Raul Mordenti
Il virus e il poeta.
Giuseppe Gioachino Belli specchio della pandemia,
Roma, Bordeaux, 2021
Sommario:
La pestilenza come rivelazione e specchio. 2
Cosa vediamo nello specchio del contagio. La “ritornata ferocia”. 6
La pazzia collettiva e i due versanti della superstizione. 10
Eppure il contagio c’è, e uccide. 14
La nostra società nello specchio del Covid. 18
La grande poesia di Belli come specchio. 19
a) Il negazionismo (ovvero: i don Ferrante del XXI secolo). 22
c) Provvedimenti (che non provvedono) e rimedi (che non rimediano). 34
d) La superstizione dei religiosi. 51
Come si esce dalla pestilenza e dai suoi effetti. 65
“I bambini sono “maligni amplificatori biologici che si infettano con virus per loro innocui,
li replicano potenziandoli logaritmicamente e infine li trasmettono con atroci conseguenze
per l’organismo di un adulto”
(Roberto Burioni, 31/03/2019)
La pestilenza come rivelazione e specchio.
La pandemia del Covid, come tutte le pestilenze nella storia dell’umanità, è un’ “apocalisse”, nel senso della parola greca ἀποκάλυψις che significa togliere il nascondimento (apò-kálypsis), gettar via ciò che copre, dunque – letteralmente – scoperta o disvelamento, rivelazione.
Che pestilenze come queste non si potessero verificare più negli anni onnipotenti del capitalismo realizzato: ecco un esempio delle illusioni ottiche portate dall’ideologia del “progresso”. Di più: lo stesso carattere raro o eccezionale delle pestilenze è frutto dello sguardo miope, cioè corto, del progressismo. In realtà nel campo lungo della longue durée è la mancanza di pestilenze a rappresentare l’eccezione, mentre il loro ripresentarsi periodico costituisce la regola.
Superfluo dire che lo sguardo occidentale e “bianco” che ci possiede esclude sempre e senza problemi dal suo campo i popoli non occidentali; così, anche ai nostri civili e globalizzati giorni, epidemie come la Sars o l’Ebola o la peste suina o altre non hanno meritato le pagine dei giornali solo perché esse hanno avuto la buona creanza di toccare solo marginalmente l’Occidente, limitandosi a fare stragi altrove (ma questo “altrove” è il mondo).
Rappresenterebbe un còmpito evidentemente impari alle nostre forze anche solo elencare le pestilenze della storia umana, basterà dire che la loro presenza percorre tutta la storia che conosciamo.
Non dimentichiamo che c’è una terribile peste anche all’inizio dell’Iliade. La narrazione che inizia la narrativa della nostra cultura inizia con la narrazione di un’apocalisse pestilenziale. Nel I canto dell’Iliade, Omero descrive una pestilenza, mandata da Apollo, che colpisce l’accampamento greco in assedio a Troia. Il poeta riporta come causa l’ira del dio che, per vendetta dell’oltraggio compiuto da Agamennone contro il sacerdote Crise, scaglia i dardi della misteriosa pestilenza sui Greci, cominciando a colpire prima gli animali:
E qual de’ numi inimicolli[1]? Il figlio
di Latona e di Giove[2]. Irato al Sire
destò quel Dio nel campo un feral morbo,
e la gente perìa: colpa d’Atride[3]
che fece a Crise sacerdote oltraggio.
[…]
Prima i giumenti e i presti[4] veltri assalse,
poi le schiere a ferir prese, vibrando
le mortifere punte; onde per tutto
degli esanimi corpi ardean le pire.
La peste di Atene è una delle prime epidemie di cui la storia ha notizia. Si abbatté su Atene durante il secondo anno della Guerra del Peloponneso (430 a.C.). Dunque fin dall’antichità il nesso causale guerra-peste è del tutto evidente. La malattia uccise Pericle, e anche lo storico greco Tucidide ne fu colpito, ma riuscì a sopravvivere. Quest’esperienza gli consentì di descrivere con precisione la malattia nel libro II (47-53) della sua opera La guerra del Peloponneso. L’incombere della morte, l’assenza di futuro, determina l’assolutizzazione del momento presente e conduce all’abbandono di qualsiasi legge morale. Scrive Tucidide:
“La peste segnò per la città l’inizio del dilagare della corruzione. Ciò che prima si faceva, ma solo di nascosto, per proprio piacere, ora lo si osava più liberamente […]. Vi erano ricchi che morivano all’improvviso, e gente, che prima non aveva niente, da un momento all’altro si trovava in possesso delle ricchezze appartenute a quelli, per cui ci si credeva in diritto di abbandonarsi a rapidi piaceri, volti alla soddisfazione dei sensi, ritenendo un bene effimero sia il proprio corpo che il proprio denaro. Nessuno era più disposto a perseverare in quello che prima giudicava fosse il bene, perché – pensava – non poteva sapere se non sarebbe morto prima di arrivarci; invece il piacere immediato e il guadagno che potesse procurarlo, quale che fosse la sua provenienza, ecco ciò che divenne bello e utile. La paura degli dei o le leggi umane non rappresentavano più un freno.”
Ritroveremo analoghe considerazioni a proposito del crollo delle leggi divine o umane, che l’apocalisse pestilenziale reca con sé, in Lucrezio, in Boccaccio, in Manzoni, etc.
Oltre a Tucidide, molti altri scrittori antichi descrissero epidemie: Platone, Aristotele, Rufo di Efeso tra gli altri, e naturalmente medici come Ippocrate e Galeno. Virgilio, nella III Georgica, descrive una pestilenza che sterminò il bestiame nel Norico; Ovidio, in Metamorfosi VII, narra della peste scatenatasi ad Egina, anche in quel caso (come nella pestilenza descritta da Omero) con effetti prima nel mondo animale poi in quello degli uomini.
Lucrezio nel De rerum natura (VI 1145-1196; 1230-1286) descrive la peste ispirandosi a Tucidide:
In silenzioso timore esitava l’arte dei medici,
1180 e intanto i malati volgevano senza posa lo sguardo
dagli occhi sbarrati, riarsi dal male e insonni.
…
…
1275 (…) luoghi, che i custodi avevano affollato di ospiti.
Non più si teneva in onore, infatti, il culto divino
e il potere dei numi: il dolore presente vinceva.
Né più resisteva in città quell’usanza di funebri riti
che da sempre avvezzava le genti a inumare pietose gli estinti;
1280 infatti, tutti si affannavano in preda al disordine,
e ognuno, angosciato, seppelliva i suoi cari composti come poteva.
La miseria e l’evento improvviso indussero a orribili cose.
Siamo proprio alla conclusione del De rerum natura, e il trionfo della morte appare simmetrico al trionfo di Venere (cioè della vita) che aveva aperto l’opera. Qui la mancanza dei riti funebri (che anche l’Italia, e la Lombardia in specie, ha conosciuto nella prima ondata del Covid) segna l’apice del nuovo imbarbarimento, delle “orribili cose” che il contagio porta con sé (v. 1282: “Multaque res subita et paupertas horrida suasit”).
Nel 166 d.C. la peste detta “Antonina” o “peste di Galeno” arriva da Oriente, portata entro i confini dell’impero romano dai reduci della guerra contro i Parti (la popolazione che occupava l’attuale Iran). Il contagio, con varie forme, durerà per quasi un ventennio, causando la morte del 10-30% della popolazione e tra le vittime troviamo anche gli imperatori Lucio Vero e Marco Aurelio Antonino (180 d.C.).
La “prima pandemia” (di cui si hanno testimonianze storiche dirette) avvenne nel 541-750 d.C. e fu detta “peste di Giustiniano” poiché la prima ondata interessò l’impero bizantino, colpendo in particolare Costantinopoli, durante il regno dell’imperatore Giustiniano. Secondo lo storico Procopio di Cesarea, testimone oculare dell’epidemia, la peste uccise metà della popolazione della città di Costantinopoli, che in quegli anni contava circa un milione di abitanti. Un altro testimone, il vescovo Giovanni da Efeso, parla di circa 16 mila morti al giorno nella sola Costantinopoli. L’acme dell’epidemia durò 4 mesi e si stima che la peste ridusse la popolazione di circa il 40-50% e causò dai 50 ai 100 milioni di morti. Quando la pestilenza arrivò a Roma nel 590 la tradizione vuole che sia stata fermata grazie a una processione penitenziale, voluta da papa Gregorio, durante la quale era apparso l’arcangelo Michele che rinfoderava la spada (come ricorda la statua all’apice di castel S. Angelo).
Il contagio colpì comunque tutte le terre che si affacciano sul mar Mediterraneo, evidentemente meno protette di Roma dall’arcangelo Michele, e penetrò all’interno della Francia sino a raggiungere l’estremo opposto dell’ecumene del tempo, l’Irlanda nel 544-545 e l’Inghilterra nelle ondate successive (664 e 684).
La “peste nera” (così chiamata per il colore delle pustole bubboniche[5]) è quella immortalata da Boccaccio nel Decameron. Generatasi in Asia durante gli anni ’30 del XIV secolo si diffuse in Europa a partire dal 1346 e fino al 1353. Nel 1347 arrivò in Sicilia, a Genova, in tutta Italia e in Svizzera, quindi in Francia, Spagna, Inghilterra. Boccaccio testimonia che morirono a Firenze “oltre a centomilia creature umane” e nel continente europeo la “peste nera” uccise almeno un terzo della popolazione, provocando verosimilmente 20 milioni di vittime.
Venezia, particolarmente esposta per la sua collocazione e i suoi commerci, conobbe ripetutamente la peste, che ha lasciato anche tracce nella storia dell’architettura e dell’arte: si ricordano le pesti del 1478, del 1484 e quella gravissima del 1575. La guerra di Mantova, non meno dei rapporti con l’Oriente, riporta la mortalità a Venezia, e nonostante il governo ordini disinfestazioni, sequestri interi quartieri e seppellisca i morti nei lazzaretti, l’epidemia dilaga fino al 1631, portando con sé più di 47.000 morti (un quarto della popolazione).
Siamo negli anni della peste narrata da Manzoni[6], un’epidemia di peste bubbonica diffusasi in Italia tra il 1629 e il 1633 (con massima diffusione nell’anno 1630) che colpì diverse zone del Settentrione d’Italia, il Granducato di Toscana, la Repubblica di Lucca e la Svizzera. Il Ducato di Milano, e quindi la sua capitale Milano, fu uno degli epicentri del contagio, complici (come Manzoni sottolinea) la guerra e la denutrizione. Guerra, fame e pestilenza vanno insieme. Si stima che in Italia settentrionale tra il 1630 e il 1631 morirono per la peste 1.100.000 persone, dunque più di un quarto di una popolazione complessiva stimata a circa 4 milioni
Si ricorda, nel 1664-1665 la “grande peste” di Londra probabilmente dovuta agli scambi commerciali tra Londra e Amsterdam: quest’epidemia causa la scomparsa di un quinto della popolazione, circa 75.000-100.000 umani.
L’Italia sarà l’ultimo stato dell’Europa a essere abbandonato dalle pestilenze: l’ultima epidemia di una grande città è quella di Messina del 1743[7]. Sappiamo che vi perse la vita il 71,6%, della popolazione cittadina, grazie all’accurato doppio censimento operato dalle autorità locali all’inizio del morbo e un anno dopo la sua cessazione: da 40.321 abitanti Messina arrivò a contarne solo 12.480.
L’ultimo focolaio di un certo rilievo è quello di Noja (in Puglia) ancora nel 1815.
L’epidemia di colera di cui parlerà Belli (che vedremo più avanti, v. pp.000-000) sarà solo la prima di una serie che funestò dell’800. Come scrive Marcello Teodonio:
“Il colera, anzi il cholera morbus, come era la dizione allora usata universalmente, era un morbo implacabile e sconosciuto che fra il 1817 e il 1837 flagellò tutto il mondo con la marcia travolgente e irresistibile della sua prima pandemia ottocentesca: in tutto furono sette (e riguardarono l’intera superficie del mondo, uccidendo almeno 40 milioni di esseri umani), sei delle quali colpirono l’Italia: 1835-37, 1849, 1854-55, 1865-67, 1884-86, 1893”.[8]
Non il colera o la peste ma un’epidemia di virus, assai più simile al Covid[9], fu l’influenza “spagnola” che dal 1918 al 1920, a ridosso della guerra, arrivò a infettare, con due ondate successive del virus, 500 milioni di persone in tutto il mondo, provocando la morte di più di 50 milioni, molti di più (quasi tre volte tanto!) di quanti ne abbia provocato la prima guerra mondiale[10].
Queste stesse terribili cifre spiegano, in parte, perché quella tragedia sia stata censurata e, propriamente, rimossa dalla narrazione più o meno ufficiale della storia. Non se ne parlava nelle scuole e, scomparsa la generazione in cui ciascuno aveva visto morire di “spagnola” uno o più parenti[11], anche l’immaginario collettivo sembra aver cancellato quella strage, forse in assoluto la più letale della storia dell’umanità. Lo stesso nome “spagnola” deriva dalla censura, cioè dal fatto che solo in Spagna, nazione estranea al conflitto, la stampa osò parlare di quell’epidemia, censurata invece sistematicamente dai Governi di tutte le altre nazioni europee per non turbare gli spiriti guerreschi dei propri sudditi.
Al di là della consueta infamia dei Governi, ciò che anche questa vicenda dimostra è che gli umani non amano guardare in faccia il proprio essere mortali.
Cosa vediamo nello specchio del contagio. La “ritornata ferocia”.
Che cosa rivelano le moderne apocalissi delle pestilenze? Che cosa vediamo, se guardiamo nello specchio che esse rappresentano?
Cerchiamo qualche risposta a partire dalla letteratura. Non può essere certo un caso se due capolavori della nostra letteratura[12], il Decameron e i Promessi sposi, mettono in scena pestilenze mortali, anzi le collocano in luoghi cruciali della narrazione e del suo senso, e ciò avviene proprio perché la pestilenza rivela qualcosa di fondamentale della natura umana che il vivere associato e la cultura aveva coperto, ma non veramente superato.
Già nei testi che abbiamo finora cursoriamente citato emerge un punto comune che a me sembra decisivo, cioè il fatto che di fronte alla pestilenza, che mette gli umani di fronte al rischio attualissimo della morte, prima lo Stato in quanto tale e poi la società, perfino nelle sue entità basilari come la famiglia, collassano e scompaiono.
Insomma, il vivere degli umani in società è la prima vittima dei contagi. E assistiamo a quella “ritornata ferocia” di cui parla Vico.
Abbiamo visto poc’anzi come Tucidide attribuisca alla pestilenza una diffusa e speciale “corruzione” e come Lucrezio descriva una situazione di nuova ferinità, quasi pre-umana, resa evidente dalla rinuncia a seppellire i morti, cioè al gesto che – fin dalla notte dei tempi – distingue gli umani dagli animali.
Boccaccio descrive meglio di qualsiasi altro questo ritorno a una situazione di bestiale asocialità provocata dalla peste:
“Delle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e imaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. (…)
Altri, in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando a torno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito, che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male: e cosí come il dicevano, il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto piú ciò per l’altrui case[13] faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere. E ciò potevan far di leggeri[14], per ciò che ciascun, quasi non piú viver dovesse, aveva, sí come sè, le sue cose messe in abbandono, di che le piú delle case erano divenute comuni, e cosí l’usava lo straniere[15], pure che ad esse s’avvenisse, come l’avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl’infermi fuggivano a lor potere.
Ed in tanta afflizione e miseria della nostra cittá era la reverenda autoritá delle leggi, cosí divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, sí come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sí di famiglie rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era, d’adoperare. (…)
Dall’isolamento sociale indotto dalla paura del contagio deriva la licenza, l’abbandono della “reverenda autoritá delle leggi, cosí divine come umane”, l’abbandono del lavoro (a cominciare da quello dei contadini[16]) e infine la crisi degli stessi legami familiari, delle gerarchie sociali e perfino di ogni pudore:
“E lasciamo stare che l’un cittadino l’altro schifasse[17] e quasi niun vicino avesse dell’altro cura ed i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano, era con sí fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava ed il zio il nepote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito, e che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la caritá degli amici, e di questi fûr pochi, o l’avarizia de’ serventi li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno[18], quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quegli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, ed i piú, di tali servigi non usati, li quali quasi di niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano.
E da questo essere abbandonati gl’infermi da’ vicini, da’ parenti e dagli amici, ed avere scarsitá di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito, che niuna quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d’avere a’ suoi servigi uomo, qual che egli si fosse, o giovane o altro, ed a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altramenti che ad una femina avrebbe fatto, solo che la necessitá della sua infermitá il richiedesse; il che in quelle che ne guerirono fu forse di minore onestá, nel tempo che succedette, cagione. (…)”
Anche in questo caso è la rinuncia ai riti della sepoltura dei morti che segnala per Boccaccio il massimo della nuova disumana ferocia indotta dalla peste, per cui le bare e la terra dei cimiteri non bastano più:
“Per che, quasi di necessitá, cose contrarie a’ primi costumi[19] de’ cittadini nacquero tra coloro li quali rimanean vivi. Era usanza, sí come ancora oggi veggiamo usare, che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano, e quivi con quelle che piú gli appartenevano piagnevano; e d’altra parte dinanzi alla casa del morto co’ suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini ed altri cittadini assai, e secondo la qualitá del morto vi veniva il chericato[20], ed egli sopra gli omeri[21] de’ suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta[22] anzi la morte n’era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocitá della pestilenza, o in tutto o in maggior parte quasi cessarono ed altre nuove in lor luogo ne sopravvennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n’eran di quegli che di questa vita senza testimonio trapassavano: e pochissimi erano coloro a’ quali i pietosi pianti e l’amare lagrime de’ suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s’usavano per li piú risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte posposta la donnesca pietá per salute di loro, avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro i corpi de’ quali fosser piú che da un diece o dodici de’ suoi vicini alla chiesa accompagnati; li quali non gli orrevoli[23] e cari cittadini, ma una maniera di beccamorti sopravvenuti di minuta gente, che chiamar si facevan ‘becchini’, la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara[24], e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte disposto, ma alla piú vicina le piú volte il portavano, dietro a quattro o a sei cherici con poco lume, e talfiata[25] senza alcuno; li quali con l’aiuto de’ detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo uficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata[26] trovavano piú tosto il mettevano. Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno: per ciò che essi, il piú o da speranza o da povertá ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano, e non essendo né serviti né aiutati d’alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione tutti morivano. Ed assai n’erano che nella strada publica o di dí o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de’ lor corpi corrotti che altramenti facevano a’ vicini sentire sé esser morti: e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno. Era il piú da’ vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de’ morti non gli offendesse, che da caritá la quale avessero a’ trapassati. Essi, e per se medesimi e con l’aiuto d’alcuni portatori, quando averne potevano, traevano delle lor case li corpi de’ giá passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n’avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, e tali furono che per difetto di quelle sopra alcuna tavola ne ponieno[27]. Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente; né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie ed il marito, li due o tre fratelli, o il padre ed il figliuolo, o cosí fattamente ne contenieno. Ed infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quattro bare, da’ portatori portate, di dietro a quella: e dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n’avevano sei o otto, e talfiata piú. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati, anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre; per che assai manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi danni a’ savi mostrare doversi con pazienza passare, la grandezza de’ mali eziandio i semplici far di ciò scorti e noncuranti. Alla gran moltitudine de’ corpi mostrata, che ad ogni chiesa ogni dí e quasi ogni ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio secondo l’antico costume, si facevano per li cimiteri delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravvegnenti[28]: ed in quelle stivati, come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che della fossa al sommo si pervenìa. (…)”
(G. Boccaccio, Decameron, I, Intr., 21-48)
Non dissimile il quadro di totale asocialità, cui è connessa una rinnovata barbarie, che Manzoni descrive nei Promessi sposi:
“Un tal ordin di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo, ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più nessuno che li tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d’ogni cosa. Entravano da padroni, da nemici nelle case, e, senza parlar de’ rubamenti, e come trattavano gl’infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le mettevano, quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano riscattati con danari. Altre volte, mettevano a prezzo i loro servizi, ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti, a meno di tanti scudi. Si disse (e tra la leggerezza degli uni e la malvagità degli altri, è ugualmente malsicuro il credere e il non credere), si disse, e l’afferma anche il Tadino (pag. 102), che monatti e apparitori lasciassero cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un’entrata, un regno, una festa. Altri sciagurati, fingendosi monatti, portando un campanello attaccato a un piede, com’era prescritto a quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s’introducevano nelle case a farne di tutte le sorte. In alcune, aperte e vote d’abitanti, o abitate soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man salva, a saccheggiare: altre venivan sorprese, invase da birri che facevan lo stesso, e anche cose peggiori. Del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento, e dall’agitazione delle menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti. E tutti servirono a rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell’unzioni, la quale, ne’ suoi effetti, ne’ suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un’altra perversità. L’immagine di quel supposto pericolo assediava e martirizzava gli animi, molto più che il pericolo reale e presente. ‘E mentre, – dice il Ripamonti, – i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città tutta come un solo mortorio, c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti… Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio’. La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i giudizi, alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca.”
(A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXII)
E proprio negli anni del colera a Roma, per lui intensissimi, Giuseppe Gioachino Belli legge I promessi sposi, un libro del quale scrive: “Cavata da tutte le parti una sostanza e da questa un’idea io dico in proporzione: questo è il primo libro del mondo”.
Troveremo entrambi, Belli e Manzoni, nel prosieguo del nostro ragionamento attingendo dalle loro descrizioni.
La pazzia collettiva e i due versanti della superstizione.
Come abbiamo appena letto, Manzoni rivela che assieme alla “perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento, e dall’agitazione delle menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti”. La pazzia collettiva prende la forma della superstizione, descritta come certamente già presente, anzi dominante, e tuttavia ora straordinariamente rafforzata e diffusa.
L’illuminista nipote di Cesare Beccaria descrive due versanti della superstizione, quello religioso legato al cattolicesimo e anche quello, per dir così, “laico” che si manifestò nella convinzione diffusa degli untori, una convinzione di massa a cui furono connessi altri crimini atroci che fecero vittime innocenti[29].
È manifestazione della superstizione religiosa la vicenda della grande processione che a Milano contribuì potentemente alla diffusione del contagio. Così Manzoni racconta come l’11 giugno 1630, in pieno contagio, si volle ad ogni costo promuovere una solenne processione, con ostensione del corpo di san Carlo Borromeo.
“Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un’altra: di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo. Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo (Memoria delle cose notabili successe in Milano intorno al mal contaggioso l’anno 1630, ec. raccolte da D. Pio la Croce, Milano, 1730). (…)
Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan replicando le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente. Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che poté il senno d’un uomo, contro la forza de’ tempi, e l’insistenza di molti. In quello stato d’opinioni, con l’idea del pericolo, confusa com’era allora, contrastata, ben lontana dall’evidenza che ci si trova ora, non è difficile a capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive degli altri. Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po’ di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano[30]. Certo, se in alcun caso par che si possa dare in tutto l’errore all’intelletto, e scusarne la coscienza, è quando si tratti di que’ pochi (e questo fu ben del numero), nella vita intera de’ quali apparisca un ubbidir risoluto alla coscienza, senza riguardo a interessi temporali di nessun genere.
Al replicar dell’istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov’eran rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni, sull’altar maggiore del duomo. Non trovo che il tribunale della sanità, né altri, facessero rimostranza né opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore. Prescrisse più strette regole per l’entrata delle persone in città; e, per assicurarne l’esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, affine d’escludere, per quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in un fatto di questa sorte, la semplice affermazione d’uno scrittore, e d’uno scrittore di quel tempo, eran circa cinquecento (Alleggiamento dello Stato di Milano etc. di C. G. Cavatio della Somaglia. Milano, 1653, pag. 482).
Tre giorni furono spesi in preparativi: l’undici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l’arti[31], precedute da’ loro gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno con l’insegne del grado, e con una candela o un torcetto in mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell’antico sembiante, quale lo rappresentano l’immagini, quale alcuni si ricordavan d’averlo visto e onorato in vita. Dietro la spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente prendiamo questa descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così ora anche di persona, veniva l’arcivescovo Federigo. Seguiva l’altra parte del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili, quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto, quali, in segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa[32] sul viso; tutti con torcetti. Finalmente una coda d’altro popolo misto. Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da de’ vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra i parati, c’eran de’ rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni, imprese; su’ davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità diverse; per tutto lumi. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati guardavan la processione, e l’accompagnavano con le loro preci. L’altre strade, mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l’orecchio al ronzìo vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio, qualche cosa. La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente[33], e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno.
Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. (…)”
La partecipazione di massa a quel rito moltiplicò in modo esponenziale e drammatico il contagio a Milano. Ma ciò, incredibilmente, rafforzò nel popolo la credenza degli untori come causa della peste, cioè l’esplosione di quella superstizione che abbiamo definito, non senza esitazione, “laica” in quanto non direttamente derivata dalla Chiesa.
Siamo dunque al momento dell’esplosione del contagio dopo la processione, e Manzoni annota:
“Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, né appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all’occhio così attento, e pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su’ muri, né altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell’altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de’ vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi. ‘Vide pertanto, – dice uno scrittore contemporaneo (Agostino Lampugnano, La pestilenza seguita in Milano, l’anno 1630, Milano 1634, pag. 44.), – l’istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l’empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l’acquisto’. Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sé.
Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, ‘per le diligenze fatte’, dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de’ morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da’ registri civici, oltre quelli di cui non si poté tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso.”
Eppure qualcuno capiva, e sapeva la verità, ma taceva:
“Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, ché nessuno fu abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo ribattono, come un pregiudizio d’alcuni, un errore che non s’attentava di venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia per tradizione. ‘Ho trovato gente savia in Milano, – dice il buon Muratori, nel luogo sopraccitato, – che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi’. Si vede ch’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune.”
(A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXII)
Non direttamente legata né alla religione né alla superstizione popolare è la diversa pazzia che si manifesta nel negazionismo.
Così Alessandro Manzoni descrive il negazionismo di don Ferrante, un uomo di cultura del suo tempo, il marito di donna Prassede che ospitò Lucia:
“Di donna Prassede, quando si dice ch’era morta, è detto tutto; ma intorno a don Ferrante, trattandosi ch’era stato dotto, l’anonimo[34] ha creduto d’estendersi un po’ più; e noi, a nostro rischio, trascriveremo a un di presso quello che ne lasciò scritto.
Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione. – In rerum natura[35], – diceva, – non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera[36]. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da’ venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha veduto? chi l’ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all’altro; ché questo è il loro achille[37], questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida[38] di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, dànno in Cariddi: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci…? – Tutte corbellerie, – scappò fuori una volta un tale. – No, no, – riprese don Ferrante: – non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti[39], son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano. (…) La c’è pur troppo la vera cagione, – diceva; – e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria… La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino…? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?… Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?
His fretus[40], vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle. E quella sua famosa libreria?[41] È forse ancora dispersa su per i muriccioli.” (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXVII)
Questa scienza à la don Ferrante (chiamiamola così), che per sua stessa natura si restringeva ai ceti aristocratici ignorando e rifiutando il compito di combattere l’ignoranza delle masse popolari, non era certo in grado di contrastare la superstizione, in nessuna delle due forme che abbiamo considerato.
Eppure il contagio c’è, e uccide.
E tuttavia i fatti hanno la testa dura, e viene un momento in cui anche i negazionisti sembrano dover tacere. Li azzittiscono i morti. Sarebbe chiedere troppo voler ricevere da loro delle sincere autocritiche, il silenzio è il massimo che costoro siano capaci di concedere, e anzi nel caso nostro del Covid i peggiori negazionisti non hanno avuto neanche l’onestà, o il pudore, del silenzio.
Eppure sarebbe giusto pretendere da loro delle scuse perché la loro pubblica e reiterata negazione del contagio non è stata affatto innocente, dato che ha spinto molti a trascurare le necessarie precauzioni, ad ammalarsi, a contagiare innumerevoli altri, insomma a favorire le morti. Non si può non chiedersi quanti morti abbia provocato ogni apparizione televisiva negazionista, ogni raccolta di firme di autorevoli negazionisti, ogni irresponsabile manifestazione di piazza negazionista a lucrare un po’ di voti di gente incazzata per la chiusura dei propri bar e dei propri ristoranti, ogni arrogante urlo negazionista emesso dai palchi o dai seggi del Parlamento. Se non ci fossero di mezzo tante sofferenze e tanti morti che si sarebbero potuti evitare, ci sarebbe da ridere vedendo chi aveva affermato trattarsi di una semplice influenza causata da un virus ormai inesistente (anzi ormai morto) affrettarsi a ricoverare (non al lazzaretto) e a curare (non con l’aspirina) il suo padrone quando costui venne colpito da quel virus ormai inesistente (anzi ormai morto). I più religiosi possono trarre dalle malattie di Trump, Johnson, Bolsonaro, Berlusconi, Briatore etc. la prova dell’esistenza di Dio, così come i più irreligiosi possono trarre dalla guarigione di costoro la prova della non onnipotenza di Dio.
Ancora una volta la penna magistrale di Alessandro Manzoni descrive il processo lento e contraddittorio che conduce dalla negazione al riconoscimento del contagio, e ai primi incerti provvedimenti che lo stesso ritardo rende purtroppo inutili:
“Ma il soldato[42] ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare. Il primo a cui s’attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s’ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio. Nella città, quello che già c’era stato disseminato da costoro, da’ loro panni, da’ loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c’entrava di nuovo, per l’imperfezion degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e ne’ primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento.
Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso. Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati. Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione del pubblico, ‘della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe’, dice il Tadino; persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto.”
(…)
“Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferìa di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale.”
(…)
“C’era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci fosse. E perché, tanto nel lazzeretto, come per la città, alcuni pur ne guarivano, ‘si diceua’ (gli ultimi argomenti d’una opinione battuta dall’evidenza son sempre curiosi a sapersi), ‘si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perché tutti sarebbero morti’ (Tadino, pag. 93.).
Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In una delle feste della Pentecoste, usavano i cittadini di concorrere al cimitero di San Gregorio, fuori di Porta Orientale, a pregar per i morti dell’altro contagio[43], ch’eran sepolti là; e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci andavano, ognuno più in gala che potesse. Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla.
In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro. Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere.
Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire.”
(A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXI)
Manzoni apre anche la pagina particolarmente dolorosa dell’odio e delle vere e proprie persecuzioni di cui furono vittima quei pochi medici che, inascoltati, denunciarono per tempo il contagio e i suoi pericoli:
“L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, d’affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d’incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, e d’essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus, dice il Ripamonti. Di quell’odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d’ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento. Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore di medicina all’università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d’altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e per il rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza s’aggiungeva quella della vita, e all’ammirazione la benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficare i poveri. E, una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di stima ispirato da questi meriti, ma che allora doveva renderlo più generale e più forte, il pover’uomo partecipava de’ pregiudizi più comuni e più funesti de’ suoi contemporanei: era più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che attira i guai, e fa molte volte perdere l’autorità acquistata in altre maniere. Eppure quella grandissima che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo caso, l’opinion di quello che i poeti chiamavan volgo profano, e i capocomici, rispettabile pubblico; ma non poté salvarlo dall’animosità e dagl’insulti di quella parte di esso che corre più facilmente da’ giudizi alle dimostrazioni e ai fatti. Un giorno che andava in bussola[44] a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina. Questo gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone (…).” [45]
- Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXI)
Non fu questo l’unico o l’ultimo caso in cui medici scrupolosi e preveggenti incorsero nella collera plebea perché ritenuti autori del male che si limitavano a descrivere, e anzi cercavano di contrastare.
Teodonio (2021, p. 000) ricorda che a Pietroburgo, il 5 luglio 1831, la plebe attaccò la carretta che trasportava i malati, uccidendo due medici ritenuti avvelenatori (veleno gettato nei pozzi o distribuito nei cibi) e dunque responsabili del colera. Ci furono anche assalti a parecchi ospedali che furono distrutti e numerosi medici e infermieri rimasero uccisi nei tumulti.
Uno di questi casi ci riguarda da vicino perché riguarda Roma nel corso dell’epidemia descritta da Belli. Si tratta del dottor Agostino Cappello (1784-1858), di Accumoli, che conosceva bene il colera sia per la sua scienza (e i suoi studi, anche sperimentali[46]) sia per essere stato inviato a studiare l’epidemia a Parigi dove questa si era manifestata prima che in Italia. Ne trasse un’indicazione abbastanza precisa sui rapporti fra le disastrose condizioni igieniche e il colera:
“Dalle mediche istorie che fin qui possediamo delle choleriche infezioni emerge la crassazione maggiore del morbo e la pluralità dei decessi nei locali di soverchie riunioni, negli abituri non netti, poco aereati e soggetti ai nocivi effluvj e presso la classe del popolo negligente e neghittoso. D’altronde è sempre stato univoco il complesso delle proposte misure igieniche e incessantemente inculcate di nettezza individuale, sociale e pubblica; di attivazione de’ cimiteri fuori dall’abitato; di rimozione dei letami, di acque sordide, di sostanze putrescibili e graveolenti, di divieto di cibi malsani e simili.”[47]
Sul colera Cappello produsse anche una pubblicazione[48], propose un codice sanitario europeo per condividere conoscenze ed esperienze contro il contagio, invocò invano una pedagogia igienica rivolta alle masse specie ad opera del clero[49], e soprattutto si impegnò in prima linea a curare i malati a Roma e anche ad Ancona[50], restando anche lui contagiato dalla malattia (a cui però sopravvisse).
Ma ciò che ce lo rende francamente simpatico (a quando una statua dedicata da Roma capitale ad Agostino Cappello, magari al Policlinico o allo Spellanzani?) è il fatto che egli abbia di fatto rifiutato (smistandola a una cognata e senza neppure ringraziare) la medaglia d’oro coniata dal papa dopo la fine del colera, con l’effigie del papa e nel rovescio in mezzo a una corona di quercia l’epigrafe “SOLATORI AEGROTATORUM[51] ANNO 1837”, con il nome dei benemeriti destinatari inciso intorno. Così Teodonio racconta questa vicenda:
“Cappello, che davvero non si smentisce mai, reagì all’iniziativa (siamo nell’aprile dell’anno successivo, 1838): ‘Assai più tardi ancora (30 aprile) pervenivami un dispaccio del signor Cardinal Sala presidente dell’incolumità con una medaglia d’oro di circa scudi 15. Ma siccome cotesto onore fu comune a persone che fuggirono o si nascosero nel tempo del cholèra e contribuirono con istudio all’inerzia dell’incolumità, non ostante gli avessi dall’Odescalchi etc. etc. etc., così io neppure ringraziai il signor cardinale, e regalai la medaglia ad una mia cognata perché l’attaccasse alla sua corona.’
E non è tutto, perché lo sdegno di Cappello si mostra ancor più risentito quando scopre un altro aspetto della vicenda: ‘Sembra poi incredibile che al dottor Aldege[52], che abbiamo nell’epoca del cholèra veduto così operoso nel separare in apposito ospedale e nel curare i cholerosi ebrei, venisse negata una medaglia d’argento: perché gli officj da esso prestati con tanta alacrità e con felici risultamenti non riguardavano gli ammorbati cristiani!!’ (…)”[53]
Eppure questo dimenticato eroe della sanità pubblica, un giorno, poco a nord di Falconara Marittima, rischiò di essere buttato nel fiume dai cittadini inferociti che identificavano in lui il responsabile dei deprecati cordoni sanitari; e una sera, tornando tardi dopo la quotidiana riunione con gli altri medici, venne assalito sulle scale di casa da un sicario armato di coltello al quale a stento riuscì a sfuggire[54].
Dunque il professor Massimo Maggi, e quelli come lui che ci hanno detto la verità sul Covid meritandosi il linciaggio della stampa confindustriale delle tv berlusconiane, si consolino: storicamente sono in ottima compagnia.
La nostra società nello specchio del Covid.
L’effetto della pestilenza come specchio rivelatore lo abbiamo visto all’opera anche nella pandemia Covid. Cerchiamo di guardare in questo specchio.
Gramsci ci ha insegnato che nelle fasi di crisi le classi dominanti ritornano a una loro fase “economico-corporativa”, cioè esprimono in forma immediata e ristretta i propri interessi di classe rinunciando di fatto a rivestirli di qualsiasi aspetto egemonico. Non è forse questo il significato della presidenza Trump? E la differenza fondamentale fra Obama e Trump non consiste forse nella esplicita rinuncia da parte del capitalismo americano del tentativo di rivestire di egemonia il suo dominio, di apparire diverso da ciò che è?
Ebbene, questa riduzione alla più ristretta essenza corporativa dei propri interessi di classe si è vista oscenamente all’opera anche nel comportamento della borghesia italiana durante la crisi coronavirus. Gli industriali lombardi e italiani, accompagnati dai loro servi nella politica e nei media, non hanno esitato a imporre durante le fasi più perniciose del contagio la prosecuzione delle attività produttive, anche se questo costava (e loro lo sapevano bene) migliaia di morti fra i lavoratori. Così, in piena epidemia, il sindaco di Bergamo Gori (del Pd, già Mediaset e già regista della Leopolda renziana) invitava i suoi concittadini ad andare tranquilli tutti a cena fuori (e quella città ha quintuplicato il numero dei morti), e il sindaco di Milano esortava a farsi uno spritz indossando una bella maglietta “Milano non si ferma”, mentre l’Innominabile ex-sindaco di Firenze ancora il 28 marzo proponeva: “Le fabbriche riprendano prima di Pasqua, le scuole il 4 maggio”[55].
L’ineffabile assessore lombardo Gallera[56] (quello che ha mandato i malati di Covid nelle Residenze per Anziani facendone strage) ha apertamente confessato di aver ricevuto numerose pressioni da parte dei suoi amici industriali affinché non si sognasse neppure di creare “zone rosse” che avrebbero danneggiato il business.
Mentre la condanna delle stupide movide dei ragazzi fungeva da arma di distrazione di massa, circa duemila aziende nel bresciano e qualche centinaio in meno perfino a Bergamo, hanno inoltrato formale richiesta per continuare la propria attività durante la chiusura da coronavirus.
Correre nei giardini era considerato irresponsabile, ma affollare le metro e gli autobus per andare al lavoro e lavorare alle catene di montaggio andava più che bene. Tutto ciò, sommato naturalmente alla distruzione formigoniana della sanità pubblica lombarda, ha dato a quelle zone lo spaventoso record europeo e mondiale dei contagiati e dei morti di Covid. Si noti che il bresciano presidente della Confindustria lombarda Marco Bonomi, l’11 marzo (con centinaia di contagi e di morti nella sua città e nella sua regione) dichiarava “indispensabile la necessità di tenere aperte le aziende, dando continuità a tutte le attività produttive e alla libera circolazione delle merci”; ebbene, costui è stato poi eletto presidente della Confindustria italiana, a conferma che quella linea apparteneva agli industriali italiani nel loro complesso.
Non a caso i giornalisti che a questi poteri fanno capo hanno dato in occasione della pandemia il peggio di sé: campagne strumentali, aggressione sistematica a un Governo percepito come non abbastanza obbediente o addirittura disobbediente, occultamento e deformazione dei dati e delle notizie, e anche vere e proprie menzogne; senza offendere i giornalisti bravi e coraggiosi (ce ne sono) e talvolta anche amici, credo si debba dire della categoria dei giornalisti nel suo complesso che essa rappresenta un vero problema, e ormai una grande vergogna, della democrazia italiana[57].
D’altronde la medesima linea genocida a proposito del Covid praticata dalla Confindustria e dalla giunta lombarda è stata espressa a livello internazionale da Trump, da Johnson, da Macron, da Bolsonaro & Co. La coincidenza di atteggiamenti nei confronti del Covid di tutti costoro è, naturalmente, della massima importanza: è ormai un insopportabile vezzo alla moda sostenere che non c’è differenza più alcuna fra destra e sinistra. Si tratta di una sciocchezza, ma è una sciocchezza non innocente: Cuba[58] che manda i suoi medici a rischiare la vita per aiutare i cittadini di uno Stato lontano come l’Italia (uno Stato che peraltro – vergognosamente – continua a partecipare al criminale bloqueo comandato dal padrone statunitense) non si è comportata nello stesso modo dei governi che hanno preferito esporre i propri cittadini al contagio e alla morte per non danneggiare il proprio business. Forse la sinistra (almeno in Italia) non esiste, ma la destra fra i governanti del mondo capitalistico esiste, eccome. E l’atteggiamento rispetto al Covid rappresenta un confine netto e inequivocabile: da una parte i negazionisti come la Confindustria, gli Sgarbi, i Taormina, i Briatore, i Meluzzi, i Cruciani, i neo-fascisti di Forza Nuova e Casa Pound, gli amministratori locali legaioli, gli opinions makers di Mediaset, sorretti dai medici berlusconiani del San Raffaele[59] etc.; dall’altra le persone per bene. Nessuna mediazione e nessuna neutralità è possibile fra questi due campi. Come scrive Vittorio Agnoletto:
“Nei mesi in cui la pandemia dilagava in tutto il mondo abbiamo assistito, a livello globale, al confronto esplicito di due visioni del mondo tra loro antitetiche. Quella della globalizzazione neoliberista fondata sulla concorrenza, sull’ideologia della mors tua, vita mea e sulla ricerca del massimo profitto e un’altra, alternativa, che mette al centro l’universalità dei diritti e che affonda le sue radici nella storia dei movimenti del terzo millennio. Un esempio? Medici cubani, cinesi, rumeni, venezuelani e albanesi sono arrivati in Italia per aiutarci nella lotta contro l’epidemia da Coronavirus. Nelle stesse settimane Donald Trump ha acquistato in anticipo tutte le dosi di Remdesivir, il farmaco utile nelle fasi avanzate della malattia, che la Gilead produrrà nei prossimi tre mesi. Gli altri Paesi dovranno arrangiarsi.”[60]
E Letizia Moratti, quando si è manifestata la necessità di scegliere chi vaccinare prima contro il Covid, non ha esitato a sostenere che un criterio di precedenza doveva essere rappresentato non dal fatto di lavorare negli ospedali, nelle carceri o nelle scuole, non dall’essere affetti da malattie pregresse o neplasie, non dall’età avanzata che comporta per i contagiati la morte, ma… dal contributo che la regione in cui si vive fornisce al Prodotto Interno Lordo del Paese.
La borghesia ha mostrato insomma nello specchio della crisi coronavirus il suo vero volto, ed è il volto della ferocia classista.
La grande poesia di Belli come specchio.
Per cercare di guardare meglio nel nostro specchio ci siamo giovati in particolare della grande poesia di Giuseppe Gioachino Belli, il quale a ridosso di un’epidemia esplosa a Roma scrisse un gruppo di sonetti intitolato Er còllera mòribbus. Converzazzione a l’osteria de la ggènzola
indisposta e ariccontata co ttrentaquattro sonetti[61], e tutti de grinza[62].
Si tratta di 34 sonetti legati fra loro non solo dall’identico filo tematico ma anche dai nomi ricorrenti degli interlocutori e dalla medesima situazione enunciativa, li si può dunque considerare come una sorta di poemetto unitario all’interno dell’opera belliana. I sonetti del Còllera mòribbus sono scritti dal 4 agosto 1835 al 24 settembre 1836, dunque nel pieno dell’epidemia di colera a Roma. Gli interlocutori, che parlano del morbo nell’osteria della Gensola detta anche della Giuggiola (in Trastevere), sono “otto uomini e una donna e poi quattro servitori anonimi”[63].
Si tratta dell’epidemia di colera che sconvolse l’Europa propagandosi dalla Russia, in cui era comparsa nel 1831, grazie – come al solito – alle guerre e alla fame. Il morbo, passando per la Spagna e la Francia (a “Ninza” fece “piazza pulita”), colpì Roma a partire dal 1835 facendo una strage. Ma già nel marzo 1834, in un sonetto intitolato Li beccamorti (I becchini), Belli aveva messo in scena la paradossale speranza che la diffusione del colera rappresentava per i becchini disoccupati, un esempio strepitoso di quella relativizzazione, anzi rovesciamento, del punto di vista che vive così spesso nella poesia belliana:
Li bbeccamorti (18 marzo 1834)
E cc’affari vòi fà? ggnisuno more:
sto po’ d’aria cattiva è ggià ffinita:
tutti attaccati a sta mazzata vita…
Oh vva’ a ffà er beccamorto con amore!
Povera cortra[64] mia! sta llí ammuffita.
E ssi vva de sto passo, e cqua er Ziggnore
nun allúmina un po’ cquarche ddottore,
la profession der beccamorto è ita.
L’annata bbona fu in ner disciassette.[65]
Allora sí, in sta piazza, era un ber vive,
ché li morti fioccaveno a ccarrette.
Bbasta…; chi ssa! Mmatteo disse jjerzera
c’un beccamorto amico suo je scrive
che cc’è cquarche speranza in sto Collèra.
La vicenda dell’epidemia è ricostruita in modo esemplare da un lavoro di Marcello Teodonio, il nostro massimo cultore del Belli, di cui ci siamo largamente giovati[66]. Teodonio non solo descrive storicamente, si può dire giorno per giorno, quel contagio, ma fornisce le cifre, il dibattito medico-scientifico sul colera, i provvedimenti e le omissioni del potere, gli atti pubblici relativi e le testimonianze dei contemporanei, intrecciando tutto ciò con l’opera e la biografia di Belli[67].
Quelli sono anni decisivi nella vita del poeta, anni in cui fra l’altro, proprio nel 1837, perse la moglie Maria Conti vedova Pichi (1778-1837) che aveva sposato nel 1816; con essa Belli perse anche la sua relativa agiatezza economia ripiombando in una situazione di precarietà. È in quel periodo che Belli stese il suo celebre testamento in cui – fra l’altro – comandava di bruciare la sua opera poetica (fortunatamente non obbedito dall’amico monsignor Vincenzo Tinazzi). Forse non è da sottovalutare la circostanza che il padre di Belli, Gaudenzio, fosse morto di peste (nel 1802) e che fra le non indimenticabili opere poetiche in volgare del Belli si annoveri un’opera intitolata La pestilenza stata in Firenze l’anno di nostra salute 1348, tre canti in terzine “prosternati” “al cospetto della misteriorsa giustizia divina”[68].
Ne deriva l’affresco non solo di una vicenda ma di un’epoca, e Teodonio non manca di ricordare – sempre allegando i testi – che quello stesso contagio coinvolse Giacomo Leopardi, il quale a Napoli probabilmente ne morì, e tanti altri, come ad esempio Francesco De Sanctis, allora giovane studente fuori-sede, che si affrettò a fuggire dal colera di Napoli verso casa sua a Morra, esattamente come avrebbero fatto i nostri studenti fuori-sede fuggendo dal Covid e da Milano verso le loro case al Sud nel marzo 2020.
Non c’è dubbio che l’arte di Belli rappresenti quello specchio ideale che cercavamo; cos’altro è se non un effetto-specchio il programma che Belli pone a fondamento della sua poesia: “Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che è oggi la Plebe di Roma”? E in effetti nei suoi 2279 sonetti si riflettono nello specchio della verità le parole, e ancor più i pensieri, del popolo come in nessun altro luogo delle nostre lettere. Ciò è tanto vero che Belli mette in scena, con fedeltà ed efficacia straordinarie, anche le idee che personalmente non condivide (come si evidenzia proprio in alcune sue note ai sonetti del ciclo Còllera mòribbus).
Già nel titolo, deformando il latino cholera morbus (il sintagma con cui quell’epidemia fu designata dai contemporanei), Belli denuncia l’interpretazione religiosa-superstiziosa che vedeva nella malattia la punizione divina (còllera) riferita ai costumi ma alludendo alla morte, giacché nel latinorum della plebe romana la parola moribbus non evocava certo il morbus e tantomeno i costumi (mores-um) bensì, per assonanza, i morti: “Che mmòribbus siggnifica se more”[69].
A partire dal testo dell’edizione critica, noi ci siamo limitati ad aggiungere poche nostre parche note, soprattutto per favorire la lettura dei non-romani. Tuttavia siamo convinti che l’annoso problema della difficoltà di leggere Belli da parte dei non-romani si ponga oggi in modo assai diverso di quanto non fosse in passato, essendo stato il romanesco negli ultimi decenni largamente diffuso da tanti film e tantissime performances di attori romani (Alberto Sordi e Gigi Proietti primi fra tutti) oltre che, in generale, dalla “commedia all’italiana”. Ci permettiamo comunque di consigliare, a chi conservasse qualche difficoltà con la lingua di Belli, di leggere ad alta voce i sonetti[70], convinti come siamo che questa soluzione sia efficace e largamente preferibile alla “traduzione” in italiano della poesia belliana, la quale è intraducibile come tutta la poesia.
Ma soprattutto abbiamo rifatto ex novo i titoli dei sonetti e ne abbiamo cambiato l’ordinamento. Infatti il contrappunto della nostra vicenda contemporanea con la poesia di Belli si articola per noi in cinque temi (o capitoli): a) Il negazionismo. b) L’ignoranza dei dotti. c) Provvedimenti (che non provvedono) e rimedi (che non rimediano). d) La superstizione dei religiosi. e) La ferocia dei potenti.
I versi belliani, nella loro straordinaria verità, possono costituire il contrappunto migliore per le posizioni (ahimè, così incredibilmente simili) espresse ai nostri tempi.
a) Il negazionismo (ovvero: i don Ferrante del XXI secolo).
Come si ricorderà, Manzoni sottolinea che il negazionismo di don Ferrante è sostenuto “non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti”, cioè con sillogismi aristotelici, che erano a loro modo, e per il loro tempo, scientifici. Il negazionismo di don Ferrante, esattamente come quello dei nostri contemporanei, per poter esistere deve infatti presentarsi in qualche modo sotto le apparenze della scienza (sia pure, nel nostro caso, la “scienza” delle fake news e degli “esperti” in tv) e, esattamente come il negazionismo dei nostri contemporanei, deve però anzitutto ignorare, anzi negare, i fatti.
La negazione dei fatti è forse più facile e diffusa oggi che non al tempo di don Ferrante, perché essa ha oggi nelle vele il vento del dominante niccianesimo di massa del postmoderno (“Non esistono fatti, ma solo interpretazioni”). Così ai nostri negazionisti, ai don Ferrante del XXI secolo, basta semplicemente negare un fatto, il fatto di 2 milioni e mezzo di casi di Covid in Italia e, soprattutto, il fatto di 75.000 morti che, ancora nel dicembre 2020 mentre scrivo, aumentano di circa 500 unità al giorno[71]. Ancor più è stato da loro negato il fatto che i lockdown in Italia abbiano ridotto assai sensibilmente il numero dei contagi e delle morti. Troppo più importante per loro era un altro fatto, cioè che i lockdown danneggiassero il business, le industrie, il turismo e i commerci.
“Io ritengo che in questo momento in Italia il rischio di contrarre questo virus è 0, perché il virus non circola. […] Al momento, il virus in Italia non sta circolando, quindi ci si può preoccupare dei fulmini, delle alluvioni, ma di quel virus in questo momento no; ” (Che tempo che fa (Fazio), Rai2, 2 febbraio 2020).
“Rischio per l’Italia? Zero. È più giusto preoccuparsi dei fulmini, delle alluvioni. La mascherina? Io non me la sono comprata. Se oggi uno volesse uscire a contagiarsi, non potrebbe farlo. Quindi è inutile parlarne.” (E Myrta Merlino: “Impossibile suicidarsi con il Coronavirus. Questo sta dicendo Burioni”. “Ah ah ah ”, replica Burioni.” (cit. in Scanzi 2020, p. 35).
“Meglio il Covid-19 della AS Roma”.
(prof. Roberto Burioni, docente dell’università Vita-Salute San Raffaele di Milano, ospite fisso di Fabio Fazio e autore di Virus, la grande sfida. Dal coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l’umanità, Milano, Rizzoli, 2020, oltre che di una collana scientifica venduta con il “Corriere della Sera”).
“È da maggio che non arriva un paziente in rianimazione. Le discoteche? Si può ballare con le mascherine. E a settembre tutti a scuola! (…) Di Covid c’è ancora qualche caso grave sporadicissimo, ma ormai è diventata veramente molto simile a una forma influenzale. Non c’è stata una seconda ondata di Coronavirus, si tratta di una coda, peraltro prevedibile. È il caso di fare tanto ‘sciato’ come si dice a Genova, tutto questo casino?”.
(prof. Matteo Bassetti, direttore del reparto malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova, al terzo posto nella classifica dei virologi presenti in tv, autore del libro Una lezione da non dimenticare, Rcs-Cairo, 2020).
“Oggi è il 28 giugno e tutti gli indicatori sono assolutamente favorevoli”. Quanto ai nuovi focolai in Italia “non hanno alcun significato per me. In Florida c’è stata un’esplosione di infezione, quindi di soggetti infettati ma non malati. Anzi, la mortalità è passata dal 6,7 allo 0,4. In Italia abbiamo una serie di focolai che vanno controllati e identificati ma non equivalgono al focolaio di malattia. Ho parlato con Napoli, dove c’è stata la finale di coppa Italia e la paura di assembramento e non c’è un malato al Cotugno o al Monaldi.”
(nella trasmissione di Lucia Annunziata Mezz’ora in più, su Rai3, 28 giugno 2020).
“Lo ribadisco: il virus è clinicamente morto. Nessuno è riuscito a contraddirmi” (…) “Il 18 aprile scorso è una data importante: quel giorno è stato l’ultimo in cui in un grande istituto ospedaliero di Milano abbiamo avuto un malato grave ricoverato in terapia intensiva, con i sintomi del Sars-Cov-2. Da allora in poi non abbiamo più avuto malati con quel tipo di sintomatologia”.
(prof. Alberto Zangrillo, primario di anestesia e terapia intensiva dell’ospedale Vita-Salute San Raffaele di Milano, al convegno «Covid-19 in Italia, tra informazione, scienza e diritti», 28 luglio 2020, organizzato al Senato da Vittorio Sgarbi & Co. Successivamente lo stesso Zangrillo ha ricoverato e curato Silvio Berlusconi, di cui è medico personale, che era stato colpito dal virus “clinicamente morto”).
“Le notizie sulla diffusione del virus e le prescrizioni che a partire da domenica hanno limitato tanti aspetti della nostra vita e hanno generato un clima di preoccupazione che è andato molto al di là del necessario. (…) Sono convinto che un virus non fermerà Bergamo, né oggi né in futuro, e noi che amiamo questa città dobbiamo ridarle presto coraggio e vivacità. Con questo spirito stasera ho proposto a mia moglie Cristina di venire a cena da Mimmo (un classico per noi bergamaschi) per passare una bella sera insieme e dare un piccolo segnale: per dire a noi stessi, e per dire a tutti, FORZA BERGAMO!”.
(Giorgio Gori, Sindaco di Bergamo, Pd, ex Mediaset, regista della Leopolda di Renzi. “L’edizione del 13 marzo dell’Eco di Bergamo contiene ben dieci pagine i necrologi. Il 16 marzo, il forno crematorio cittadino non è in grado di far fronte alla cremazione di tutte le salme che si contano. Il 17 marzo sono esauriti i posti in rianimazione al Papa Giovanni XXIII di Bergamo. (…) Il 19 marzo circola l’immagine dei 30 camion dell’Esercito che attraversano Bergamo trasportando 65 bare dirette in Emilia Romagna per la cremazione.” Cit. in Agnoletto 2020, pp. 32, 45-46).
“Ma perché dovrebbe esserci una seconda ondata di contagi? ’Sta roba che stanno dicendo: ‘Attenzione, attenzione! E a ottobre… e a novembre…’, è inutile continuare a terrorizzare le persone!”
(Matteo Salvini, 25 giugno 2020)
“Covid, covid… Covid, covid, covid… Covid… Dal quattro novembre non ne sentirete più parlare.”
(Donald Trump, ottobre 2020. Nel gennaio 2021 i casi di Covid registrati negli USA erano (secondo il “New York Times”) 25,6 milioni, e i morti attribuiti ufficialmente al Covid – dunque forse meno della realtà – erano 429.000, dunque più del totale dei morti statunitensi, fra militari e civili, della Seconda guerra mondiale, che ammontano a 405.339)
Qua da noi non ci viene.
n.1575 (1749), 4 agosto 1835
Bbasta, o sse chiami còllera o ccollèra,
io sce ggiuco la testa[72] s’un baiocco
che sta pidemería, sarvo me tocco[73],
cqua da noi nun ce viè, sippuro[74] è vvera.
Nun zentite l’editto?[75] che cchi spera
ne la Madon de mezz’agosto è un sciocco
si nn’ha ppavura?[76] E cce vò ddunque un gnocco,
sor Marchionne, a accorasse in sta maggnéra[77].
Disce: ma a Nninza fa ppiazza pulita.
Seggno che cqueli matti mmaledetti
nun ze sanno avé ccura de la vita.
S’invesce de cordoni e llazzaretti[78]
se sfrustassino er culo ar Caravita[79],
poteríano bbruscià ppuro li letti[80].
Il rimedio è stare di buon umore.
n.1579 (1753) 10 agosto 1835
Senti, Tribbuzzio[81]: a ddilla cqui, a rrigore,
io sto ccor zor Marchionne e cco Cciriàco,
perché ssò ddar curato de Subbiaco
che mmòribbus siggnifica se more[82].
De resto der collèra io me ne caco[83];
e avenno inteso a ddí ppiú d’un dottore
ch’er rimedio è lo stà de bbon umore,
maggno, ingrufo[84], spasseggio e mm’imbriaco.
Chi è ssuddito fedele e bbon cristiano,
s’ha da lassà ddirigge, e ffà ssortanto
quello che vvede praticà ar zovrano.
Te ggiuro da quer povero Sirvestro
che ssò[85], cch’io stimo st’infruenza quanto
er padroncino mio stima er maestro.
E che guaio sarà?
n.1591 (1765) agosto 1835
Io poi, regazzi mii, saranno vere
tante terrorità[86] cc’ariccontate,
ma, o ppezzi de vangeli o bbuggiarate[87],
nun me ne vojjo dà ggnisun penziere.
Vienghi, nun vienghi, sciarimedi er frate,
nun ciarimedi[88], lo porti er curiere,
nu lo porti… pe mmé c’è bbon bicchiere
da passà ffiliscissime ggiornate.
Tutta sta gran pavura d’ammalamme?
E cche gguaio sarà? Ttanto una vorta
o pprest’o ttardi ho da stirà le gamme[89].
Mica è una cosa nova che sse more;
e ttoccassi a mmé ppropio a uprí la porta,
l’èsse er primo[90], per dio, sempre è un onore.
C’era bisogno di tutta questa chiassata?
n.1602 (1776) 22 agosto 1836
Perché nnun c’ereno antri guai[91], stasera
scappeno fora[92] cor collèra a Ancona.
Mó, ammalappéna una campana sona,
sona a mmorto, e sto morto è de collèra.
Sarà ccrepata ar piú cquarche pperzona[93]
de fonghi, o dde lumache o ffichi o ppera…[94]
Ebbè, ddich’io, sc’era bbisoggno, sc’era,
de tutta sta chiassata[95] bbuggiarona?
Nun zerve, cqua er collèra, sor Rimonno[96],
se lo vanno a ccercà ccor moccoletto[97]:
lo chiàmeno, per dio!, propio lo vonno[98].
Quer ch’è ccerto è cc’a Ancona li facchini
se mòreno de fame, e mme l’ha ddetto
’na riverèa[99] de Monziggnor Pasquini[100].
b) L’ignoranza dei dotti.
“Nei prossimi 5 anni mancheranno 45.000 medici di base, ma chi va più dal medico di base, senza offesa per i professionisti qui presenti? Nel mio piccolo paese vanno a farsi fare la ricetta medica, ma chi ha meno di 50 anni va su internet e cerca lo specialista. Il mondo in cui ci si fidava del medico è finito.”
(Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega, agosto 2019, quando era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio)
“Gli immigrati africani sono anche più forti di noi. Fatemi vedere un migrante che è in ospedale col covid. Non ce ne sono. (…) I meridionali resistono di più al Coronavirus perché sono africani bianchi. è una questione genetica.”
(il 13/12/2020 a “La Zanzara”, Gianfranco Liprandi, Laurea in economia aziendale, Laurea in Giurisprudenza, imprenditore del settore metalmeccanico, consigliere di Forza Italia-PdL, deputato di Scelta Civica con Monti, poi nel gruppo da lui fondato “Civici e Innovatori”, poi rieletto nel 2018 con il Partito Democratico, e dal 2019 in Italia Viva[101]).
“L’assessore Giulio Gallera sembra non aver ancora compreso come avviene il contagio da Coronavirus; l’abbassamento dell’indice Rt allo 0,51, per Gallera, infatti significa che ‘per infettare me bisogna trovare due persone, nello stesso momento, infette’. ‘Questo significa che non è così semplice trovare due persone infette nello stesso momento per infettare me’, ha sottolineato. È superfluo spiegare che 0,51 è un dato puramente statistico, che indica semplicemente che, in media, ogni persona infetta ne contagia altre 0,51.”
(Cit. in Agnoletto 2020, p. 116)
“Vedo che il disinfettante distrugge il virus in un minuto. Un minuto. Non c’è un modo di fare qualcosa di simile, iniettandolo? Sarebbe interessante verificarlo.”
(D. Trump, presidente degli Usa, cit. in Scanzi 2020, p. 79; poi si è beccato il Covid pure lui, è stato curato e ne è guarito, ma senza iniettarsi il disinfettante.)
“Sapete cosa sono i quantum dots? No? Sono granelli microscopici di silicio che possono essere iniettati nel vostro sangue con i vaccini. Ebbene questi granelli di silicio sono costituiti ognuno da centinaia di miliardi di atomi e sono programmabili. Noi diventeremo così programmabili, però con un software che saranno altri a gestire.”
(Lorenza, ingegnere elettronico, 12 novembre 2020, nel network dei siti negazionisti che sono passati da un milione e mezzo di interazioni al mese del periodo pre-pandemia a oltre sette milioni, “Il Fatto Quotidiano”, 21 novembre 2020, p.6)
“Se ti vaccini e poi ti trasformi in un alligatore è un problema tuo.”
(J. Bolsonaro, Presidente del Brasile, contrario a distribuire i vaccini anticovid, 19/12/2020)
Colpisce tutti i ceti (ma si salvano le donne se devote a San Rocco).
n. 1577 (1751) 6 agosto 1835
Oh annàteve a rripòne[102], oh state quieti,
c’avete torto marcio tutt’e ddua.
Dar tett’in giú sta collera è una bbua[103]
che ddà de piccio[104] a ssecolari e a ppreti.
Ha ttempo er Crero[105] a ffà nnovene e asceti
de sette ladri[106]: monziggnor la Grua[107]
aricconta c’a Spaggna, a ccasa sua,
fu un mascello, e pijjò ttutti li sceti.
Sapete, sor Olivo e ssor Marchionne,
chi, cquanno mai[108], se pò ssarvà la pelle?
Sapete chi? vve lo dich’io: le donne.
Perché a Rroma le donne, o bbelle o bbrutte,
spesciarmente le vedove e zzitelle,
sò amiche de San Rocco[109] guasi tutte.
Impiegare l’esercito dei frati.
1581 (1755) 17 agosto 1835
Tutto va bbe’ ma cqui li cardinali
bbiastímeno[110] e sse tròveno imbrojjati
perché la truppa nun pò ddà ssordati
da mannalli a gguarní li littorali[111].
Dunque vonno ch’er popolo s’ammali
quanno la forza sc’è[112]? Ssiin’ammazzati!
E nun ciànno un esercito de frati
co li loro fetenti ggenerali?
E Ppassionisti, e Scolopi, e Tteatrini[113],
e Ppavolotti, eppoi Domenicani,
eppoi Serviti, eppoi Bbenedettini,
eppoi tante e ttant’antre bbaraonne[114]!
Bbasta de lassà stà li Francescani
pe nun fà rribbellà ttutte le donne[115].
Il contagio viene fuori dai polli dritto dritto.
n. 1584 (1758) 19 agosto 1835
Anzi, ar padrone mio j’ha ppropio scritto
da Bbologgna un zenzale de salame
che essennose scuperto[116] in ne l’Iggitto
che ppe l’Uropa sto collèra infame
viè ffora da li polli dritto dritto,
e ppò ancora infettà ll’antro bbestiame,
er Re de Napoli ha mmesso un editto
che ss’ammazzi ’ggni sorte de pollame.
Ma ppare che cquer povero Bertollo[117]
abbi fatto una lègge da cazzaccio
che in ner zu’ reggno nun ce resti un pollo.
E ssai io che pproggnostico je faccio[118]?
Che in quer frufrú[119] jje tireranno er collo
puro a llui pe ccappone[120] o gallinaccio.
Il colera viaggia anche per mare.
n. 1592 (1766) 31 agosto 1835
E cquello che ddisceva Titta[121] Papi,
ch’er collèra ha ppavura a annà ppe mmare?
Sentirete che bbuggera, compare,
e ssi cc’è da fidasse de sti ssciapi![122]
Io mó er collèra a Pponte Quattro-capi[123]
ho inteso da un zorgente[124] militare
che ggià ha ffatto mortissime caggnare[125]
ggnente meno c’all’isola de Crapi[126].
Dunque lui p’er marittimo sce viaggia:
perch’io credo c’all’isole navale
a un dipresso sce s’entri da la spiaggia.
Come poi viè cquer zervitore ingrese
je vojjo dí ssi[127] un’isola è un locale
che sse pòzzi isolà[128] ccome un paese.
Il colera ha forma di dragone con le corna.
n.1603 (1777) 29 settembre 1836
Antro che Ancona! quer futtuto male,
malgrado li rigori der cordone[129],
dava de griffo[130] a ccentomila Ancone,
senza er congeggno[131] der dottor Vïale.
Nun zapete che llui cor cannocchiale
vedde er collèra in forma de dragone,
e ggnisun antro medico cojjone
aveva mai scuperto st’animale?
Che bbrutta bbestia! Ha un par de corna armate
com’er demonio: porta l’ale: è ppiena
d’artijji[132], e nnera poi com’un abbate.
Figùrete che ssorte de sfraggello[133]
ha da fà in corpo a un pover’omo, appena
je s’arriva a ccaccià ddrent’ar budello!
c) Provvedimenti (che non provvedono) e rimedi (che non rimediano).
“Nell’ultimo decennio tutti i Governi hanno contribuito a sgretolare il servizio Sanitario nazionale”, il finanziamento pubblico è stato decurtato di oltre 37 miliardi di euro, di cui 25 miliardi di euro tra il 2010-2015 per tagli conseguenti a varie manovre finanziarie e oltre 12 miliardi di euro, tra il 2015 e il 2019 (…). I dati OCSE aggiornati al luglio 2019 dimostrano che l’Italia si attesta sotto la media OCSE, sia per la spesa sanitaria pro-capite totale (3.428 $ vs 3.980 $), sia per la spesa sanitaria pro-capite pubblica (2.545 $ vs 3.038 $) (…). Nel 2009 la Germania investiva nella spesa pubblica pro-capite ‘solo’ 1.167 $ (+50,6%) in più dell’Italia (3.473 $ vs 2.306 $), nel 2018 la differenza è di 2.511 $ (+97,7%), ovvero 5.056 $ vs 2.545 $.”
(Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, in “Il Quotidiano Sanità”, 16 settembre 2019)
“E la scure si è abbattuta anche sui posti letto, scesi da 230.396 del 2012 ai 210.907 del 2018, soprattutto a causa della chiusura dei piccoli ospedali (…) i medici di medicina generale sono passati da 45.437 a 43.731. Una flessione del 3,8% a livello nazionale ancora più accentuata nei territori più falcidiati dal virus: -5,6% in Lombardia, -6,4% in Piemonte, -5,3% in Veneto, -4,7 in Emilia, -6,5% nelle Marche, -8,9% in Liguria.”
(Marco Pasciuti, “Il Fatto Quotidiano”, 31 maggio 2020)
“Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il nostro Paese ha dimezzato i posti letto per i casi più acuti e la terapia intensiva, passati da 575 ogni 100 mila abitanti ai 275 attuali. Un taglio del 51% operato progressivamente dal 1997 al 2015, che ci porta in fondo alla classifica europea. In testa la Germania con 621 posti, più del doppio.”
(Rosy Battaglia, in Valori.it, 10 marzo 2020)
“In Lombardia il privato gestisce ben 68 strutture: 7.586 posti letto in tutta la Regione (contro i 28.384 del pubblico), di cui 380 in reparti di terapia intensiva – e macina ricoveri per 5,4 miliardi l’anno, visite ed esami ambulatoriali per 1,2. Quasi 7 miliardi di euro su 17,5 che è il budget totale della sanità lombarda.”
(A. Corica, “Repubblica”, 3 marzo 2020)[134].
“Gli erogatori della sanità privata (…) si aggiudicano il 35% dei casi di ricovero del 2017 (…) corrisponde al 40% del totale in euro speso dalla regione (…). Il sorpasso del privato sul pubblico era già avvenuto fin dal 2015 per quanto riguarda la diagnostica strumentale e per immagini (…); il privato incideva per il 52%. (…)”, “Ma dove stanno i soggetti erogatori privati? Gli innumerevoli Irccs privati e le strutture di ricovero di eccellenza private? In quale modo gli erogatori privati hanno contribuito fino ad oggi alla soluzione dell’emergenza Coronavirus? (…) Al 29 febbraio 2020 in Lombardia le strutture di ricovero e cura in prima linea nell’emergenza Coronavirus sono tutte pubbliche.”
(M. E. Sartor, 12 settembre 2019 e 6 marzo 2020, cit. in Agnoletto 2020, p.213)
“Il Corriere della Sera il 4 aprile dà notizia di 448 contagiati tra il personale sanitario degli Spedali civili di Brescia, 435 nelle strutture di Bergamo Est, tra le quali Alzano Lombardo e Seriate e annuncia che il San Raffaele è uno degli ospedali più colpiti. ‘Il report regionale aggiornato al 27 marzo inquadra i focolai emersi negli ospedali: In base al documento, fino a una settimana fa erano oltre 4 mila gli infermieri infetti.(…) Il personale ha chiesto per settimane di essere sottoposto a test così da non diventare inconsapevole veicolo del contagio. Ma la regione, dopo una fase iniziale, ha scelto di verificare la presenza di virus solo sui sintomatici (…).’ L’assessore al welfare Giulio Gallera più volte ha ripetuto che i test a tappeto non sono praticabili (…) né risolutivi perché andrebbero ripetuti con alta frequenza. (…) Il 24 maggio l’assessore Gallera commenta i risultati dei test sierologici realizzati, fino a quel momento, sul personale sanitario: ‘Su 81.000 sanitari solo il 13% ha gli anticorpi (…). Questo dato inconfutabile indica che i grandi sforzi della Regione Lombardia hanno tutelato i nostri operatori sanitari!’. ‘Quindi – commenta Selvaggia Lucarelli sul Fatto Quotidiano – 10.000 sanitari contagiati sono un successo (ci sarebbero anche quelli morti, guariti o tamponati in precedenza, ma vabbé)’. Al 16 settembre Filippo Anelli, presidente della FNOMCeO, denuncia che sono 31.515 gli operatori sanitari contagiati (l’11% del totale), deceduti 177 medici e odontoiatri, 40 infermieri – dei quali 4 suicidi – 16 farmacisti, 2 ostetriche.”
(Agnoletto 2020, p. 71)
“Sono afflitto per la chiusura di palestre, attività sportive, teatri, cinema e comunque situazioni che riguardano eventi culturali. Il segnale forte e chiaro alla gente ora è stare a casa. È questa la cosa che non va dimenticata”, si deve uscire soltanto per andare a lavorare, acquistare il cibo e svolgere attività assolutamente indispensabili. “L’indicazione state a casa deve essere data senza se e senza ma. E deve essere anche rispettata”. “L’ho già detto in diverse occasioni. L’indicazione adesso è state a casa il più possibile” (prof. Massimo Galli, responsabile del reparto Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano, ottobre 2020 durante la trasmissione L’aria che tira su La7).
Gli risponde immediatamente il prof. Zangrillo: “Che figata salvare vite umane mentre gli sciacalli che non hanno mai tenuto la mano a un malato sparano cazzate in televisione” (…) “Quelli che sono più ottimisti e che hanno dimostrato meno enfatizzazione catastrofista hanno un contatto più diretto con la realtà clinica”. D’altra parte Galli “ha un’antica militanza sessantottina di cui si fa vanto. Un consiglio: mi denunci e la chiudiamo qua.” (Galli risponderà: “Io non denuncio nessuno perché, per fortuna, non esiste il reato di negazionismo”).
(prof. Alberto Zangrillo, primario di anestesia e rianimazione dell’ospedale San Raffaele di Milano e prorettore dell’università Vita-Salute)
Selvaggia Lucarelli twitta: “Zangrì, facciamo che a marzo intanto Berlusconi avrebbe trovato posto in terapia intensiva, un altro 83enne col c***o”. Poco dopo la replica di Zangrillo: “Lei è una donna volgare e cattiva. (…). Dio abbia perdono di lei”.
“Sono molto tentato di tornare a fare un periodo di wash out completo e lavorare in serenità, perché, se il discorso diventa quello di trovarsi in una specie di derby tra squadre avversarie, francamente me ne tiro fuori. Tra l’altro, l’unica fede che ho è quella calcistica ben definita. Lo sanno tutti che sono interista. Più che squadre contrapposte ci sono ci sono posizioni derivate da dati scientifici e altre che sono legate a ipotesi campate in aria o previsioni che si rivelano fallaci (…) Non trovo nessun gusto ad aver ragione. (…) Mi ci son trovato e finché resisto, forse lo faccio, anche se non ho libri da promuovere, candidature politiche o interessi specifici”.
“Questa epidemia ci ha dato una lezione (…) ha sottolineato infatti come sia importante una buona rete epidemiologica, anche per fronteggiare alcune emergenze come quelle da Covid-19. Negli ultimi anni, però, proprio l’infettivologia ha subito tagli pesanti, unità complesse che sono passate a semplici, mentre in alcune strutture ospedaliere la figura dello specialista infettivologo è stata considerata addirittura inutile. E sono decenni che sulla medicina territoriale non si investe, che si rilevano anche differenze sostanziali tra una regione e un’altra”.
(Prof. Massimo Galli, responsabile del reparto Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano)
Per un anno tutti casti.
n.1583 (1757) 18 agosto 1835
Disce: sce vò alegria. Sí, ccor un male
che ffa ’ggni ggiorno discidotto mijja[135]!
Ce poterà stà alegro un cardinale,
ma nnò un povero padre de famijja.
Vedesse cascà mmorti ar naturale[136]
mó la mojje, mó un fijjo e mmó una fijja,
com’è vvero er peccato è un carnovale
d’annacce a sbeffeggià cchi sse ne pijja!
Saría[137] curioso de sapé, ssi Llotte[138]
lassava fijji immezzo a la Bbettàpoli[139],
si ttrincava[140] lui poi tutta la notte.
Chi la penza da omo[141] è er Re de Napoli,
che cconzijjato da perzone dotte
vò[142] cche ppe un anno siino tutti scapoli[143].
Un muro tra gli Stati e pene gravissime a chi passa i confini.
n.1585 (1759) 19 agosto 1835
Sentite st’antra de quer Re Ccoviello[144].
Tra li su’ Stati e li Stati Romani
mó ccià ffatto tirà ttutt’un cancello,
pe nnun fà ppassà ppiú mmanco li cani.
Bbast’a ddí cche cquer povero Angrisani[145]
fu affermato[146] ar confine de Portello,
sibbè pportassi du’ napolitani
che jje vanno du’ cause in appello[147].
Lui chiunque trapassa li confini,
fussi magaraddio[148] Ponzio Pilato,
vò cche ffacci la fin de l’assassini[149].
Sarìa bbella[150] ch’er Papa, c’ha ppenzato
d’abbandonacce e annà a Mmonte-Casini[151],
sce morissi[152] un tantino fuscilato.
Tante belle sepolture nelle chiese sprecate.
n.1589 (1763) 21 agosto 1835
Ce sò arfine arrivati finarmente
a ffà ttutte l’usanze a la francese[153].
Nun z’ha da seppellí ppiú nne le cchiese
la carne bbattezzata de la ggente!
Antro che mmó[154] sta Pulizzia fetente[155]
s’è accorta che pproggiudica[156] ar paese?
E ddar tempo d’Adamo all’antro mese[157],
cosa j’aveva fatto? un accidente?
Vedé bbuttà[158] li poveri cristiani,
li nostri padri, le nostre crature
ner campaccio[159], per dio, come li cani!
Pe la moda e le su’ caricature[160],
s’ha da mette la lègge a li Romani
de spregà ttante bbelle sepporture!
Ci pensa fra Bernardo.
n.1590 (1764) 21 agosto 1835
Che bbisoggno sc’è ppoi de scimiteri
pe sseppellí? Sò ttutt’erba bbettonica[161],
oggniquarvorta[162] è aritornato jjeri
quer Fra Bbennardo che gguarí la monica[163]. 1
Nun zai che llui co la su’ bbrava tonica
se n’è ito a ddí ar Papa che nun speri
d’empilli[164], e tte j’ha ffatto una canonica
perché sse sta a ppijjà ttanti penzieri[165]?
Lui sce ggiura e spergiura ch’er collèra
fin che sta a Rroma lui sc’è ttropp’ostacolo
che cc’entri, e l’aspettallo è una ghimera[166].
E, a la peggio che ssia, su’ riverenza
metterà mmano a un pezzo de miracolo
pe ffallo aritornà vvia de fughenza[167].
Un vermifugo rimedio contro il colera.
n. 1593 (1767) 31 agosto 1835
Sapete? er fijjo de Monzú Bboietto[168]
ha scuperto che un po’ de corallina[169]
è la vera e fficaccia[170] mediscina
pe gguarí sto fraggello bbenedetto.
Ma gguarda un po’ cchi cce l’avessi detto!
Che cquello che cce daveno in cuscina
co la pappa coll’ojjo la matina
fussi bbono da fà ttutto st’affetto![171]
Eh! a ccolazzione n’ho mmaggnata tanta
ne le pizzette fritte io da cratura![172]
E ppe li vermini è una mano santa.
Dunque er collèra è un vermine addrittura.
Ebbè ssi mmó sto vermine sciagguanta[173],
nun annamo ppiú un cazzo in zepportura[174].
Altri rimedi: il mercurio in una penna sul petto o un cordoncino con una moneta sullo stomaco.
n. 1594 (1768) 2 settembre 1835
Ggià è scartato er rimedio der Bojetto[175].
Adesso tutto er gran preservativo
conziste in un tantin d’argento-vivo[176]
drent’una penna che sse porta in petto.
C’è pperò cchi lo ggiudica noscivo;
e ar fijjo der padrone der giacchetto[177]
un medico gnobbatico[178] j’ha ddetto
che ppò offenne er zistemo indiggestivo[179].
E cch’er vero segreto che ss’è ttrovo[180]
è appricasse a lo stommico de fora
un cordoncino co un baiocco[181] novo.
Er rimedio è assai commido[182], ma intanto
bbisoggneria sapé sta cosa ancora:
si ha da toccà la pelle o ll’arma o er zanto[183].
Altri rimedi (e il tentativo delle donne di restare incinte).
n. 1595 (1769) 1° settembre 1835
È una sscena! Cqua oggnuno ha er zu’ segreto.
Chi vvò[184] er cannello, chi vvò la patacca,
chi er làvudon, chi er thè, chi una casacca
de fanella, chi er vischio de l’abbeto:
uno canfora, uno ojjo, e un antro asceto:
questo vò che sse dormi co ’na vacca:
quello disce ch’er male nun z’attacca
a le donne che in corpo abbino er feto…[185]
Sta vertú cche ppò avé la gravidanza
mó ha ccressciuta la rabbia in ne le donne
de fàsselo infilà[186] ddrent’a la panza.
Per cui mariti, amichi e confessori[187]
nun arriveno a ttempo a ccorrisponne[188]
a ttante ordinazzione de lavori.
Iddio le donne gravide le salva (a buon intenditor poche parole).
n. 1596 (1770) 17 settembre 1835
È vvero, è vvero: l’ho ssentito io
predicallo da un prete all’Orfanelli[189].
Disce: «Er collèra viè, ccari fratelli:
prepàrete a mmorí, ppopolo mio[190].
Ma ppuro conzolàmose, ché Iddio
ner visitacce[191] co li su’ fraggelli,
quarchiduno n’accettua[192] de quelli,
e ssi ammazza er nipote, assorve er zio.
Semprigrazzia, ssce sò pprove sicure
ch’Iddio le donne gravide le sarva[193]
pe vvia de quele povere crature».
Ccusí ddisse la predica, fijjole.
Cqua nun ze tratta de fiori de marva[194]:
a bbon intennitor poche parole[195].
Il male si rappezza con l’acquavite.
n.1597 (1771) 8 settembre 1835
Io me sò stato zzitto inzin’adesso
pe ffà pparlà sta bbella compaggnia.
Mó vvojjo crede che mme sii promesso[196]
doppo quelle dell’antri er dí la mia.
Volenno arraggionà, st’ammalatia,
ciovè sta colla-morbida[197], a un dipresso
pe cquer che ssento dí pare che ssia
un’usscita che vvadi pe ssuccesso[198].
Bbè, la diarella[199], ossii la cacarella,
tutti sanno che vviè da debbolezza
d’intestibbili[200] oppuro de bbudella.
Quanno sta verità ss’è bben capita,
o er male nun ze piija, o ss’arippezza[201]
co ’na bbona fujjetta[202] d’acquavita.
Se il colera non è arrivato il 15 settembre, non viene più.
n. 1598 (1772) 8 settembre 1835
Cqua nun c’entra fujjetta né bbucale[203]:
questo è affare de lettre e dde bbijjetti.
Mó un professor de storia ar naturale[204]
scrive da Francia ar Cardinal Bernetti[205],
dove disce accusí: «Ssor Cardinale,
si a ttutto er giorno quinisci[206] l’inzetti[207]
nun zò arrivati a Rroma a pportà er male,
lei per antri6 sei mesi nu l’aspetti».
Tutto dunque er pericolo cqui ddura
sin a mmezzo settembre a mmezza-notte[208]:
sonata che cquell’è, Rroma è ssicura.
A mmezzo marzo poi forze vieranno[209]
antri bbijjetti de perzone dotte
pe spostà er male e prologallo a un anno.
Non tutto il male viene per nuocere: qualcuno ci guadagna.
n. 1599 (1773) 13 settembre 1835
Furtunato chi aveva, co sta jjella[210],
generi cojjoniali[211] in magazzino,
come cacàvo[212], zzucchero, cannella,
ojjo de Lucca, spirito de vino…
E li mercanti? pe ccristallo fino[213]!
V’abbasti sto tantin de bbagattella[214],
che in tutta Roma, a ppagallo un zecchino
nun ze trova ppiú un parmo de fanella[215].
E li sori spezziali, eh, cc’antra bbega[216]?
Hanno vennuto pe ttre vvorte er costo
li ppiú rrancidi fonni de bbottega[217].
Semo llí: ssi er collèra a nnoi sce cosce[218],
a cquell’antri je pare un ferragosto[219].
Nun tutt’er male ar monno viè ppe nnòsce.
Proibire il teatro? Ma chi resta vivo vorrà divertirsi.
n.1600 (1774) 30 agosto 1835
Inibbí[220] le commedie?! E in che maggnéra
v’immagginate sta lèggiaccia infame?
Tanto bbene, sor faccia de tigame[221],
s’opre er teatro, e sta notizzia è vvera.
Un povero garzon de faleggname
che ciabbusca du’ pavoli[222] pe ssera,
pe nnun morí ddomani de collèra
s’averebbe oggi da morí de fame?
Nun ve pòzzo negà cc’ar zor Paterno[223]
je fa er culo un tantin de lippe-lappe[224],
io però ddico che cce vince un terno[225].
Perché, famo er collèra che vvienisse[226],
co ttutta la pavura in ne le chiappe
chi rresta vivo vorà ddivertisse.
Paura per un russo ammalato.
n.1601 (1775) 8 settembre 1835
Ôh, vve porto una nova[227]. Du’ paìni[228]
hanno detto in bottega che stasera[229]
s’è asviluppato un russio cor collèra
a la locanna de monzú Ppiastrini[230].
Disce che de llí intorno li viscini
sò ddiventati statue de scera[231];
e er Ggoverno ha spidito all’affrontiera[232]
pe llevà li cordoni a li confini.
C’è cchi vvò[233] che cce sii quarche speranza
che sto russio de cristo[234] abbi diverzi
vermini solitari in ne la panza.
Ma er medico ch’è ito a ddenunziallo[235],
lui li su’ passi nun vò avelli perzi,
e ssostiè cch’è un collèra da cavallo.[236]
Le mascherine al tempo del dottor Cappello.
n. 1604 (1778) 31 agosto 1836
Oh ssentite mó st’antra bbuffonata
c’ha ffatto a Ancona er zor dottor Cappello[237].
Va cco un cappuccio in testa, e sott’a cquello
tiè un guazzarone[238] de tela incerata.
Sopr’un occhio sce porta uno sportello
de vetro, e in mano un fasscio d’inzalata[239].
De grazzia, e da ch’edè st’ammascherata?[240]
Da pajjaccio, da Cola o da Coviello?[241]
Bbasta, lui co sta bbella accimatura[242]
se presenta a l’infermi accap’a lletto[243]
pe sballalli ppiú ppresto de pavura[244].
Defatti appress’a llui passa er carretto[245],
e straporta ppiú mmorti in zepportura
che nun tiè er Papa cardinali in petto[246].
Ci hanno tolto pure il Natale!
n.1608 (1782) 24 dicembre 1836[247]
Ma ttutt’a ttempi nostri! E ccaristía,
e llibbertà, e ddiluvi, e ppeste, e gguerra,
e la Spaggna, e la Francia, e ll’Inghirterra…[248]
Tutt’a li tempi nostri, Aghita[249] mia.
Adesso ha da vení sto serra-serra
de porcaccia infamaccia ammalatia,
pe sturbà Rreggno[250] e pportaccese via
quer povero Scetrulo de la Scerra[251].
Puro pe Ppurcinella meno male:
chi sta ppeggio de tutti è Ggesucristo
c’ha pperzo la novena de Natale.
Hai tempo a ffà ppresepî e accenne artari:
questo è er primo Natale che ss’è vvisto
senza manco un boccon de piferari[252].
d) La superstizione dei religiosi.
Cerimonie e processioni religiose che diffondevano tragicamente il contagio (che abbiamo richiamato ripetutamente supra, cfr. pp. 000-000) si svolsero anche a Roma in occasione della pestilenza del 1835-38[253]. Ai tempi nostri ricorderemo per sempre fra i peggiori orrori del Covid le grida dei “laici devoti”, a cominciare da quelle, in falsetto, di Mario Giordano che accusava il Governo (e il papa): “Hanno anticipato di due ore la nascita del figlio di Dio!!! Hanno anticipato di due ore la nascita del figlio di Dio!!!”.
La Chiesa di papa Francesco ha saputo invece anteporre la salute e la vita del popolo anche alle più che legittime esigenze di una partecipazione di massa ai riti sacri, Pasqua e Natale compresi. Di questo dobbiamo tutti/e, laici o credenti, esserle grati.
Ma, purtroppo, non tutta la Chiesa è papa Francesco.
“Ho allargato le mie conoscenze e allargato i miei orizzonti: questa epidemia è un progetto, ben preciso, per colpire l’Occidente. Io l’ho sempre attribuito al demonio, che agisce attraverso gli uomini e quindi delle menti criminali, che l’hanno realizzato con uno scopo ben preciso: creare un passaggio repentino per attuare una specie di colpo di Stato sanitario”, “un progetto volto a fiaccare l’umanità, a metterla in ginocchio, per instaurare una dittatura sanitaria e cibernetica, attraverso l’eliminazione di tutti quelli che non dicono sì a questo progetto criminale portato avanti dalle élite mondiali, con complicità magari di qualche Stato”. “Il coronavirus è un progetto criminale delle élite mondiali per instaturare una dittatura sanitaria e ridurci come zombie”, “è ovvio che per un cristiano la mente ispiratrice non può essere che il maligno.”
(P. Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, 11 novembre 2020)
“Non vedo l’ora che la scienza e anche il buon Dio, perché la scienza da sola non basta, sconfiggano questo mostro per tornare a uscire. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua e occorre anche la protezione del Cuore Immacolato di Maria.”
(M. Salvini, in tv da Maria Latella, cit. in Scanzi 2020, p. 119)
“Siamo entrati nel tempo dell’abominio, del regno delle tenebre. Un evento che è stato profetizzato con molta precisione, dunque non bisogna stupirsi di quel che sta accadendo. Sarà un tempo dominato dalle forze del male, di cui però non si ha consapevolezza in generale. Una volta l’instrumentum regni del potere era la paura della gente per quello che poteva succedere nell’altra vita, la paura di essere condannati all’inferno. Oggi lo strumento per dominare è la paura del contagio. (…) È arrivato il tempo delle catacombe, delle persecuzioni”. (“Libero” 12 ottobre 2020)
“Il disegno va molto al di là della Big Pharma. Molto al di là del vaccino. È un disegno di controllo planetario. La necessità finale è quella di avere un microchip da infilare sottopelle a tutti, come nel sogno di Bill Gates, dal quale liberare molecole che non sapremo che vengono liberate, esercitando un controllo pieno. Questa elite finanziaria di Bill Gates, Rockfeller (…) non ha bisogno di soldi perchè li stampa, ma ha bisogno di avere un pieno controllo della realtà sociopolitica, e a questo sono arrivati. Contromisure mi pare che non ce ne siano. Anche perchè le poche voci libere saranno spente tra poco. Non so per quanto tempo lei potrà ancora permettersi di fare questi video e di diffonderli. Saranno bollati di fake news, ci sarà il reato di fake news e saranno portati direttamente in carcere o soppressi. (Intervista di Tina Rossi, in “Zetatielle” 15 ottobre 2020)
“L’abominio della Chiesa di Roma! Tra poco l’approvazione dopo gli aborti dei trapianti di organi sottratti ai cadaveri di condannati a morte come in Cina! Santa Maria Madre di Dio proteggi da Satana la Chiesa del Tuo Divino Figlio Gesù!” (“Libero, 21 dicembre 2020)
(prof. Alessandro Meluzzi, già psicologo e psicoterapeuta, massone, parlamentare di “Forza Italia”, poi seguace di Cossiga e dal 2019 di “Fratelli d’Italia”, criminologo, docente di psichiatria forense, scrittore, Metropolita della Chiesa Ortodossa Italiana autocefala, di cui si è autoproclamato primate d’Italia, eparca di Ravenna e Aquileia, col nome di Alessandro I e il trattamento onorifico di Sua Beatitudine. Al suo nome risultano 291.000 occorrenze in Google. La sua pagina Facebook registrava 141.213 likes nel dicembre 2020.)
Il Signore manda il colera per dispetto.
n.1576 (1750), 4 agosto 1835
Quanno parli accusí ccore mio bbello,
fai capí cche l’editto nu l’hai letto;
perché er Vicario in quer lenzòlo[254] ha ddetto
ch’er collèra è un bravissimo fraggello[255];
e cche er Ziggnore se serve de quello
e cce lo manna[256] appunto pe ddispetto,
pe vvia che Rroma è ddiventata un ghetto
d’iniquità ppiú nnere der cappello.
Rroma ha pprecarivato[257]: ecco er motivo
che la peste viè avanti pe le poste
pe nnun lassàcce un zecolaro vivo[258].
Tu aspèttetela puro pe le coste[259],
e vvederai ch’er Papa, mastr’Olivo,
sarverà appena Ghitanino e ll’oste[260].
C’è la beata Vergine Maria e l’Angelo custode che ci pensa.
n. 1578 (1752) 7 agosto 1835
Pijji un grancio[261], Sciriàco[262], abbi pascenza.
A Rroma tanto, è inutile, per dia![263]
Sc’è la bbeata Vergine Mmaria
e l’Angelo custode che cce penza.
Eppoi te vojjo fà ccapasce, senza
tante sciarle der cazzo. Er Casamìa[264],
che nun è stato mai trovo in buscia[265],
di’, l’ariporta o nnò st’appestilenza?
Ste raggione me pareno raggione.
E, a la peggio, te credi ch’er governo
nun pijji quarche ggran precavuzzione?
A bbon conto er decane de Der Drago[266]
disce che sse farà ’na priscissione;
e vvederai che ss’inibbisce er lago[267].
Ci sono gli avvelenatori, ma basta che non avvelenino il vino.
n.1582 (1756) 17 agosto 1835
Pe l’appunto, a pproposito de frati,
curre la sciarla mó[268] ggnente de meno
ch’er collèra è l’affetto[269] d’un veleno
bbono da fà mmorí ttutti li Stati.
Ir quale er monno s’è scuperto pieno
de funtane e de pozzi avvelenati[270]
da sti servi de Ddio nostr’avocati
pe bbuggiaracce[271] a tutti a ccel zereno.
Io perantro papeggio[272], e ssò rregazzo
de fregammene assai; ché ppe sta strada
lòro, per dio, nun me la fanno un cazzo.
A mmé nun me s’inzeggna sto latino.
Sull’acqua ponno fà cquanto j’aggrada[273],
purché nun zia[274] d’avvelenamme er vino.
L’unico rimedio è la medaglia della Madonna (ma quella ovale)
n. 1605 (1779) 23 settembre 1836
Chi vvò pperzeverasse[275] dar collèra
er medicasse[276] è inutile, Luviggi.
In st’impiastri e llavanne e zzuffumiggi[277]
è un cojjone er cristiano che cce spera.
La mediscina che ppò ffà pprodiggi
è la Madonna, e la Madonna vera
è cquella tar Madonna furistiera
de la medajja nova de Pariggi[278].
Però, ssi la medajja nun è ovale,
la grazzia, fijjo, nun ze pò arisceve,
e in cammio de fà bbene faría male[279].
De resto, o vvino bbianco, o vvino rosso,
ggnente, nun ciabbadà[280]. Ttu mmaggna e bbeve,
bbasta che pporti la medajja addosso.
Il miracolo è che non sono morti tutti.
n. 1606 (1780) 30 ottobre 1836
«Bbe’? cquanno s’arïoprono[281] le porte
de sta povera Ancona sfraggellata?[282]»
«Er quattro de novemmre, ha detto Tata[283],
sarvo sia caso de quarc’antra[284] morte».
«E cche discevi de messa cantata
sotto-vosce a Mmattia? ridillo forte».
«Discevo che sse canta pe la sorte
che ssan Ciriàco suo[285] l’abbi sarvata».
«E cche jj’è ssan Ciriàco?» «Protettore».
«E da che ll’ha pprotetta?» «Dar fraggello.
«E li morti?» «E li vivi, sor dottore?».
«Spièghete». «E in certi casi accusì bbrutti
vòi[286] miracolo grosso ppiú de quello?»
«Sarebb’a ddí’?[287]» «Che nun zò mmorti tutti».
Ora tocca a Napoli, poi toccherà a noi.
n.1607 (1781) 1° novembre 1836
Er collèra sta a Nnapoli, fratelli,
e sta a Ggaeta e in tre o cquattr’antri lochi,
e ppe ttutto li morti nun zò ppochi
e ll’imballeno[288] a sson de campanelli.
Inzomma, ecchesce cqua, fijji mii bbelli,
ciaritrovamo immezzo[289] tra ddu’ fochi.
’Ggna penzà ddunque a ddiventà bbizzochi[290]
pe mmorí ccom’e ttanti santarelli.
Mó ttocca a cqueli poveri cafoni[291],
e inzin che ccianno sta pietanza addosso
nun ze maggna ppiú un cazzo maccaroni.
Oggi o ddomani poi toccherà st’osso
de rosicallo a nnoi. Bbe’, ssemo bboni
e llassamo fà a Ddio ch’è ssanto grosso.
e) La ferocia dei potenti.
“Le persone sono un po’ stanche di questa situazione e alla fine vorrebbero venirne fuori. Anche se qualcuno morirà, pazienza.”
(Domenico Guzzini, Confindustria Macerata, al forum “Made for Italy per la Moda” 14/12/2020; quel giorno si contarono 846 morti di Covid che portavano in Italia il totale provvisorio a 65.857)
“Occorre puntare all’immunità di gregge, i cittadini dovranno abituarsi all’idea di perdere i loro cari prima del tempo a causa del coronavirus.”
(B. Johnson, premier britannico, 12 marzo 2020; poi si è beccato il Covid – ma senza morirne – e ha cambiato un po’ idea)
“Il ritardo di Boris Johnson è costato almeno la metà delle vittime totali del Paese [la Gran Bratagna].”
(Richard Horton, in “The Lancet”, 17 giugno 2020; il 16 gennaio 2021 i contagiati in Gran Bretagna erano 3,72 milioni e i morti 102.000. Fonte: JHU CSSE Covid 19 Data)
“Ai primi di marzo con la Regione ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse ad Alzano e Nembro perché non si poteva fermare la produzione.”
(Marco Bonometti, Presidente della Confindustria Lombardia)
“Nei comuni bergamaschi di Nembro, Alzano e Albino (43.000 abitanti) il numero totale dei morti è aumentato in un anno del 745% passando da 51 a 431; nel medesimo periodo, nel lodigiano, (…) sui dieci della zona rossa, si è riscontrato un aumento del 369% da 65 a 305 decessi. Se ipotizziamo che applicando la zona rossa nei tre comuni della bergamasca, con la stessa tempestività usata nel lodigiano, la percentuale di crescita dei decessi fosse stata la medesima, si sarebbero contati 192 morti in meno.” (…) “Gli operai hanno continuato a lavorare nelle fabbriche tutti i giorni fino al 23 marzo, quando il Governo ha deciso di chiudere le attività non essenziali. In quei 15 giorni di attesa a Bergamo i contagi passano da 997 a 64.471.”
(Agnoletto 2020, pp. 23-24)
“In quegli stessi drammatici giorni gira un video di Confindustria Bergamo: si intitola Bergamo is running ed è in inglese, quindi lo scopo sembra essere quello di rassicurare i partner commerciali. (…) ‘Gli attuali avvertimenti sanitari del governo italiano indicano che i rischi di infezioni sono bassi. Apprendiamo dai media un aumento della preoccupazione nei confronti della situazione italiana dove però si stanno facendo più test rispetto agli altri Paesi e quindi si ha l’impressione sbagliata che ci siano più contagiati. Vogliamo confermarvi che le nostre imprese non sono state toccate, tutte andranno avanti con i loro affari come sempre’. Confindustria Lombardia fa appello ai suoi iscritti a diffondere l’hastag, #Yes we work, Sì, noi lavoriamo.”
(Agnoletto 2020, pp. 46, 48, 24).
Al maggio 2020 in Lombardia 1.469 morti di Covid per milione di abitanti, nel resto d’Italia 305, in Spagna 562, negli Usa 263, in Germania 95, in Sud Corea 5.
In data 21 dicembre 2020 i morti di Covid in Lombardia saranno 24.610, più di un terzo del totale per l’intera Italia che era a quella data di 70.395 morti, e gli abitanti della Lombardia sono un sesto del totale degli italiani).
“In Lombardia abbiamo contenuto molto bene il contagio.”
(A. Fontana, Presidente della Regione Lombardia, 15 maggio 2020)
“La Repubblica” 11 marzo 2020: “Le imprese lombarde provano a resistere alla tempesta del coronavirus. Di fronte alle crescente emergenza – ha spiegato il presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti – “è indispensabile la necessità di tenere aperte le aziende”.
“Dopo i primi giorni di emergenza, è ora importante valutare con equilibrio la situazione per procedere a una rapida normalizzazione, consentendo di riavviare tutte le attività ora bloccate”. L’appello era stato sottoscritto da Abi (l’associazione bancaria), Coldiretti, Confagricoltura, Confapi, Confindustria, Alleanza delle cooperative, Rete Imprese Italia (CNA, Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti) – e la cosa non stupisce. Ma anche Cgil, Cisl, Uil con una frettolosa superficialità che grida vendetta.[292]”
(cit. in Agnoletto 2020).
“La Lombardia, è un dato di fatto, è il motore di tutto il Paese. Quindi se un lombardo si ammala di Coronavirus vale di più che se si ammala una persona di un’altra parte d’Italia.”
(Aurelio Ciocca, europarlamentare della Lega, 20 dicembre 2020).
“Noi non siamo dalla parte del Coronavirus quando diciamo di riaprire. Pensiamo di onorare quella gente di Bergamo e di Brescia che non c’è più che ci avrebbe detto, se avesse potuto parlare: ‘Ripartite anche per noi’.”
(M. Renzi, 30 aprile 2020 in Senato)
“Alle ambulanze della Contea di Los Angeles, in California negli Stati Uniti è stato chiesto di non trasportare in ospedale pazienti che hanno possibilità molto basse di sopravvivenza. La direttiva è arrivata dalle autorità sanitarie mentre la Contea rischia di arrivare a 1.000 morti di Covid al giorno.”
(“Il Fatto Quotidiano”, 5 gennaio 2021, p. 14)
I vaccini vanno distribuiti in base al “Contributo che le Regioni danno al Pil, mobilità, densità abitativa e zone più colpite dal virus.”
(Letizia Moratti, Assessore al welfare della Regione Lombardia, 18 gennaio 2021)
I poveri abbandonati al lazzaretto, i ricchi curati a casa loro.
n.1580 (1754) 16 agosto 1835
Eh! a cche sserveno mai tanti conforti?
È ita[293] pe nnoantri disgrazziati.
Sapete chi hanno fatti deputati
si er collèra vierà? Pprímoli e Ttorti[294].
Questi tra lloro se sò ggià accordati
che la povera ggente se straporti[295]
ar lazzaretto, indov’escheno morti[296]
tutti quelli che cc’entreno ammalati.
E li ricchi staranno in ne l’interno
de casa lòro, curati e assistiti
da un medico e un piantone der governo.
Oh annate a ccrede ch’er Vangelo poi
abbi torto discenno all’arricchiti:
Vè vòbbisis[297], ciovè bbeati voi!
Non mettere i sudditi in spavento e non fargli rovinare gli affari.
n.1586 (1760) 19 agosto 1835
Ôh er Re de Francia poi, disce er padrone,
nun fa ste bbuggiarate[298] de sicuro,
e nun spenne quadrini in gnisun muro,
né ffratta, né ccancello, né pportone[299].
Pe llui sc’è Iddio c’ha da penzà ar futuro
e cquanno esscí er collèra da Tullóne[300]
sai lui che ddisse? «Oh ffutre! oh ssacranone! [301]
Vien le collèrre? favorischi puro»[302].
Questi sò Rre de garbo[303], ommini rari,
da nun mette li sudditi in spavento
e da nun fajje[304] ruvinà l’affari.
Perché ppoi sto collèra, o ffora o ddrento,
fatto c’abbi er zu’ corzo, fijji cari,
è una spesce d’un cammio ar zei per cento[305].
Per il colera non vuole dare quattrini.
n.1587 (1761) 20 agosto 1835
Fa ccusí er zor Gianfutre[306]? E er nostro frate
fusajjaro[307] e mmercante de stuppini[308]
n’ha pprese tutte quante le pedate[309],
ché pp’er collèra nun vò ddà cquadrini.
Sai c’ha ddetto a Bbernetti e a Ccammerini?[310]
Che li quadrini, a ccose piú avanzate
lui li farà ccacà a sti bbagarini[311]
de bbanchieri e a le case intitolate.
E de sti Papi ce se disce intanto
che sse fanno e sse metteno in palazzo
pe spirazzion de lo Spirito ssanto?
De che? Spirito ssanto a sti Neroni?
A sti ggiudii?[312] Spirito ssanto un cazzo:
Spirito ssanto un paro de cojjoni.
Vuoi andare anche tu con i galeotti incatenati a fare la processione per il colera?
n. 1588 (1762) 20 agosto 1835
Zíttete llí, sboccato: sò pparole
da dísse[313] queste ccusí a la sicura?
Nu lo sai che qui pparleno le mura?
Ma cche davero vòi ggiucatte er zole?[314]
Si tte sente quarcuno che jje dole,
poverettaccio te! Nun hai pavura
che tte mannino a Ttermini[315] addrittura,
a ggiucà cco le pale e le cariole?[316]
Te ne vo’ annà ttu ppuro in ne la schiera
dell’antri galeotti esercitanti
a ffà la priscissione p’er collèra?
Eppuro l’hai veduti tutti quanti,
incatenati, a rritornà in galera
co cquattro torce e ’r croscifisso avanti.[317]
Come si esce dalla pestilenza e dai suoi effetti.
Per il “dopo Covid”, ammesso che se ne esca davvero, la proposta certamente più stupida è “tornare come prima”, perché “prima” ci sono non solo disoccupazione e ruberie e precariato e miseria e distruzione dell’ambiente e guerra ma anche (se l’abbiamo capito) “prima” c’è anche la strutturale esposizione delle nostre superbe e sciocche società del capitalismo globalizzato a catastrofiche epidemie ricorrenti. Dunque tornare al “prima” significherebbe entrare in una loop in cui si succedono periodicamente epidemie e cure, e poi di nuovo epidemie e cure, senza fine fino alla fine.
“Prima” c’era soprattutto il dominio del neo-liberismo e il dogma capitalistico dei tagli, dei tagli, dei tagli alla spesa pubblica e delle privatizzazioni nei campi della ricerca, dell’istruzione, dei trasporti, delle abitazioni, della sanità. “Prima” c’erano Berlusconi e Renzi e, per quanto riguarda la sanità, “prima” già c’era la riforma del Titolo V della Costituzione (votata da tutti costoro) e l’ “autonomia differenziata” (voluta sia dalle regioni della Lega che da quelle del Pd). “Prima” c’era Formigoni e la privatizzazione della sanità.
Ha scritto Noam Chomsky:
“Da tutta questa situazione si possono ricavare diverse lezioni, soprattutto, sugli aspetti suicidi di un capitalismo incontrollato e sul danno aggiuntivo procurato dalla piaga neoliberista. La crisi mette in luce quanto sia pericoloso trasferire il processo decisionale a istituzioni private svincolate da qualsiasi controllo pubblico e mosse esclusivamente dall’avidità, che è il loro dovere solenne, come ci hanno spiegato Milton Friedman e altri luminari invocando le leggi dell’economia sana.”[318]
Tutto ciò riguarda, o sembra riguardare, solo il campo della politica, e ne deriva solo che dopo il Covid nessuno dovrebbe votare mai più per i commessi della Confindustria, per i vari Fontana, Gallera o Gori (francamente non riesco a capire come potrebbero farlo i superstiti della strage di Bergamo) e ne deriva anche – mi permetto di dire – che nessuno più dovrebbe stringere la mano a quella gente o salutarla per strada.
Ma ciò che dalla tragedia del Covid emerge è qualcosa di più della politica perché chiama in causa una religione da cui occorre liberarsi, quella del capitalismo.
C’è un Deus absconditus (un Dio nascosto) che giudica tutto e non può essere giudicato da nessuno (proprio come “l’uomo spirituale” di cui parla la I Lettera ai Corinzi, 2, 15: “iudicat omnia, et ipse a nemine iudicatur”). È un dio di cui non è lecito neanche pronunciare il nome, ma che tuttavia decide tutto, imperscrutabilmente, e che si manifesta ai mortali attraverso i suoi mediatori in terra: il cosiddetto “mercato” e la sua espressione metaforica spesso invocata: “l’Europa”. Il mercato e l’Europa sono in realtà solo nomi eleganti per dire “capitale finanziario”, cioè la volontà e gli interessi della classe dominante, il luogo dell’Onnipotenza: “vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare” (Inferno, III, 95-96), “lo vogliono i mercati..”, “non piacerebbe ai mercati…”, “l’Europa ci chiede…”, “lo dobbiamo all’Europa”, etc. Quante volte abbiamo sentito ripeterci queste giaculatorie?
Di questa religione dominante non ci possono interessare i riti e i miti, ma sì invece l’antropologia, un’antropologia (cioè un concezione dell’uomo/donna) da cui quella religione è stata generata e che, al tempo stesso, essa contribuisce a diffondere e consolidare. È l’antropologia borghese dell’individualismo assoluto, della concorrenza e dell’egoismo, del mors tua, vita mea, dell’homo homini lupus.
Ma se l’Altro/a essere umano è per me solo un lupo, cioè un pericoloso nemico, allora io posso preferire di perseguire il mio profitto anche se ciò fa rischiare la vita ai miei operai; allora io posso togliere alla collettività le strutture pubbliche che essa ha creato con la fiscalità generale e regalarle ai privati (per giunta lucrando tangenti da tale trasferimento); allora io posso gestire la pandemia con un misto di irresponsabilità e arroganza fino al punto di mandare i malati di Covid nelle Residenze per Anziani; allora io posso mentire al pubblico e nascondergli i rischi del contagio per corrispondere agli interessi dei padroni di quei giornali e di quelle tv che amplificheranno le mie menzogne; allora potrò perfino da medico, violando il giuramento di Ippocrate, concentrare cure e attenzioni sui potenti e i benestanti lasciando morire da soli i non-produttivi, i poveri, i vecchi, i deboli, e così via.
Così diventa ora più chiaro il punto da cui siamo partiti, cioè che la pandemia non ha creato nessuno di questi orrori ma si è solo limitata a far venire alla luce, a svelare appunto come un’apocalisse (apò-kálypsis), ciò che già c’era, che già dominava nascostamente le nostre vite.
Ma cosa significa, in concreto, liberarsi della religione del capitale a cominciare della sua antropologia? Per rispondere a questa domanda ci aiuta l’insegnamento della pandemia Covid e delle pestilenze che l’hanno preceduta. Abbiamo visto che sempre il punto su cui si concentra la catastrofe della pestilenza è la rottura della socialità, la soppressione di quel vivere associati degli umani che nei secoli – e non senza ritorni indietro – li ha progressivamente emancipati dalla ferinità. È questa la costante che abbiamo visto emergere nel racconto del Decameron come in quello dei Promessi sposi, in Lucrezio come in Belli, etc.
Se è in quel punto della socialità che la pandemia ci ha colpiti è allora in quello stesso punto che noi dobbiamo colpire la pandemia e le sue consegenze, cioè non solo difendere ma rifondare una socialità più intensa e vera, senza limiti, senza esclusioni, senza nessun altro interesse che non sia l’Altro/a e il suo volto: una fraternità.
Raul Mordenti
Roma, 24-1-2021Riferimenti bibliografici:
V. Agnoletto, Senza respiro. Un’inchiesta indipendente sulla pandemia Coronavirus, in Lombardia, Italia, Europa…, Prefazione di Lula, Presidente del Brasile…, Milano, Altreconomia, 2020.
G. G. Belli, Tutti i sonetti romaneschi, 2 voll. a c. di M. Teodonio, Roma, Newton, 1998.
G. G. Belli, I sonetti, a cura di Pietro Gibellini, Lucio Felici, Edoardo Ripari, 4 voll., Torino, Einaudi, 2018
C. Muscetta, Belli, Giuseppe Gioacchino, in AA. VV., Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, Utet, 1974, ad vocem.
A. Scanzi, I cazzari del virus. Diario della pandemia tra eroi e chiaccheroni, Roma, Paperfirst, 2020.
M. Teodonio, Poetiche di una epidemia: Belli e il colera, «Letture belliane, 8, I sonetti del 1837», Roma, 1987 (con bibliografia specifica).
M. Teodonio, Vita di Belli, Roma-Bari, Laterza, 1993; n. e. Roma, Castelvecchi, 2016.
M. Teodonio, Colera, omeopatia e altre storie. Roma 1837, Roma, Palombi, 1988.
M. Teodonio, Sta porcaccia infamaccia amalattia, Roma, Castelvecchi, 2021.
FINE
- “Li inimicò”, li ebbe per nemici. ↑
- Cioè Apollo. ↑
- Il figlio di Atreo, Agamennone. ↑
- “Rapidi”, veloci. ↑
- “(…) Nascevano (…) a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto alle ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come un uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari nominavano gavoccioli. (…) e da qusto appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permitare in macchie nere o livide (…).” (G. Boccaccio, Decameron, I, Intr., 10-11). ↑
- Cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, capitoli XXVIII, XXXII, XXXIII, XXXIV, XXXV; Id. Storia della colonna infame, Introduzione, capitoli I, III, IV, V, VI. ↑
- Quella pestilenza fa da sfondo al recente romanzo di Dacia Maraini, Trio, Milano, Rizzoli, 2020. ↑
- Teodonio 2021, p. 000. ↑
- Sembra anche per sintomatologia e decorso: colpiva i polmoni provocando così la morte. ↑
- Si calcolano per quella guerra circa 16 milioni di morti (600.000 in Italia) e più di 20 milioni di feriti e mutilati, fra militari e civili. ↑
- Anche chi scrive ne ha sentito narrare dai suoi nonni. ↑
- In realtà la definizione di “capolavori” è riduttiva: questi due grandi libri sono in realtà (per motivi diversi) testi fondanti sia della letteratura che dell’ethos della nazione italiana. Sono capolavori anche altri libri che hanno per sfondo e tema delle pandemie, come La peste di Albert Camus e Cecità di José Saramago. ↑
- “Per le case degli altri”. ↑
- “Facilmente”. ↑
- “L’estraneo”. ↑
- E il borghese Boccaccio non manca di criticare aspramente tale abbandono, che comporta la rovina dei campi e degli allevamenti. ↑
- “Evitasse”. ↑
- È questa la situazione rappresentata da Manzoni a proposito del comportamento del Griso al momento della malattia del suo padrone don Rodrigo. ↑
- “Alle antiche usanze”. ↑
- “Il clero”. ↑
- “Sopra le spalle”. ↑
- “Scelta”. ↑
- “Onorevoli”. ↑
- “Sostenevano la bara”. ↑
- “Qualche volta”. ↑
- “Vuota”. ↑
- “Ponevano”. ↑
- “Quelli che sopravvenivano”, cioè i nuovi cadaveri. ↑
- Come è noto si tratta delle vicende della Storia delle colonna infame, un testo che non caso accompagna I promessi sposi e che anzi ne rappresenta una decisiva matrice etico-politica. ↑
- È qui evidente l’imbarazzo di Manzoni di fronte alla corresponsabilità del suo eroe, il cardinal Federigo Borromeo. Nel romanzo lui, e la chiesa milanese, saranno come è noto ampiamente riscattati e lodati, anche in considerazione del ruolo di decisiva supplenza svolto per contrastare la peste o, almeno, per assisterne i malati. Una supplenza nei confronti dello Stato di cui Manzoni non manca di sottolineare il carattere paradossale. ↑
- “Le corporazioni”. ↑
- Un cappuccio che copriva anche il viso, con due fori per gli occhi. ↑
- Una terribile pestilenza che aveva colpito Milano nel biennio 1576-77. ↑
- Come si ricorderà, Manzoni figura di trascrivere il suo romanzo da un manoscritto di anonimo. ↑
- “Nella natura delle cose”. ↑
- “Una illusione”. ↑
- Cioè il loro guerriero (o argomento) più valoroso. Ma si può intendere anche il loro tallone d’Achille, cioè il loro punto debole. ↑
- “Più semplice, evidente”. ↑
- Si tratta di un elenco tratto dal lessico della peste usato dai medici contemporanei di don Ferrante. ↑
- L’espressione latina significa “fidando in queste cose, basandosi su questi argomenti”. ↑
- Si tratta della biblioteca di don Ferrante che Manzoni aveva già descritto nel romanzo, come compendio della cultura del tempo. ↑
- Costui sarebbe il “paziente zero” della pestilenza milanese. ↑
- La peste precedente. ↑
- Una carrozza chiusa internamente e sostenuta da due stanghe flessibili, detta anche “portantina”. ↑
- Manzoni tuttavia non manca di annotare che quando lo stesso Tadino “con un suo deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei (Storia di Milano del Conte Pietro Verri; Milano, 1825, Tom. 4, pag. 155), allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito.” (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXI) ↑
- Tentò anche, naturalmente invano, di trovare un vaccino contro il colera. A lungo medico condotto a Tivoli (che gli ha dedicato una strada), Capello si distinse per la vaccinazione di massa contro il vaiolo, la gestione dell’epidemia di tifo nel 1817 e il contrasto tempestivo di un’epidemia di carbonchio; proprio per questa sua attività restò infettato di carbonchio, una malattia (la stessa di Marx) che lo accompagnò dolorosamente per tutta la vita e che – anni dopo – lo condusse alla morte. ↑
- Cit. in Teodonio 2021, p.000. ↑
- Nel “Giornale Arcadico”, tomi 49 (gennaio, febbraio, marzo 1831) e 50 (aprile, maggio e giugno 1831): “Del CHOLERA MORBUS, ossia della febbre pestilenziale colerica. 1° ragionamento di Agostino Cappello”. Ibidem. ↑
- “Se le apposite istruzioni fin dall’infanzia venissero di tanto in tanto al volgo insegnate, o ricordate dalle persone più influenti, principalmente dai sacri ministri della Religione, noi opiniamo che non solo con rassegnazione e cieca ubbidienza la plebe la più idiota, e in quei paesi ancora dove professasse svariate religioni, si sottometterebbe ai rigori delle leggi sanitarie, ma si farebbe uno scrupoloso dovere di rendere noto ai medici ed ai magistrati alcun caso che potesse occasionare un clandestino contagio.” (Ibidem) ↑
- Dove naturalmente si svolse una processione: “contro il parere dello scandalizzato Cappello. Così fra il 31 agosto e il 1° settembre migliaia di fedeli, fra cui le famigerate ‘mille donne scalze’ di cui parlano le testimonianze, si recano in processione alla Madonna miracolosa di S. Ciriaco. E il colera ebbe subito un’impennata vistosa, sì che il 5 settembre raggiunge l’acme con 143 nuovi casi in un clima di parossistica confusione (…) il 7 settembre, ammalatosi il Cappello di colera, da Roma viene l’ordine di sospendere le cautele nell’isolamento dei malati, mentre i francesi presenti ad Ancona non usavano nessuna cautela nel soccorrere i colerosi rimasti senza cure; uscito poi il Cappello dall’isolamento, fece subito ripristinare l’obbligo di isolare gli ammalati riprendendo anche quelle precauzioni nel visitare gli ammalati che evidentemente non lo avevano preservato (…)” (Tedonio 2021, p. 000). ↑
- “Al soccorritore dei malati”. ↑
- Così noi abbiamo un altro nome, quello dottor Aldege, da proporre per una statua. ↑
- Teodonio 2021, p.000. ↑
- Teodonio 2021, p. 000. ↑
- Si noti: riaprano prima, subito!, le fabbriche e poi le scuole, le une e le altre da riaprire comunque mentre il contagio esplodeva. ↑
- Per una ricostruzione accurata quanto documentata della vicenda del Covid è indispensabile per tutti leggere: V. Agnoletto, Senza respiro. Un’inchiesta indipendente sulla pandemia Coronavirus, in Lombardia, Italia, Europa…, Prefazione di Lula, Presidente del Brasile…, Milano, Altreconomia, 2020. ↑
- Mi sia consentito esprimere il mio pieno consenso a un’affermazione di Marco Travaglio (da cui pure mi separano tante cose, a cominciare dal giudizio su Montanelli): “Esistono due storie d’Italia. La storia vera, che tutti afferriamo per un attimo in presa diretta e poi subito dimentichiamo. E la storia falsa, riveduta e corrotta a suon di balle dai giornali e dalle tv dei padroni, che prima la taroccano e poi ce la fanno ricordare come vogliono loro. Ecco perché in Italia il problema numero uno non è né la politica, né l’economia, né la giustizia: è l’informazione (…). Che aspettiamo a ribellarci?”. (M Travaglio, Bugiardi senza gloria: i padroni delle news, in “Il Fatto Quotidiano”, 4 dicembre 2020, p. 17). ↑
- Si può anche notare che al dicembre 2020 si contavano a Cuba solo 145 morti i Covid (su 11 milioni e mezzo di abitanti) grazie a un sistema sanitario pubblico efficiente e articolato sul territorio. Dunque a Cuba un deceduto per 79.000 abitanti; negli Stati Uniti uno ogni 953 abitanti (dati della John Hopkins University, 26/12/2020); in Italia (senza contare la Lombardia) uno ogni 1.056 abitanti, nella Lombardia con la sanità formigonizzata uno ogni 405 (dati al 27 dicembre 2020). ↑
- Che alcuni di costoro, quando i loro padroni sono stati colpiti dal Covid, abbiano poi cambiato idea (tuttavia senza mai chiedere scusa) è un fatto che appartiene alla tragica ironia della storia. ↑
- Agnoletto 2020, p. 202. ↑
- Dal n.1575 al n.1608 nell’edizione critica commentata I sonetti, a cura di Pietro Gibellini, Lucio Felici, Edoardo Ripari, 4 voll., Torino, Einaudi, 2018; sono i sonetti dal n.1749 al n. 1782 nell’edizione a cura di Marcello Teodonio, Belli, tutti i sonetti romaneschi, Roma, Newton Compton, 1998. Nell’edizione curata da Bruno Cagli (Tutti i sonetti romaneschi, 5 voll., Roma, Newton Compton, 1975) il ciclo Er collera moribus è pubblicato in Appendice, vol. V, pp 495-529 (nn. 2217-2250). L’edizione Teodonio, che rispetta la numerazione dell’edizione nazionale, è stata generosamente resa disponibile on line (https://mondodelbelli.blogspot.com/2010/02/ecco-tutti-i-titoli-numerati-dei-2279.html) e da questa citiamo. ↑
- “Di valore”, di vaglia. ↑
- Cfr. Gibellini, Felici, Ripari, 2018, III, p. 3483. ↑
- La coltre funebre impegata per i riti di sepoltura. ↑
- Nel 1817 ci fu un’epidemia di tifo petecchiale. ↑
- M. Teodonio, Sta porcaccia infamaccia amalattia, Roma, Castelvecchi, 2021. Ringrazio il mio amico Marcello Teodonio per avermi consentito l’accesso al suo lavoro mentre ancora era in bozze di stampa. ↑
- Il rinvio d’obbligo è a: M. Teodonio, Vita di Belli, Roma-Bari, Laterza, 1993 (e ora: Roma, Castelvecchi, 2016). ↑
- Muscetta 1974, p. 251. ↑
- Cfr. infra sonetto n.1579 (1753), p. 000. ↑
- Abbiamo aggiunto per questo, assai raramente, anche qualche accento tonico ai testi: “magnnera” -> “maggnéra”, “bbiastimeno”-> “bbiastímeno”, “pidemeria” -> “pidemería”, “ammalappena” ->“ammalappéna” etc. ↑
- I dati sono tratti dal “Corriere della Sera”, 29 dicembre 2020, p. 10. ↑
- “o si chiami còllera o ccollèra, io ci gioco la testa…”. ↑
- Allusione al diffuso gesto apotropaico. ↑
- “se pure”. ↑
- L’ “Invito sacro” del cardinal vicario di Roma, Odescalchi, che decretava una novena straordinaria in preparazione della festa dell’Assunta del 15 agosto, in sedici chiese e oratori notturni, al fine di scongiurare l’epidemia. ↑
- “è uno sciocco se ne ha paura”. Il riferimento è all’ “editto” (in realtà un “Invito sagro” del cardinal Vicario) che, all’inizio di agosto, aveva indetto una novena di preghiere per la festa della Madonna Assunta la quale avrebbe protetto la città di Roma dal colera (“Roma ha una barriera, cui le Alpi ed i mari rassomigliar non si possono, e questa barriera è Maria…”, cit. in Gibellini, Felici, Ripari 2018, III, p. 3483). ↑
- “…un ingenuo, sor Marchionne, a preoccuparsi in questo modo”. ↑
- “Cordoni sanitari e ospedali”. ↑
- Si tratta di un oratorio detto “del Caravita” gestito dai Gesuiti in cui si esercitava la “disciplina”, cioè dopo la predica i convenuti, al buio, si auto-infliggevano delle frustate sul corpo denudato a scopo di espiazione devota. ↑
- Cioè non sarebbero più necessari (si potrebbero pure bruciare) i letti degli ospedali. ↑
- Tiburzio (uno degli interlocutori dell’osteria della Genzola, come Marchionne e Ciriaco). Ma chi parla, come si vedrà più avanti, è Silvestro. ↑
- Qui la deformazione è dunque doppia: “morbus” diventa “mmòribbus” e questa parola è interpretata come “se more”. ↑
- “Me ne infischio”. ↑
- “Pratico il sesso”. ↑
- “Che sono”. ↑
- “Cose spaventose”. ↑
- “O verità o bugie”. ↑
- “Ci ponga rimedio il frate o non ci ponga rimedio”. ↑
- “Ho da morire”. ↑
- “Essere il primo”. ↑
- “Non c’erano altri guai”. ↑
- “Vengono fuori”. ↑
- “Tutt’al più sarà morta qualche persona”. ↑
- Il fatto che siano indebitamente conteggiate come dovute al Covid anche altre morti è cavallo di battaglia anche degli attuali negazionisti. ↑
- Il prof. Bassetti direbbe: “È il caso di fare tanto ‘sciato’ come si dice a Genova, tutto questo casino?” (v. supra, p. 000). ↑
- “Sor Raimondo”. ↑
- “Vanno a cercarselo col lanternino”. ↑
- “Lo vogliono”. ↑
- “Una livrea”, cioè un servitore. ↑
- Si tratta di monsignor Fabio Maria Asquini, delegato apostolico ad Ancona. La deformazione del suo cognome da parte di Belli è intenzionale, e allude forse ironicamente alla statua di Pasquino. ↑
- Nel gennaio 2020 il settimanale “L’Espresso” rivela come, in occasione di una verifica fiscale effettuata nel luglio 2019 dalla Guardia di Finanza nella sua azienda a Saronno, Librandi abbia usato parole forti nei confronti dei finanzieri sostenendo di essere “un intoccabile” (“ ‘Io sono un onorevole, un intoccabile, voi siete morti. Chiamo il prefetto e la faccio sbattere fuori’. Così il renziano Librandi ha minacciato i finanzieri”, in “Il Fatto Quotidiano” 16 gennaio 2020;
“‘Io sono intoccabile e voi siete morti’. Così Gianfranco Librandi minacciò i finanzieri”, in ilgiornale.it, 16 gennaio 2020). ↑
- “Andatevi e riporre”, cioè andate via, sparite. ↑
- “bua” è parola infantile, dunque ironica, per designare un male, una malattia. ↑
- “Dà di piglio” (nota del Belli), cioè colpisce. ↑
- “Il clero”. ↑
- “asceti (aceti) de sette ladri”: era detto così un aceto fortemente aromatico che – si diceva – aveva fatto svenire dei ladri i quali, mentre erano impegnati in un furto, l’avevano respirato. Era convinzione diffusa che l’aceto avesse proprietà protettive nei confronti dei morbi ↑
- Monsignor Francesco Saverio della Grua, che faceva parte della Commissione per la gestione sanitaria del colera e che fu anche Uditore della Sacra Rota (è citato nel Ragguaglio storico del solenne possesso del Sommo Pontefice Pio IX, minutamente descritto, con i nomi del componenti la Cavalcata…, 1846). ↑
- “Semmai”, tutt’al più. ↑
- San Rocco (Montpellier 1295 ca.-1327), curò i malati di peste e ne morì; è rappresentato nell’iconografia con una gamba affetta da ulcere ed è considerato protettore dalle pestilenze, non a caso particolarmente venerato nelle città sedi di porti, più esposte dunque al contagio (come Napoli e Venezia, ma anche a Roma la chiesa a lui dedicata è prospiciente al porto di Ripetta). Nella nota a questo sonetto Belli ricorda che “San Rocco è il nome di un ospedale di ostetricia”, la “devozione” di tutte le donne di Roma, “bbelle o bbrutte, spesciarmente le vedove e zzitelle”, può dunque alludere a pratiche abortive, o forse anche alle malattie veneree. ↑
- “Bestemmiano”. ↑
- “Da mandarli a difendere i litorali”. ↑
- “Quando un esercito c’è”. ↑
- “Teatini”, certo intenzionalmente citati con erroneo nome. ↑
- “Baraonde”, cioè mescolanze confuse di gente. ↑
- Solo i francescani debbono essere lasciati stare per non far ribellare le donne a cui sono – e reciprocamente – legati. ↑
- “Essendosi scoperto”. ↑
- “Quel povero Bertoldo” (cioè re Ferdinando II Borbone). ↑
- “Che previsione gli faccio?” ↑
- “In quella confusione”. ↑
- “Per cappone”. Allusione alla fama di scarsa virilità che accompagnava quel re. ↑
- “Giambattista”. ↑
- “Questi scemi”. ↑
- Il ponte che unisce Lungotevere all’isola Tiberina, chiamato “Quattrocapi” per i marmi di Giano qaudrifronte. ↑
- “Sergente”. ↑
- “Confusioni, guai”. Ma si noti l’aggettivo “mortissime” che nella sua deformazione evoca ancora una volta la morte. ↑
- “Capri”. ↑
- “Gli voglio dire se…”. ↑
- La domanda, che riguarda l’Inghilterra in quanto isola, non a caso verrà rivolta a un “zervitore ingrese”. ↑
- I rigori del cordone sanitario. ↑
- “Dava di piglio”, afferrava. ↑
- “L’invenzione” (il microscopio). ↑
- “Di artigli”. ↑
- “Flagello”. ↑
- Dunque il privato gestisce il 21,08% dei posti letto e riceve il 40% del budget totale della Regione Lombardia. ↑
- “Diciotto miglia” (cioè si avvicina velocemente). ↑
- “Semplicemente”, facilmente, come se niente fosse. ↑
- “Sarei”. ↑
- Il biblico Lot. ↑
- “Se avesse lasciato i figli a Pentapoli”. ↑
- “Beveva, si ubriacava”. ↑
- Un’altra allusione ironica all’impotenza di cui era tacciato re Ferdinando. ↑
- “Vuole”. ↑
- “Siano tutti scapoli”, cioè nessuno si congiunga o si sposi. ↑
- Maschera napoletana cialtrona con cui si allude al re di Napoli. ↑
- Il gestore dei trasporti fra Napoli e Roma. ↑
- “Fermato” (ma la deformazione rafforza il verbo). ↑
- “Gli vanno in appello due cause”, dunque un’urgenza legata al tribunale ↑
- “Fosse anche”. ↑
- “Che faccia la fine degli assassini”, cioè subisca le pene gravissime previste per i trasgressori, fino alla fucilazione. ↑
- “Sarebbe bella”. ↑
- Si era diffusa la voce che il papa, per sfuggire il contagio, avesse pensato di abbandonare Roma (“d’abbandonacce”) per Montecassino (ma la scrizione “Monte-Casini” forse insinua anche altro). ↑
- “Ci morisse” (impagabile l’immagine del papa “un tantino fuscilato” che segue). ↑
- Si allude alla proibizione delle sepolture nelle chiese portata anche in Italia da Napoleone. In questo sonetto, e nel prossimo, si può leggere una sorta di Sepolcri foscoliani, ma declinati dalla voce del popolo romano di Belli. ↑
- “Solamente che adesso”. ↑
- Credo che “sta Pulizzia fetente” potrebbe riferirsi sia al contagio sia al controllo dell’igiene che motivò la sepoltura fuori città. ↑
- “Pregiudica”, arreca pregiudizio o danno. ↑
- Nota del Belli: “È circa un mese che il terrore del cholera ha fatto finalmente riconoscere il reo pregiudizio, per cui la inumazione nei cimiteri si riguardava come una empia profanazione”. ↑
- “Vedere buttare”. ↑
- Nome dato al cimitero fuori del centro abitato, in questo caso forse il Verano istituito proprio nel 1835 da Gregorio XVI. ↑
- “Moda” e “caricature”, cioè esagerazioni ridicole, sono gli appellativi riservati dal reazionario locutore ai provvedimenti “a la francese”. Ma Belli fu invece favorevole a quei provvedimenti (come si evidenzia nella precedente sua nota al v.7). ↑
- Cioè un rimedio del tutto inutile. ↑
- “Ogni qual volta”, che qui significa “dato che…”. ↑
- Si tratta della sorella di Belli, Flaminia, poi diventata suor Maria Beatrice. Qui si legge una nota dello stesso Belli (una delle pochissime in cui parla di sé): “La monaca, che si disse da lui miracolosamente guarita da una cronica e mortale afagia, mercé l’ingollamento di un bicchier d’acqua con un pezzo di pane ivi immerso, fu suor Maria Beatrice di S. Carlo Borromeo delle perpetue adoratrici del Sacramento, già al secolo Flaminia Belli e sorella di un G. G. Belli che s’impaccia di scriver versi italiani ad un tempo stesso e non italiani.” ↑
- “Di riempirli” (i cimiteri). ↑
- Fra Bernardo, taumaturgo e arci-negazionista, rimprovera il papa (con una “canonica”, cioè una scenata) perché si dà troppo pensiero per il colera. ↑
- “Una chimera”, una illusione. ↑
- “Di fuga”. Cioè quand’anche il morbo arrivasse sarebbe messo in fuga con “un pezzo de miracolo” dal frate. ↑
- Un medico francese, Boyer, che affermava di aver trovato un rimedio contro il colera. Il suo cognome è deformato qui, e nel sonetto seguente, in “Boietto”. ↑
- Si tratta della cosiddetta corallina nera, un’alga usata come vermifugo. ↑
- “Efficacia” (ma, ancora una volta, l’errata grafia determina un doppio senso). ↑
- “Questo effetto”. ↑
- “Quand’ero bambino”. ↑
- “Ci agguanta, ci prende”. ↑
- “Non moriamo più”. ↑
- Cfr. sonetto precedente, n. 1593 ↑
- Il mercurio. ↑
- “Del valletto”. ↑
- “Omeopatico”. La deformazione grottesca della parola rivela il profondo disprezzo manifestato, anche altrove, dal Belli per la medicina omeopatica. “Gnobbatico” ricorda “impiombare”, che in romanesco significa “imbrogliare”, dare fregature, ↑
- “Il sistema digestivo”. ↑
- “Che si è trovato”. ↑
- “Con una moneta”. ↑
- “Comodo”. ↑
- Se debba toccare la pelle la facciata con “l’arma” (cioè l’erma, la testa) o quella con “il santo” (“arma” e “santo” erano le due facce della moneta, più o meno corrispondenti a “testa” e “croce”). ↑
- “Chi vuole…” introduce un elenco di rimedi immaginari e assurdi: il cannello, la patacca, il laudano, il thè, una camicia di flanella, il vischio dell’abete, la canfora, l’olio, l’aceto, e perfino dormire con una vacca. ↑
- “Alle donne incinte”. ↑
- “Farselo infilare”. ↑
- Secondo la diffusa polemica anticlericale belliana (cfr. supra i sonetti n. 1577 e 1581), i confessori partecipano, con mariti e amici, all’elenco di chi dovrebbe mettere incinte le donne romane. ↑
- “Corrispondere”. ↑
- Così era detta la chiesa di S. Maria in Aquiro. ↑
- Si ricorda l’esortazione del premier britannico Johnson a prepararsi a vedere morire i propri cari, cfr. supra p. 000. ↑
- “Nel visitarci”. ↑
- “Ne eccettua”, per qualcheduno fa eccezione. ↑
- Cfr. supra i sonetti 1577, 1581, 1595. ↑
- “Qua non si tratta di fiori di malva”; l’infuso di fiori di malva era usato come blando lenitivo, dunque qui si vuol dire che non si tratta di un rimedio semplice o facile (oggi si potrebbe dire: “all’acqua di rose”). ↑
- L’allusione del predicatore lasciata oscura (e perciò tanto più forte) fa intendere l’invito rivolto alle donne (“fijjole”) di farsi mettere incinte. ↑
- “Adesso voglio credere che mi sia permesso”; gli errori lessicali plebei contrastano in modo umoristico con il tono cerimonioso di questo intervento. ↑
- Si tratta di un modo di nominare la diarrea, forse anche deformando il nome di cholera morbus. ↑
- “Che vada per secesso”; il “secesso” (qui deformato in “successo”) è un luogo appartato, che però naturalmente assuona con “cesso”. ↑
- Diminutivo di “diarrea”. ↑
- “Di intestini”. ↑
- “Si rappezza”, si cura. ↑
- “Foglietta”. La bottiglia piccola in uso nelle osterie. E si noti che “acquavite” è deformato in “acquavita”, alludendo alla proprietà salvifica dell’alcool. ↑
- L’interlocutore nega la tesi del sonetto precedente n.1597. ↑
- “Di storia naturale. Dicesi che fosse il signor Alessandro Moreau de Jonnès.” (Nota del Belli). ↑
- Il cardinale Tommaso Bernetti, segretario di Stato del papa. ↑
- “Quindici” (di settembre). ↑
- “Gli insetti”, cioè i microbi ritenuti portatori del colera. ↑
- “Il quindici settembre a mezzanotte”. La precisazione dell’ora sottolinea il carattere ridicolo della previsione. ↑
- “Forse verranno”. ↑
- “Disgrazia”, sfortuna (il colera). ↑
- “Generi coloniali”, ma ancora una volta si noti la deformazione oscena della parola. ↑
- “Cacao”. ↑
- L’espressione, priva di senso, è in realtà una bestemmia deformata e dunque eufemisticamente nascosta. ↑
- “Vi basti questo tantino di cosa da nulla”, così l’irrilevanza della cosa che si appresta a dire è rafforzata nella ripetizione. ↑
- “Un palmo di flanella”; indossare “una casacca de fanella” – come si ricorderà, nel sonetto n.1595 vv.3-4 – era indicato fra i rimedi della malattia. ↑
- “Faccenda”, nel senso però di imbroglio. ↑
- “I fondi di magazzino più avariati”. ↑
- “Ci cuoce”, cioè ci rovina. ↑
- “Una festa”. ↑
- “Inibire”, vietare. ↑
- “Signor faccia brutta, nera come il fondo di un tegame”. ↑
- “Ci guadagna due paoli”, cioè pochi soldi. ↑
- Giovanni Paterni, un impresario teatrale. ↑
- “Tremarella”. ↑
- “Ci vince un terno”, cioè alla fine ci guadagna. ↑
- “Supponiamo che venisse il colera”. ↑
- “Una novità”, una notizia. ↑
- “Due signori” (il “paìno” è chi veste bene, con ricercatezza). ↑
- Il fatto (cioè la sospetta malattia di un russo che diffuse il panico) è storicamente vero, e si verificò il 5 settembre 1835. Il sospetto si rivelò però infondato. ↑
- La locanda Pestrini, a via del Babuino. ↑
- “Si sono spaventati”. ↑
- “Alla frontiera”. ↑
- “C’è chi vuole”, che pensa. ↑
- Come dire: “Questo russo benedetto”. ↑
- “Che è andato a denunciarlo”. ↑
- Per analogia a “una febbre da cavallo”. ↑
- In realtà il dottor Agostino Cappello emerge dalla ricostruzione di Teodonio (2021) come una sorta di eroe laico della scienza e della difesa della salute pubblica; denunciò instancabilmente il contagio e propose (senza essere ascoltato) provvidenze per limitarlo o per porvi rimedio; inoltre condusse autonome ricerche sulle caratteristiche del male e le possibili cure. Cfr. supra, p. 000. ↑
- “Camicione”. ↑
- Cioè delle erbe aromatiche che si pensava avessero potere protettivo. ↑
- “Cosa è questa mascherata?”. ↑
- Due maschere del teatro napoletano. ↑
- “Acconciatura”. ↑
- “Ai piedi del letto”. ↑
- “Per spacciarli (…) de pavura”, per farli morire di paura. Come si ricorderà, il medesimo argomento (non spaventare i malati) è stato usato anche nella gestione lombarda del Covid per proibire al personale medico di indossare le mascherine nei reparti. Ne è derivato il triste record lombardo di morti di Covid fra medici e personale ospedaliero (oltre a una diffusione esplosiva del contagio in ospedali e RSA). ↑
- Il carretto che trasportava i morti. ↑
- “Di quanti cardinali in pectore non abbia il papa”; i cardinali in pectore sono quelli che il papa intende nominare ma senza ancora svelarne l’identità. ↑
- Come è noto, una delle più ripugnanti polemiche della destra, più o meno negazionista, ha riguardato la proibizione dei festeggiamenti di Natale in famiglia, delle Messe di mezzanotte, etc., che avrebbero comportato una ulteriore strage specialmente degli anziani. In questo modo la destra, d’improvviso scopertasi religiosissima, ha voluto cavalcare demagogicamente (sembra non senza successo) un disagio davvero molto grave per il nostro popolo. Belli ci ricorda che c’è stato almeno un precedente, nel 1836, fu quello “er primo Natale che ss’è vvisto senza manco un boccon de piferari”. ↑
- Da notare l’accumulo delle disgrazie citate dal reazionario personaggio messo in scena da Belli: la libertà è in elenco con la carestía, i diluvi, la peste, la guerra, etc. ↑
- “Agata”. ↑
- Il regno di Napoli. ↑
- Pulcinella (di Acerra). ↑
- “Un boccon”, cioè “un poco”. I pifferai (o anche zampognari) provenienti dal regno di Napoli venivano a Roma per il Natale, ma quell’anno anche a loro era stato interdetto l’accesso alla Città. La posizione personale di Belli è tuttavia invece favorevole al provvedimento (come si evidenzia nella nota al verso ). ↑
- Cfr. Teodonio, 2021, pp. 000, 000, e anche infra il sonetto n.1578. ↑
- “Lenzuolo”, in riferimento all’editto del Vicario. ↑
- “Gravissimo flagello”. ↑
- “E ce lo manda”. ↑
- “Prevaricato”, si leggeva nell’editto citato, ma la deformazione di Belli (“pprecarivato”) allude anche alla precarietà della situazione. ↑
- “Per non lasciarci un secolare (un laico) vivo”. ↑
- “Alle costole”, cioè addosso a te. ↑
- “Salverà solo Gaetanino (Gaetano Moroni, suo intimo aiutante di camera) e l’oste”, alludendo anche alla propensione al bere di cui era tacciato papa Gregorio XVI. ↑
- “Pigli un granchio”, ti sbagli. ↑
- Ciriaco (uno degli intelocutori presenti all’osteria della Genzola). ↑
- Un caso di bestemmia leggermente modificata. Significativo che bestemmi il personaggio devotissimo che parla. ↑
- Pietro Casamia, un astrologo veneto del ’700 autore di un fortunato “lunario”, un prontuario usato anche per la previsione dei numeri vincenti del Lotto. ↑
- “In bugia”, cioè in errore. ↑
- “Il servitore decano del cardinale Del Drago”. ↑
- “Si proibisce il lago”, cioè l’allagamento di piazza Navona che aveva luogo i sabati e le domeniche di agosto. Questa, assieme alla processione, è la “ggran precavuzzione” presa da Governo. Una nota del Belli avverte: “Si credeva che quella umidità potesse nuocere in simile circostanza; ma poi non fu il lago vietato”. ↑
- “Adesso corre la voce”. ↑
- “L’effetto”. ↑
- Ritorna la tragica persuasione del contagio diffuso ad arte ad opera di misteriosi nemici, dagli untori fno alle tesi di Meluzzi e Co. (cfr. supra, pp.000). A Roma ciò condusse il 14 agosto 1837 al linciaggio di un maestro di inglese, tale Kausel, accusato ai piedi del Campidoglio da una donna. ↑
- “Per rovinarci”. ↑
- “Faccio come il papa”, Gregorio XVI che, si ricorderà, aveva fama di bevitore. ↑
- “Possono fare come gli pare”. ↑
- “Non sia”. ↑
- “Chi vuole preservarsi”. ↑
- “Medicarsi”, curarsi. ↑
- “Impiastri, lavande e suffumiggi”. ↑
- Un’apparizione della Vergine a S. Caterina Labouré provocò, nel 1832, una grande diffusione di una medaglietta con la sua immagine: “Ferdinando II ne fece distribuire alla popolazione un milione di esemplari” (Gibellini, Felici, Ripari 2018, III, p. 3542). La si può acquistare tuttora, al prezzo di €.225 in oro massiccio (9 carati) e di un solo euro se in metallo più vile all’indirizzo: https://www.boutique-di-lourdes.com/Liste.php?k=medaglia-miracolosa-primo-prezzo&IDCat=44&SIDCat=196&Tri=Clic&Limit=35&show=1. ↑
- “Invece di fare bene farebbe male”. ↑
- “Non ci badare”. ↑
- “Si riaprono”. ↑
- “Sfracellata”. Ancona fu particolarmente colpita dal contagio e sottoposta a cordone sanitario fino al novembre 1836. ↑
- “Papà”. ↑
- “Salvo (che si verifichi) il caso di qualche altra morte”. ↑
- Protettore di Ancona. ↑
- “Vuoi”. ↑
- “Come sarebbe a dire?” ↑
- “Li seppelliscono”. Ancora un’allusione alla rinuncia degli uffici funebri. ↑
- “Ci ritroviamo in mezzo”. ↑
- “Bisogna dunque pensare a diventare bigotti”. ↑
- Nome, dispregiativo, dei meridionali, e dei napoletani in specie. ↑
- “Per fortuna – oltre al sindacalismo di base, attivo soprattutto nella logistica – ci ha pensato la segretaria della Fiom Francesca Re David a difendere l’onore del sindacato italiano e a sostenere gli scioperi dilagati nella scorsa settimana “perché gli operai si sentono figli di un dio minore”, dichiarando che “non è tollerabile che vedano la loro vita di tutti i giorni protetta e garantita da tante norme, ma una volta superati i cancelli della fabbrica si trovino in una terra di nessuno”. E invitando Bonometti “e chi ragiona come lui a farsi un giro in autobus per andare in fabbrica e a lavorare nelle linee produttive dove la distanza tra le persone è di pochi centimetri”. Dove le mascherine scarseggiano o non si vedono neppure. Dove i controlli sanitari all’ingresso sono inesistenti. Dove le mense sono poco o nulla sanificate. E dove in caso di chiusura dei reparti non indispensabili alla produzione si chiede ai dipendenti di usare le ferie maturate, cioè di pagare di tasca propria l’emergenza. Condizioni ottocentesche, che portano alla superficie, con la drammaticità del momento, una condizione operaia precipitata, nel corso dell’ultimo quarto di secolo, al livello più basso delle garanzie, dei diritti, del reddito e della considerazione sociale.” (Agnoletto 2020). ↑
- “È andata”, è finita. ↑
- Furono nominati deputati della “Commissione speciale di sanità per il colera” il conte Luigi Primoli e il membro della camera di Commercio Pietro Torti (un coppia che potremmo paragonare a un’eventuale accoppiata Fontana-Bonometti), che – evidentemente – non incontravano la fiducia dei personaggi di Belli. ↑
- “Si trasporti”. ↑
- “Da dove escono morti”. ↑
- La citazione evangelica è sbagliata, e lo è ancora più la traduzione che ne rovescia il senso. In Luca 6, 24 si legge infatti un passo del Discorso della montagna: “Verumtamen vae vobis divitibus, quia habetis consolationem vestram…” (“Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione…”). ↑
- “Queste sciocchezze”. ↑
- Cioè non mette in opera nessuna forma di isolamento sanitario. ↑
- “Tolone”. ↑
- “Oh fanculo! Oh sacro Nome!”, dunque Belli immagina una doppia esclamazione del re di Francia Luigi Filippo, una volgarissima e una ispirata alla religione. ↑
- “Favorisca pure”. ↑
- “Educati”. ↑
- “Non fargli”. Non si può fare a meno di notare che analoghe preoccupazioni di “non ruvinà l’affari” ispirarono la politica di Macron nei confronti del Covid, ritardando fatalmente l’adozione di misure di lockdown in quel Paese. ↑
- “È una specie di cambio al sei per cento”, cioè un affare. ↑
- Nome per il re di Francia, basato sull’espressione volgare già usata nel precedente sonetto n. 1586. ↑
- “Venditore di fusaglie”, cioè di lupini, che venivano di solito dal Veneto come papa Gregorio XVI originario di Belluno. ↑
- Un altro mestiere diffuso fra i Friulani. ↑
- “Ne ha seguito tutte le orme”, cioè ne ha preso esempio, riferendosi al comportamento del re di Francia descritto nel sonetto precedente n.1586. ↑
- I cardinali Bernetti e Camerini responsabili, rispettivamente, degli affari esteri e di quelli interni del papa. ↑
- “Li tirerà fuori da questi imbroglioni dei banchieri”. Insomma, a quanto sembra, papa Gregorio XVI (a differenza del Governo italiano) non escludeva affatto una tassa patrimoniale, solo che la rimandava “a ccose più avanzate”, cioè a data da destinarsi. In effetti Teodonio (2021, p.000) ricorda: “Così il 6 settembre il Tesoriere generale della Reverenda Camera Apostolica invia a tutti ‘i Capi delle Provincie, cioè agli Em.i Sig. Cardinali Legati, ed ai Prelati, Pro-Legati, e Delegati’ una circolare riservata ‘acciocché le Medesime prestino ajuto all’Erario con una tenue colletta sussidiaria per una sola volta, la quale corrispondendo a circa un paolo per ogni persona, non sia d’aggravio ad alcuno’. E dalle città e delegazioni arrivano via via le offerte: dal Prolegato di Ferrara, 20.000 scudi; dal Delegato di Viterbo, 10.000; dal Legato di Pesaro e Urbino, 21.000; dal Legato di Forlì, 18.000; dalla Amministrazione Camerale di Bologna, 10.000…”. Attiro l’attenzione sulle specificazioni che la colletta sia “tenue”, “per una sola volta” e che “non sia d’aggravio ad alcuno”. ↑
- “Giudei”. ↑
- “Sono parole da dirsi”. ↑
- “Ma che davvero vuoi giocarti il sole?”, cioè finire in galera. ↑
- La spianata di Termini, davanti alle terme di Diocleziano, era un luogo per galeotti, addetti ai lavori forzati. ↑
- Ad eseguire, con le pale e le carriole, i lavori di sterratura a cui erano addetti i forzati. ↑
- Una nota del Belli chiarisce: “La funzione che qui si ricorda è di storica verità. I galeotti ebbero gli esercizi di penitenza onde ottenere da Dio pietà per loro e per noi. Nell’ultimo giorno delle sacre funzioni ricevettero tutti la eucaristia, nel forte S. Angiolo, e quindi così santificati furono ricondotti processionalmente e in catene al loro bagno ne’ vecchi granai dell’Annona alle Terme.” ↑
- N. Chomsky, Crisi di civiltà. Pandemia e capitalismo, e-book, cit. in Agnoletto 2020, p. 202. ↑
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