.
12.2. Intanto, dal percorso di ragionamento che abbiamo fin qui seguito deriva una prima argomentazione: proprio l’analogia che abbiamo poc’anzi proposto fra la mobilità antica del testo pre-gutemberghiano e quella modernissima del testo informatizzato rappresenta, a ben vedere, la più recisa smentita di chi vuole far derivare dalla mobilità dell’ipertesto informatico anche la sua in-significanza, cioè il suo carattere ermetico. Se il testo mobile pre-gutemberghiano ha veicolato per secoli senso e significato non si vede perché non possa farlo il testo mobile post-gutemberghiano.
12.2.1. Certo, la mobilità testimonia contro un’idea essenzialistica del testo, ma questa, per l’appunto, non è la sola idea di testo possibile (anche se è l’idea di testo legata all’ontologia occidentale e alla tecnologia di Gutenberg).
12.3. Più radicalmente: la possibilità del testo di significare non appartiene affatto alla sua “fissità” o alla sua “immobilità” bensì proprio all’attività creativa e ricreativa che vive nella trasmissione del testo stesso, cioè alla sua tradizione.
12.3.1. La significazione e la trasmissione dei significati avvengono in effetti sempre nella mobilità della storia, cioè nella tradizione del testo. Ciò significa che si potrebbe rovesciare l’argomentazione che lega alla mobilità del testo l’insignificanza e sostenere invece che un testo che fosse assolutamente “fisso”, immobile e identico a se stesso, sarebbe anche incapace di comunicare, cioè di significare. Al contrario, come afferma Gregorio Magno: «Scriptura crescit cum legente» (Moralia, libro XX, 1, 635). Il testo cresce ad ogni atto di lettura.
12.3.2. Non allude forse a questo limite comunicativo connesso alla fissità del testo, la necessità che le religioni del Libro hanno sempre avvertito di accompagnare il Testo sacro (e perciò avvertito come immutabile) con i poderosi apparati mobili della mediazione? La spiegazione, la variazione sul tema, la riscrittura e il commento in tutte le loro molteplici forme, dal midrash alle glosse, dal paratesto alle traduzioni, dall’esplicazione orale reiterata nella più diffusiva predicazione fino all’ermeneutica più raffinata, rappresentano in realtà il complesso dei dispositivi mobili, continuamente rielaborati e cangianti, che permettono al Testo di trasmettersi fra gli esseri umani nel tempo della storia nonostante la sua fissità.
12.3.2.1. Peraltro tale fissità deve sempre (come si è visto) essere considerata presuntiva, cioè essa è tutta da dimostrare, o da conquistare.
12.3.2.2. Si potrebbe accettare la posizione dei fondamentalisti se essi fossero almeno in grado di precisare quale edizione della Bibbia dovrebbe essere accettata alla lettera.
12.3.3. A proposito di Bibbia: il nesso fra immutabilità del Testo e mobilità del commento fu fin dal principio, e l’attitudine del midrash [= “spiegazione”, “ricerca”, nonché l’insieme dei commentari ebraici al testo biblico scritti dal V al XIII secolo d.C.] nasce a un parto con la consegna della Torah. Non per caso la sua “versione originale” («le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole»: Es. 32,16) è andata definitivamente in frantumi (Es. 32,19), benchè tali frantumi abbiano meritato di essere conservati nell’arca santa; e ora è il commento dialogico, la tradizione, a rendere vivo il testo sacro nel tempo.
Dopo l’esilio babilonese (a metà del V secolo a. C. circa), lo scriba Esdra lesse per la prima volta il Libro a tutto il popolo («portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere»): «Essi leggevano il libro della legge di Dio, a brani distinti e con spiegazioni del senso, e così facevano comprendere la lettura.» (Neemia 8,2 e 8). Il Libro vive dal momento che è letto, a tutti e a tutte, a voce alta, e commentato (cfr. supra 7.4.2.-7.4.4.).
12.3.3.1. E, si noti bene: qesta centralità, anzi questa co-essenzialità al testo del commento mobile e cangiante non deriva affatto da trascuratezza filologica nei confronti del testo; tutto al contrario! È questa la medesima cultura del Libro e dello scrupolo filologico, che ammonisce un giovane scrivano (come racconta Rabbi Meir): «Figlio mio, sii cauto nel tuo lavoro, perché è un lavoro divino: se soltanto ometti una lettera o scrivi una lettera di troppo, distruggi il mondo intero».
12.3.3.2. «Non si tratta – scrive Banon – (…) di raggiungere la parola che precede lo scritto; ciò che qui importa è la parola che segue lo scritto, che lo mette in movimento, quella che fa sorgere il senso dall’interno della rete serrata delle lettere scritte. In ciò, la lettura è operatrice di senso. (…) Di questa lettura in cui ciò che è pronunciato e ciò che è scritto costituiscono un unico paradigma, la tradizione ebraica fa già un’esegesi e la chiama miqra. In ebraico si chiama miqra (“lettura”) ciò che l’occidentale intende o chiama con “Scrittura”. (…) un’importanza maggiore è accordata all’oralità più che allo scritto, al pneuma più che al gramma, perché lo scritto, in quanto tale, non insegna; suggerisce. La lettura non è dunque semplice ripetizione, ma è indissolubilmente legata alla comprensione, all’esplicitazione e alla trasmissione.» (2009: 39, 41).
Commenta lo stesso concetto Giacometta Limentani: «Alla stregua dei profeti, i darshanim guardano al passato per determinare il presente in funzione del futuro. A questo fine non credo esista parola della Scrittura che essi non abbiano sottoposto all’affettuoso martellamento delle loro indagini, usando tutti i mezzi dell’arte di esprimere il proprio pensiero. Parabola e allegoria, metafora e massima, lirica e preghiera, satira e polemica, narrazione, dialogo, ironia e iperbole si alternano e si accavallano, sfaccettando la Bibbia e rendendola cangiante.» (Limentani, 1975: 27; Martini, 2001: 109).
Scrive Lévinas: «Il testo è teso sulle amplificazioni della tradizione come le corde sulla cassa del violino» (1986: 166).
12.4. In altre parole è proprio la relativa mutabilità del testo (cioè a dire: la sua storicità) che, variamente combinata con la sua tendenziale stabilità, consente che esso possa funzionare e funzioni come strumento della comunicazione inter-umana di significati, giacché anche il testo è un sinolo di invarianza e variazione, di identità e di differenza, esattamente come gli uomini che lo scrivono e lo leggono nel tempo.
12.4.1. Il testo allora è relazione, o meglio μεταξύ (metaxù = “frammezzo”, “intermediario”, “ponte”: Simone Weil), tra gli esseri umani e gli altri esseri umani al di là del tempo e dello spazio, tra l’io e l’altro, tra singolare e collettivo, tra sapienza e ignoranza (Platone, Convivio: 202), tra pensiero e realtà delle cose, fra invarianza e variabilità (cfr. supra punto 5.4.).
12.5. Ammettiamo senz’altro, con Derrida, che la scrittura possa avvenire, e avvenga, in assenza del referente, in assenza dell’emittente e, perfino, in assenza del destinatario, e che anzi proprio l’esigenza di combattere una tale assenza (che poi non è altro se non la morte) fondi la testualità in quanto tale, cioè in quanto permanenza; non è possibile tuttavia non ammettere che la comunicazione comunichi almeno se stessa, non tramandi almeno il suo tramandare, non consista insomma irriducibilmente in una tradizione.
12.6. Occorrerebbe togliere dalla parola e dal concetto di “tradizione” la patina “tradizionalista” che li riveste e li deturpa nella nostra episteme cattolico-romana. Si vorrebbe intendere qui “tradizione” non nel senso della Curia cattolico-romana, della gerarchia e dell’immobilità, ma piuttosto in quello del movimento storico, della kabbalah e, se proprio necessario, perfino del “tradimento”.
12.7. Concediamo, con la decostruzione, che la presenza in entrambi del nucleo semantico dell’invarianza accomuni il termine/concetto di tradizione del cardinale Ottaviani e quello di Walter Benjamin (Benjamin, 1997: 93), ma vogliamo scommettere, contro la decostruzione, che i due sensi della parola non siano affatto identici né inseparabili fra loro.
E se, ad ogni atto di una tale comunicazione, che si istituisce dunque come tradizione, corrisponde un umano ri-conoscimento del testo, noi allora possiamo chiamare tale riconoscimento (storico, transeunte, esposto all’errore ma, proprio per questo, portatore di significato), un riconoscimento testimoniato ogni volta da uomini, il senso del testo.
Come dice studiando i suoi kabbalisti un autore forse meno lontano da Derrida di quanto sembri: «A possedere significato, senso e forma non è la parola stessa, ma la tradizione della parola, il suo mediarsi e riflettersi nel tempo.» (Scholem, 1998: 89).
(13. Conclusioni)
13.1. Ora ci occorre, per cercare di capire, tornare al punto di partenza.
Siamo partiti (cfr. supra 0.1.8) da un allarme (confessiamolo: un allarme talmente in contrasto con lo Spirito del tempo che esso stentava perfino a dirsi esplicitamente), cioè abbiamo argomentato – sulla scorta di una profezia di Cesare Segre (1969!) – che la messa in questione della possibilità del testo di significare e di comunicare sensati significati fra gli umani portasse con sé l’instaurazione di una soffocante «nebbia argentea», capace di confondere «ciò ch’è attivo e ciò ch’è passivo, cause ed effetti, valori e disvalori, sforzi e fallimenti». Insomma ci siamo allarmati per il rischio di una nuova notte della ragione, non meno buia che altre notti per il fatto di essere preterintenzionale, e non meno capace che altre notti di generare mostri; anche in questa nuova notte infatti «si confondono lupi e agnelli» e «i lupi potranno divorare in tutta libertà gli agnelli.» (Segre, 1969: 43)
Allarmati da questo allarme abbiamo visto il rischio che la critica di ogni fondamento servisse in realtà solo a togliere ogni fondamento alla critica dello stato di cose presente; e abbiamo sospettato che senza il messaggio del testo, e senza il senso che esso porta con sé, allora la critica sensata dell’insensatezza dell’esistente diventerebbe impossibile, anzi impensabile, così che il più adulto e lucido disincanto si rovescerebbe di fatto in incantata apologia infantile di ciò che è, di tutto ciò che è e di come è, per il solo fatto che è. Qualcosa che sta accadendo nel mondo là fuori ci suggerisce che questo rischio si fa realtà.
Soprattutto abbiamo visto profilarsi all’orizzonte (o essa è già in atto, e ci domina già?) una micidiale tenaglia fra questa filosofia del non sense e la tecnologia del nostro tempo, l’informatica; e noi sappiamo bene non solo quanto sia potente e pervasiva la tecnologia informatica ma anche quanto possano le filosofie quando si connettono alle cose (e viceversa: quanto possano le cose quando si impadroniscono, tramite le filosofie, delle teste degli uomini).
Per tutto questo abbiamo osato parlare di una «posta in gioco», di una partita decisiva che si svolge intorno al concetto di testo (senza che, naturalmente, gli addetti professionali al testo neppure dimostrino di essersene accorti).
13.2. Nel corso del nostro percorso di ragionamento questa istanza iniziale (che definiremmo, non senza tremori, di etica del testo) si è venuta incontrando, in modo forse imprevisto, con Autori e istanze diversissimi fra loro.
Nonostante la elementarità dei nostri ragionamenti e riferimenti, un dato ci sembra che sia emerso con assoluta evidenza: quello che viene messo in crisi dal testo informatico (ed essenzialmente dalla sua mobilità) non è affatto l’idea di testo in quanto tale bensì solamente una determinata idea di testo, storica e transeunte come tutte le umane idee, e precisamente l’idea di testo che abbiamo definito «essenzialistica», quale sorge dall’ontologia occidentale e si riflette trionfando nella tecnologia di Gutenberg.
13.3. D’altra parte la significazione di cui il testo è portatore non appartiene affatto alla immobilità o alla fissità del testo bensì alla sua tradizione, storica e imperfetta come tutto ciò che esiste sotto il cielo, ma non per questo priva di senso o incapace di comunicare.
Il testo significa muovendosi, esattamente come il bosco di Birnan nel Macbeth shakespeariano che significa qualcosa (l’avverarsi della profezia) solo quando si muove verso Dunsinane: «…io comincio / a dubitare degli equivoci del demonio, / che dice la menzogna come se fosse verità: / “ Non temere, finché il bosco di Birnan / non venga a Dunsinane” – Ed ora un bosco / avanza su Dunsinane. Alle armi, alle armi, e via!» (Shakespeare, Macbeth, V, v, 44-48).
Peraltro il mistero del testo risulta svelato (cfr. supra punti 5.4.-5.5.): il “segreto del testo” consiste proprio nella sua capacità di mettere in scacco l’insignificanza spostandosi di volta in volta fra il piano dell’espressione e il piano del contenuto, ed è attraverso questo gioco, questo continuo movimento interno, che il testo riesce a conservare e trasmettere (a conservare trasmettendo, a trasmettere conservando) l’intenzione di stabilità del messaggio che lo costituisce.
Da parte nostra si è voluto anche insinuare (cfr. supra punti 12.1.-12.4. e passim) che il testo comunichi e si comunichi proprio e solo attraverso il suo movimento nel tempo, e che la tradizione aggiunga senso al testo non meno di quanto ne sottragga, giacché ad ogni “stazione” del processo l’entropìa della dispersione dell’informazione viene contrastata da una cooperazione interpretativa (qui intesa in senso forte) messa in atto nella lettura e ad ogni atto di lettura.
13.4. Ancora meno convincente è apparsa la pretesa di far derivare dal nuovo «primato» del destinatario-lettore, che l’informatizzazione del testo porterebbe con sé, l’incapacità del testo a significare e comunicare. Questa posizione non solo enfatizza eccessivamente (per épater le bourgeois: cfr. supra 10.3.1.2.-4., 10.3.2.2., 10.3.3.1., 10.3.4.2. e passim) delle caratteristiche del testo informatico che sembrano assai meno rilevanti (e perfino assai meno inedite) di quanto si dica, ma soprattutto ne trae delle conclusioni teoriche del tutto illegittime e infondate.
13.4.1. Affermare il diritto del Lettore a svolgere una lettura il-limitata e delirante non ha nulla a che fare con la rivoluzione, e nemmeno con la democrazia.
A un signore assoluto (ab-solutus, cioè sciolto da ogni vincolo e limite) se ne sostituisce un altro. Se prima il testo (e per tramite suo il Lettore) dipendeva dall’Autore, ora il Lettore assume su di sé le caratteristiche, tipiche del signore, della libertà assoluta e dell’arbitrio. Ma in entrambi i casi si tratta di una cattiva libertà, che (come sempre accade per la libertà signorile) presuppone un servo: in questo caso il servo è il testo. In nessuno dei due casi (il dominio dell’Autore o il dominio del Lettore) c’è alcuno spazio né considerazione per il vincolo e la resistenza esercitati dal testo e, se possiamo dirlo, per la sua relativa autonomia (e, non per caso, il testo viene ridotto alla sua mera cosalità in-significante).
Rovesciamento senza liberazione: il paradigma della dipendenza del testo e della sua irrilevanza si ribalta, ma non si incrina.
13.5. Vogliamo ripeterlo, a costo di inserire a conclusione del nostro discorso considerazioni allotrie: le conseguenze di queste teorie dell’insignificanza del testo sono devastanti.
13.5.0.1. Un critico italiano (di cui non si fa qui il nome per il rispetto e l’affetto che ci legano al suo cognome) ha pubblicato per anni sui nostri giornali oltre settanta interviste del tutto inventate (a Gore Vidal, a Grisham, a Ratzinger, a le Carrè, a Walesa, a Philip Roth etc.). Una volta scoperto, egli si è difeso invocando, non per caso, le caratteristiche dell’informatica e del web: «Nell’era del web ognuno può inventare qualunque cosa, fingere di essere Vargas Llosa, Philip Roth o Umberto Eco (…) si possono far girare in Internet le notizie più incredibili (…) La velocità e l’istantaneità sono la falla nel sistema»; e, infine, è questa la sua conclusione etico-politica: «La menzogna va bene fin quando non diventa calunnia o oltraggio.» (Gnoli, 2011: 60-1).
13.5.0.2. La critica letteraria del “New York Times” Michiko Kakutani (2011: 50) segnala che il libro di Mark Twain Le avventure di Huckleberry Finn (da cui, secondo Hemingway discende tutta la letteratura americana moderna) è stato di recente «ripulito, aggiornato e “migliorato” (…) da Alan Gribben, professore di inglese alla Auburn University di Montgomery, in Alabama». Il collega statunitense ha soppresso senz’altro dal libro la parola politicamente scorretta “nigger” [= “negro”], che pure presenta oltre duecento occorrenze, sostituendola con “slave” [= “schiavo”]. Con la stessa logica altri si sono affannati a togliere l’antisemitismo da Shakespeare, il colonialismo da Conrad e Melville, e perfino la parola “gobbo” da Il gobbo di Notre-Dame. Non innocente follia dell’eterno presente post-moderno! Con la sciocca pretesa di “attualizzare” si colpisce non solo il passato ma anche il futuro, privando irreparabilmente chi ci seguirà di testi (cioè di significati); in tal modo si condanna il passato (non tràdito, non conosciuto e perciò neppure superabile) a ritornare di continuo.
Se questo avviene in nome del politically correct da parte della “sinistra”, e nei democratici Stati Uniti, si può ben immaginare che cosa possa avvenire negli Stati Uniti o altrove da parte della destra (religiosa o politica), la quale – come è noto – da quando esistono i libri si è sempre affannata a togliere, tagliare, sopprimere, censurare, rassettare, e bruciare, e quando tutto questo si rivela impraticabile, almeno a escludere dalle pubbliche biblioteche libri o Autori sgraditi, sovversivi, o semplicemente antipatici.
13.5.1. Ma – questo è il punto da notare per noi! – questi stupri del testo “all’americana” non sono affatto regurgiti o residui del passato, anzi essi avvengono in nome del progresso e/o di un aggiornamento dei testi. Non per caso un altro professore americano (citato dalla Kakutani) dichiara significativamente che Huckleberry Finn è un «libro vecchio» mentre «siamo pronti per cose nuove» (dunque non sono dissimili i tentativi italiani di riscrivere «in linguaggio moderno» Boccaccio, Petrarca o Machiavelli, come se in letteratura il linguaggio e il testo fossero due cose diverse e separabili).
E non certo per caso, parlando di questi stupri del testo, Michiko Kakutani fa riferimento alla digitalizzazione informatica dei testi e alle teorie dell’insignificanza, dell’irrilevanza e dell’intercambiabilità dei testi di cui ci stiamo qui occupando (significativa co-occorrenza: è forse all’opera la «formidabile tenaglia» di cui supra al punto 0.1.6.2.?); essa critica infatti: «l’atteggiamento superbo adottato da un numero sempre maggiore di persone in questi tempi di ibridazioni, cambiamenti e libri digitali, un atteggiamento secondo il quale tutti i testi sono intercambiabili, e quindi i lettori hanno il diritto di alterarli a loro piacimento, perché l’idea stessa di paternità intellettuale è passata di moda.» (Ibidem)
13.5.2. A tutto ciò Kakutani sembra contrapporre soprattutto una strenua difesa di ciò che definisce la «proprietà intellettuale sacrosanta».
Sia consentito dire che questa trincea sembra fragile, se non addirittura controproducente: giacché se la proprietà è «sacrosanta» allora è «sacrosanto» anche il diritto di fare ciò che si vuole con l’oggetto di una tale proprietà, e se essa ricade nella mani degli editori non è certo in nome della «proprietà sacrosanta» che si potrà impedire loro di produrre libri modificati e stravolti che, per ipotesi, risultino più commercibili; senza contare che gli stessi Autori (per non dire dei loro legittimi eredi) potrebbero condividere, ove le ritenessero convenienti, tali operazioni di modificazione e stravolgimento.
No: poiché questi deplorevoli comportamenti derivano da una precisa (per quanto implicita) teoria del testo, allora per combatterli davvero occorre combattere teoricamente la teoria del testo dominante che li genera e li consente (non volendo qui dire della società che tale teoria riflette).
Occorre anzitutto capire e affermare che il testo appartiene a se stesso e che, in quanto messaggio rivolto da un umano ad altri umani, esso presenta una sorta di diritto a comunicare se stesso; tale diritto va rispettato. Consiste infatti in questo il nucleo di laica sacertà del testo senza cui non si dà né critica né filologia (né, direi, sensata lettura). Se le cose stanno così, allora – al limite – neppure l’Autore può rivendicare un potere assoluto sul proprio messaggio, una volta che egli l’abbia emesso (meno che mai, naturalmente, può farlo il Lettore, o il il Critico!). Poichè Kakutani usa l’espressione (quanto mai significativa!) di «paternità intellettuale» (cfr. supra 13.5.1.), allora ci sarà lecito far notare che nemmeno i padri hanno più diritto di vita e di morte sui propri figli, e che questi ultimi, una volta messi al mondo, non appartengono più a nessuno.
Torquato Tasso – per fare un solo esempio – ha certamente ogni diritto di scrivere una Gerusalemme conquistata dopo aver scritto la Gerusalemme liberata, ma neppure lui ha il diritto di pretendere che la Liberata si trasformi nella Conquistata o che le due opere si confondano, e meno che mai può pretendere che la Gerusalemme liberata non sia più ciò che è diventata ed è nella storia.
13.6. Ecco dunque che perfino la critica del testo serve a qualcosa; come serve a qualcosa la umana scienza che è addetta alla cura del testo in quanto tale, la filologia. Se le nostre discipline servissero anche soltanto a insegnarci il rispetto del testo esse si rivelerebbero indispensabili (socialmente indispensabili, intendo dire).
Parafrasando chi disse sensatamente (senza peraltro essere ascoltato) che dove si bruciano i testi prima o poi si finisce per bruciare anche gli esseri umani, noi possiamo oggi dire che dove non si rispettano i testi, la dignità e la irriducibile identità di ciascun testo, non è possibile che siano rispettate la dignità e l’irriducibile identità degli esseri umani e di ciascun essere umano.
13.7. Ma ciò che conta davvero è la conclusione seguente che ci sembra sia emersa dal nostro ragionamento: i testi non solo “vogliono” comunicare ma possono effettivamente farlo. Se anche non avessimo più l’Autore noi avremmo comunque il testo; e se anche non avessimo più il testo originario noi avremmo comunque la tradizione che ce lo trasmette, ciò che rappresenta, per l’appunto, lo specifico della filologia e della critica e la loro ragion d’essere.
È questo il senso del testo.
FINE
Bibliografia:
Nota: Nei casi di opere antiche e/o classiche, non si ricorre alla formula “Autore, anno”, ma una parola del titolo compare nella citazione (ad es.: “Agostino, Confessioni”, “Platone, Cratilo”, “Hegel, Enciclopedia”, etc.) e nella Bibliografia lo stesso titolo viene riportato per esteso, dopo il punto fisso ‘.’; in questi casi, ove possibile, il riferimento specifico al luogo citato viene fatto in base alle ripartizioni dell’edizione critica (universalmente condivise) e non alle pagine dell’edizione italiana considerata.
Nel caso di opere tradotte da altra lingua si dà fra parentesi, dopo il titolo, l’anno dell’edizione originale.
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