Destituzione intellettuali (per Perniola 19-20 ottobre 2007 uscito su “Agalma”, n.15, marzo 2008, pp.43-49)
Raul Mordenti
L’altra critica degli intellettuali
Bisognerebbe distinguere letteratura e intellettualità, scrittori e intellettuali, ma il fatto che il primo termine tenda quasi naturalmente ad occupare tutto lo spazio (tanto più vasto!) del secondo è di per sé significativo: se l’intellettuale può essere confuso con il letterato è forse perché l’intellettualità in quanto tale, anzi la cultura stessa, trova nella parola, nella parola ricercata ed emozionante, nella parola profonda e pregna di senso, nella parola efficace, il suo paradigma fondativo. Variano nel tempo e nei luoghi le professioni e i ruoli in cui s’incarna l’efficacia sociale della parola: poeti, sciamani, indovini, filosofi, rètori, maestri, profeti, rabbini, aedi, sacerdoti, filologi, bibliotecari, monaci, chierici, ambasciatori, cancellieri, consiglieri, storiografi, preti, letterati, predicatori, missionari, papi, philosophes, romanzieri, rivoluzionari, vati, professori, scrittori, propagandisti, ministri, capi, oratori, giornalisti, leaders, creativi, pubblicitari, opinion’s makers, guru, poeti. (Mi permetto di far notare che nell’ordine di questo breve elenco ho cercato di riprodurre addirittura una breve storia della cultura universale la quale, ahimé, come Borges direbbe, coincide largamente con una breve “Storia universale dell’infamia”).
È nel nesso difficile con i poteri veri del potere vero che questa primazia della parola (e dunque, nella modernità, anche della letteratura) si costituisce.
Eppure la parola, nella sua volatilità, sembra (è sembrata a lungo) deprivata di potere, di fronte alla concreta durezza dei poteri della spada, della toga, dell’altare e, modernamente del denaro. E sono infiniti i luoghi del senso comune in cui si esprime, fino al disprezzo, la consapevolezza di questa debolezza sostanziale, di questa radicalissima inferiorità della parola nei confronti del fatto (“Sono solo parole”, “Chiacchera quanto vuoi”, “Sai soltanto parlare”, “Tutto chiacchere e distintivo!”, “Servono i fatti, non le parole”, etc., fino al rovesciamento del rovesciamento che rende geniali gli aforismi di Flaiano: “Fotti, non parole!”); c’è dunque qualcosa di estremo e di provocatorio, come è necessario che sia negli atti fondativi, nella rivendicazione del potere della parola in rapporto ai fatti del potere, giacché “rapporto” implica necessariamente autonomia (sono due entità, diverse e irriducibili, non una sola, che entrano in rapporto) e l’autonoma parola è spesso al servizio del potere, certo, ma paradossalmente pretende di servire in quanto autonoma, anzi in effetti serve tanto di più quanto più è, o mostra di essere, autonoma, anche se questa apparenza reale voluta dal potere comporta il rischio che la parola possa essere talvolta, almeno potenzialmente, contro il potere stesso.
In nessuno come in Petrarca (autentico fondatore anche in questo) possiamo leggere la coscienza di questo paradosso; il fondatore, anzi il consapevole creatore, del duraturo modello di intellettuale umanista e cosmopolita dell’Occidente, risponderà all’ingenuo Boccaccio, (che, nell’Epistola X gli rimproverava di essersi messo al servizio del tiranno Visconti sobbarcandosi “al giogo”, e per giunta – come scrive Boccaccio – “non allettato, non costretto, ma spontaneamente”):
“Né so io qual giogo sia più grave e più molesto, se quello di un solo che porto io, o quel di molti che [porti] tu: stimo peraltro men dura la tirannia di un uomo che quella di un popolo” (Seniles, VI, 2),
essendo per lui la “tirannia (…) di un popolo” quella che l’ancora intellettuale organico Giovanni Boccaccio subisce dal suo Comune fiorentino, ancora oscillando (e con lui tutta la nostra potenziale tradizione, ma ancora per poco) fra il modello vittorioso di Petrarca e quello antico e sconfitto di Dante.
Petrarca può formulare quella sua brillante, folgorante, ed agghiacciante, risposta perché pensa un’altra cosa, a ben vedere assai bizzarra:
“Anche se sembro sottoposto a un duro giogo, mai uomo al mondo fu più libero di quel ch’io fossi (…). Libero dico nell’animo, perché nel corpo e nelle altre cose conviene per forza esser servi a chi può più di noi.” (Ibidem).
Apparenza di servitù e sostanza di libertà, servitù nel corpo e “nelle altre cose” e libertà “nell’animo”, e comunque rivendicazione costante della propria libertà assoluta, incommensurabile, perfetta: ecco fondata l’autonomia dell’intellettuale. Questi stessi eccessi, questa esibizione ossessiva, questa manìa di autonomia chiedono naturalmente di essere interrogati, come un lapsus (non proclama di continuo la propria autonomia chi è autonomo davvero, semmai costui si limita ad esercitarla l’autonomia).
Noi sappiamo ormai che quest’autonomia degli intellettuali è apparenza e truffa, per meglio dire essa è al tempo stesso una sopravvivenza e un sogno: una sopravvivenza, di forme feudali e pre-capitalistiche ben oltre il feudalesimo e ben dentro il capitalismo realizzato (anzi perfino dopo, se solo ci fosse qualcosa dopo di esso), insomma segno della costitutiva longue durée di una condizione (quella intellettuale, appunto) che vive più di ogni altra dell’appartenenza a una tradizione, tradizione di parole che generano, beninteso per partenogenesi!, altre parole; è ciò che permette, ad esempio, a Benedetto Croce – per dirla con Gramsci – di sentirsi legato a Platone ed Aristotele più di quanto non sia legato ad Agnelli (la dialettica, naturalmente, è tutta in questa differenza fra il “sentirsi” legato ed “essere” legato). Ma l’autonomia è anche un sogno, perché è il perfetto rovesciamento onirico di una realtà fatta prima di personale servitù, poi di concretissima sussunzione delle proprie capacità all’interno di processi produttivi del tutto eterodiretti: il paradosso (e non è il solo) degli intellettuali e dei letterati è che il loro sogno di libertà incondizionata, ab-soluta e il-limitata, coincida con la propria ideologia corporativa, con ciò che negli altri mestieri è rappresentato di solito dalla più asfittica delle auto-definizioni: insomma, mentre almeno il sogno del ciabattino non coincide affatto (credo) con la ristretta rivendicazione di corporazione della sua categoria, per l’intellettuale invece il sogno e il corporativismo “di mestiere” coincidono miserabilmente, descrivendo l’utopia dell’autonomia servile dell’intellettuale.
Il nome collettivo di “intellettuali” – ci dice anche Bauman (nel suo libro La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti) – è relativamente recente: esso risalirebbe a Clemenceau, o al j’accuse di Zola; se così fosse, sarebbe un inizio davvero strano, che coinciderebbe quasi con una fine. Ma la cosa precede di gran lunga il nome. E la cosa coincide per Bauman con l’inizio stesso dell’età moderna. La funzione sociale, che si fa ceto e che prende il nome collettivo e ambiguo di “intellettuali”, avrebbe anzi conosciuto un’epoca felice in cui ad essa era affidato un compito regolativo e progettuale dell’intera società.
Proprio (e non per caso) nel momento in cui essa finisce, Zygmunt Bauman ha descritto la nascita di questa configurazione, collocandola nel momento in cui le società occidentali sconvolte da un pervasivo senso di insicurezza (“Paura sempre, paura ovunque”, per dirla con le parole di Lucien Febvre che descrivono l’inizio dell’età moderna) non potettero più affidarsi all’antico ordine del villaggio e dell’agricoltura, tutto intessuto di naturalità e di consuetudine, della trasparenza della reciproca conoscenza e del controllo reciproco, e di statica gerarchia; allora le nostre società furono costrette al grandioso sforzo (collettivo, politico-sociale e appunto: intellettuale) della regolazione, della legislazione, della registrazione di massa, del controllo e della norma, dell’insegnare e del “sorvegliare e punire”, e soprattutto allo forzo della progettazione consapevole (ma dunque sottoposta a discussione teorica, cioè politica) della società degli uomini.
(Ma forse il rapporto, che appare direttamente proporzionale, fra la realtà dell’insicurezza dell’uomo, il suo bisogno di senso, e la funzione consolatrice e risarcitoria della parola intellettuale è di ben più lunga durata e andrebbe indagato nel profondo passato più di quanto non voglia fare la sociologia di Bauman: forse, c’è una necessità umana di padroneggiamento intellettuale, fosse anche la favola del prete, ovunque gli uomini non padroneggiano se stessi e i propri destini; forse, allora, il problema che potremmo definire del “come liberarsi della necessità dell’intellettuale” coincide con ben altro problema, con il problema stesso di dare senso al mondo).
Comunque è allora, all’alba della modernità, che Hobbes, rivolgendosi appena indietro, può definire nel Leviatano (1651) lo “stato di natura” dell’umanità come una situazione deprecabile in cui “la vita umana” è “cattiva, brutale e breve” (ediz. it. p. 120, cit. in Bauman, p. 67).
Fu allora che, per dirla con le parole di Bauman, la figura del guardacaccia lascia il posto a quella del giardiniere: il primo, il guardacaccia dell’ancien régime, si guardava bene dall’intervenire sulla vegetazione e sugli animali affidati alla sua cura, né aveva “alcuna intenzione di trasformare lo stato del territorio per avvicinarlo a un artificioso ‘stato ideale’”; egli si limitava a:
“garantirsi una quota della ricchezza di beni (…) assicurarsi che la quota sia raccolta e impedire ai guardacaccia abusivi (bracconieri come vengono chiamati i guardacaccia illegali) di sottrarne una parte.”
Il secondo, il giardiniere che s’impiccia (per così dire) fino al dettaglio delle forme che il suo territorio assume, anzi deve assumere!, è invece metafora del potere che presiede alla modernità e della sua hybris tutta intessuta di intellettualità..
L’età dell’illuminismo (da intendersi in realtà come il tempo lungo della gestazione della società borghese, e poi come quello ancora più lungo della sua decadenza e crisi) segna evidentemente il trionfo di tale modello di gestione intellettuale delle cose del mondo; e si noti: intellettuale perché progettuale, ma dunque artificiale. Non si confonda con la naturalità l’appello di tanto illuminismo al mitico stato di natura; si tratta, ancora una volta, di una paradossale contraddizione: lo stato di natura che si rimpiange e si evoca è paradossalmente il massimo dell’artificialità e del progetto, è, appunto, un programma (quando non è più un’utopia) per realizzare il quale niente è più contrario dell’abbandonarsi alla spontaneità della natura e alle sue leggi. Diventa necessaria la politica, cioè l’intellettualità che si fa storia.
Con Hegel gli intellettuali vengono identificati addirittura con la “classe generale” che assume come fine della propria attività “l’universale”, perché in essi si concentrano “la coscienza dello Stato e la cultura più eminente”, due cose che sono, a ben vedere, una cosa sola (Lineamenti della filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1954, pp. 260-282). E proprio questa vocazione costitutiva all’universalità sarà conservata intatta nei marxismi (anche se sottoposta ad un preteso rovesciamento di classe, in verità tutto da verificare); Lukàcs arriverà a dire (in Storia e coscienza di classe, del 1922-23) che:
“Ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese non è il predominio delle motivazioni economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità.”
L’intellettuale-giardiniere diventa così (per dirla con Sartre) “specialista dell’universale”, un ossimoro vivente. Pochi anni dopo il gran libro di Lukàcs, nel 1927, Julien Benda percepiva la crisi di quel modello, la fine, che lui preferì definire tradimento, dei chierici, incredibilmente da lui definiti ancora come:
“quella classe di uomini (…) la cui attività, per natura, non persegue fini pratici ma che, cercando la soddisfazione nel possesso di un bene non temporale, dicono in qualche modo: il mio regno non è di questo mondo.” (Il tradimento dei chierici, p.000).
Mentre Benda scriveva, il regno di questo mondo andava però diversamente dai suoi desideri: il fascismo aveva già vinto in Italia e si apprestava a vincere in Germania.
Così due anni dopo l’avvento di Hitler, nel giugno 1935, anche Julien Benda si ritrovò nella sala della Mutualité di Parigi al Congresso mondiale degli intellettuali per la Difesa della Cultura, forse il punto più alto della storia dell’intellettualità del Novecento; c’erano Musil, Gide, Ehrenburg, Klauss Mann, Pasternak, Mounier, Barbusse, Malraux, e mille altri (Benjamin, presente in quella sala, non prese la parola). Brecht, estremista come sempre, concludeva così il suo intervento:
“Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà! Ecco quello che volevo dire a proposito della lotta contro la barbarie.”
Incombeva ormai la catastrofe della guerra e la conseguente fine dell’Europa illuministico-borghese e di ogni sogno di governo autonomo dei suoi intellettuali; beninteso: di ogni sogno che non fosse la politica (cioè la loro partecipazione diretta ad un conflitto che si svolgeva ora con ben altri protagonisti).
La politica si conferma essere, in questo senso, non solo la forma più alta di governo intellettuale del mondo ma anche il suo esito; e la democrazia è indubbiamente la forma più alta di politica. Il problema (fecondo problema!) nasce dal fatto che la democrazia, almeno nella sua accezione più rigorosa e conseguente, presuppone addirittura (spesso senza avere il coraggio di confessarselo) che tutti gli uomini siano intellettuali (ma dunque che nessun uomo sia più intellettuale di un altro, anche se càpita che solo alcuni facciano di mestiere l’intellettuale, esattamente come – fu detto – tutti sono capaci di cuocersi un uovo al tegamino o attaccarsi un bottone, anche se solo alcuni fanno di mestiere i cuochi o i sarti).
Del tutto coerentemente, quella proposta inaudita (nel doppio senso della parola “in-audita”: cioè mai sentita prima, e rimasta del tutto senza ascolto dopo che fu formulata) alludeva alla più radicale critica teorica dell’intellettuale, nel momento in cui proclamava l’incoercibile valenza intellettuale del lavoro umano (si noti: del lavoro produttivo e collettivo storicamente dato, non del lavoro mitico e a-storico dell’arcadia, l’unico tollerato e considerato dalla letteratura); così facendo si ponevano le basi per pensare un’antropologia mai pensata, per mettere in discussione la più radicale e duratura e fondativa delle separazioni che ha attraversato la storia del genere umano, quella fra il lavoro da una parte (anzi la spregevole baunasìa, il lavoro manuale marchiato da Platone nel Gorgia: “tu disprezzerai lui e la sua arte, e come per offesa lo chiamerai bànausos, e non vorresti dare tua figlia in sposa a suo figlio, né che tuo figlio sposasse una figlia di lui”: Gorgia, 512d) e l’attività intellettuale dall’altra; quella fra lo schiavo addetto alla produzione del sovrappiù e il signore che di questo sovrappiù deve poter vivere per poter contemplare, cioè pensare ed essere libero, liberando così in sé l’umanità stessa dell’uomo (o il suo residuo), come teorizzò una volta per tutte Aristotele nell’Etica Nicomachea.
Tutto questo cominciava finalmente a morire nella critica politica di massa alla separatezza degli intellettuali; e così, proprio grazie al trionfo del suo più radicale progetto, l’intellettualità, incarnata nella politica e nella democrazia, prometteva di negare se stessa. Attraverso la sua universalizzazione a tutto il genere umano l’intellettualità si sarebbe estinta in quanto separazione (e sull’orlo dell’abisso Benjamin per primo, assai più radicalmente e drammaticamente di Adorno, aveva saputo vedere quanto questa separazione fosse anche una ferita, cioè quanto sangue e quante lacrime essa grondasse).
Un tale via, se perseguita coerentemente, avrebbe dunque potuto e dovuto condurre ad una destituzione radicale della primazia degli intellettuali, ad un’uscita (per così dire) “a sinistra” dal loro dominio servile, ad uno scioglimento reale dell’equivoco che ne aveva fondato per secoli il potere apparente. Nella parola d’ordine del governo della cuoca (si noti bene: la cuoca, che per giunta è una femmina, è il contrario assoluto dell’intellettuale) si esprimeva questo progetto di fuoruscita reale da un dominio ben più lungo del capitalismo stesso, e quella formula del potere della cuoca fu usata non per caso da un comunista come metafora del comunismo. Un altro parlò, intendendo la stessa cosa, di “autonomia integrale” dei subalterni, un altro ancora di “democratizzazione della vita quotidiana”.
Ma non è stata affatto questa la via che ha preso la crisi della modernità capitalistica alla fine del Novecento, e non è certo questa la destituzione degli intellettuali che abbiamo oggi di fronte.
L’intellettuale moderno di cui parla Bauman è radicalmente destituito dalla fine della modernità, cioè del progetto, di ogni progetto che non sia la gestione dello stato di cose presente, il quale viene ora assunto (è questa la novità di questo ritorno indietro) come assolutamente insuperabile anche, o soprattutto, dal punto di vista teorico e in via di principio: non c’è, evidentemente, alcun progetto pensabile nell’epoca in cui (come è stato detto) le banche mondiali decidono, le burocrazie europee governano e i politici … vanno in televisione.
La crisi della politica di cui i politici in crisi parlano (una volta di più: senza capire ciò che dicono e, soprattutto, ciò che hanno fatto) è, in effetti, semplicemente la fine della politica e della democrazia, giacché non c’è né politica né democrazia (né dunque intellettualità addetta a farle funzionare) in una situazione in cui si può tutt’al più interpretare l’esistente, ma mai, e poi mai, pensare di modificarlo. Dunque non certo democrazia, meno che mai democrazia, e neppure la dittatura di una volta, che lascerebbe agli intellettuali migliori almeno la gloria del martirio (toccata ora da noi solo al comico Luttazzi), ma invece una situazione inedita di radicale a-democraticità, di libera scelta inutile fra l’identico (rappresentata alla perfezione dal gesto dello zapping televisivo); una a-democrazia mediatica che celebra i suoi trionfi nel leaderismo, nel presidenzialismo, nel sistema maggioritario e nei premi di maggioranza, nei salotti di Bruno Vespa, nelle nominations dei reality televisivi, nei plebisciti virtuali, annunciati, insensati ed obbligati, e tuttavia partecipatissimi.
Così il nesso secolare fra critica e intellettuali si scioglie: si scioglie (come un corpo immerso nell’acido) nell’industria culturale, nella fabbrica del consenso, nella dea onnivora della pubblicità, nella brutale sussunzione di capacità linguistiche e persuasive all’interno del sistema del sovra-consumo improduttivo indotto e coatto che ogni giorno rinvia il giorno della crisi.
La modalità della critica dello stato di cose esistente, che era stata la più autentica gloria delle professioni intellettuali, che si era alimentata dal sedimento di specialismi raffinati e delle più buone intenzioni, si trova in tal modo ad essere inibita, proibita, e, peggio ancora, ridicolizzata (che cos’altro è il ritornello fastidioso e saccente sulla “fine delle ideologie” se non la negazione infastidita di qualsiasi punto di vista che pretenda di giudicare, cioè criticare, ciò che è così come è? cos’altro è quel ritornello se non la delegittimazione – divenuta senso comune – di ogni e qualsiasi gesto critico, il quale per potersi svolgere necessita comunque di un “altrove” teorico e ideale?). E, si ammetterà, un’intellettualità deprivata dalla critica, cioè dall’unico elemento che le conferiva un residuo di autentica dignità, non è davvero un bello spettacolo. Si noti anche questo punto: come non è possibile progetto così non è più necessaria alcuna forma di anti-progetto, cioè la stessa apologia dello stato di cose presente e l’argomentazione propagandistica intorno alla sua preferibilità, appaiono oggi completamente destituite; non c’è insomma più bisogno che intellettuali fedeli al servizio del potere si affannino a dimostrare che viviamo nel migliore dei mondi possibili, è sufficiente che le masse siano persuase, volenti o nolenti, che nessun altro mondo è possibile, che un altro mondo è im-possibile, che “lì fuori” – fuori dall’orizzonte del mondo attualmente dato, per quanto ripugnante e catastrofico esso possa essere e sia – non c’è assolutamente nulla, né mai ci sarà e ci potrà essere. Per questo anche gli intellettuali più fedeli al sistema dato (non solo la ragione critica che gli si oppone) vengono radicalmente destituiti, e scompaiono, a meno che non si intendano per intellettuali Gianpiero Mughini, Gigi Marzullo, capo del Dipartimento cultura della Rai, o gli anonimi banchieri del Fondo Monetario Internazionale (questi ultimi gli unici che sembrano addetti alla decisione, e forse al progetto).
Una sociologia della miseria della filosofia nei suoi rapporti reali con i poteri di oggi potrebbe dare luogo a una lamentazione recriminatoria senza fine, e forse senza costrutto (mi limito a citare ciò che ho letto per puro caso, proprio mentre scrivevo questa relazione, a proposito di una “Filosofia TWININGS” sulla scatola del mio thè (Twinings è scritto tutto in lettere maiuscole, come la parola Dio dagli ortodossi): “La filosofia TWININGS. Una deliziosa tazza di tè Twinings regala una deliziosa parentesi di pace alle tue giornate…”: chissà che questo non sia un frutto di quel rapporto più intenso fra Università e impresa che i riformatori della nostra Università non cessano di auspicare.
Il problema che si pone agli intellettuali, che contraddittoriamente ma coscientemente noi siamo, mi sembra tutt’altro: non certo lo sforzo di far resuscitare una funzione intellettuale con ogni evidenza legata ad configurazione sociale trascorsa, ma, per così dire, la rivendicazione della scelta di quale morte morire.
A me piacerebbe che la destituzione dell’intellettuale prendesse la forma di una restituzione, o, se si vuole, di una riappropriazione: la riappropriazione collettiva delle competenze specialistiche degli intellettuali all’interno del conflitto reale, dato che è appunto il conflitto (e solo il conflitto) ciò che conferisce senso alle cose del mondo; insomma, propongo uno scambio: dare competenze intellettuali e parola ricevendone in cambio senso. A me sembra uno scambio vantaggioso, anche perché non vedo molte altre alternative per noi. Terremmo così ferma non la totalità (e forse neppure, almeno per ora, la progettualità) ma sì la critica, aggrappandoci per così dire, ad un’altra critica, quella che nasce non nel cervello degli uomini pochi ma nel grido (di cui parla Holloway) che nasce dai corpi degli uomini e delle donne tutti; quel grido è infatti carico di intelletto, è la sensata proclamazione dell’insopportabilità assoluta dello stato di cose presente e della necessità di fuoruscirne.
18/10/2007 R.M.
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