La geografia mentale del lungo ’68: internazionalismo, antimperialismo, antiautoritarismo

 

  1. Care compagne e cari compagni, poiché mi è toccato – del tutto casualmente – il primo intervento, credo di non poter fare a meno di affrontare un problema che aleggia su tutti noi, cioè la contraddizione che mi sembra esistere fra l’oggetto della nostra riflessione, il movimento del ’68, e lo strumento che usiamo per compiere una tale riflessione, un convegno di studi. C’è forse qualcosa di rituale, di compiaciuto, di celebrativo che è intrinseco alla stessa forma-convegno (tanto più se affidato a vecchi reduci come siamo molti di noi), ma tutto ciò è contraddittorio con l’oggetto della nostra riflessione che è il ’68, il lungo ’68, cioè un decennio di lotte.

La contraddizione di cui parlo emerge se si concorda sulla definizione del ’68-’77 come di un tentativo di rivoluzione in Occidente; è questa la definizione che ho proposto nel mio libretto sul ’68-’77 a cui mi permetto di rimandare (R. Mordenti, La grande rimozione. Il ’68-’77: frammenti di una storia impossibile, Roma, Bordeaux, 2018): il ’68 secondo me non fu affatto solo un movimento per i diritti di libertà più elementari, per ottenere la minigonna per le ragazze o i capelli lunghi per i ragazzi, e meno che mai fu l’anticamera e il prodromo della lotta armata terroristica (queste, come sappiamo, sono le due interpretazioni opposte ma convergenti, che hanno allietato la gestione del cinquantenario compiuta dalla borghesia attraverso i suoi pervasivi  mass media).  

Il ’68-’77 fu invece una cosa ben diversa, fu un tentativo di rivoluzione in Occidente, per quanto approssimativo e insufficiente. Come scrive Abbie Hoffman: “Certo, eravamo giovani. Eravamo arroganti. Eravamo ridicoli. Eravamo eccessivi. Eravamo avvelenati. Eravamo sciocchi. Ma avevamo ragione.”    

Se il ’68-’77 è stato questo, allora esso richiede, merita, di essere ricordato in quanto rivoluzione, non dunque di essere commemorato. La commemorazione è un discorso che un potere, il potere, articola sul passato perché possa rafforzarsi il potere del presente; invece nel nostro caso noi, che non abbiamo nessun potere, dobbiamo articolare un discorso sul passato per il futuro, perché possano rafforzarsene i compagni e le compagne più giovani (e a questo proposito, come evidenzia l’età media di questa sala, c’è evidentemente per noi un enorme problema), perché se ne possa giovare la rivoluzione futura. Disse una volta Fidel a proposito di Guevara che non era possibile parlare del “Che” al passato e che se ne poteva parlare solo al futuro. Credo che la stessa regola debba valere anche per la rivoluzione tentata nel ’68-’77, come per qualsiasi tentativo di rivoluzione. Ecco dunque la contraddizione che aleggia oggi su tutti noi e di cui parlavo.

Io credo che se ne possa uscire in un solo modo, ponendosi (e ponendo a questo nostro incontro) una domanda precisa, e questa domanda non è “Perché si ribellarono i giovani del ’68?”, bensì “Perché non si ribellano ancora i giovani del 2018, e come essi potranno farlo?”.

A questa ultima domanda, che è oggi la domanda fondamentale per i comunisti, io spero che anche il nostro Convegno possa aiutarci a rispondere.

 

  1. Se impostato così, diventa davvero decisivo il tema che mi è stato assegnato, “La geografia mentale del lungo ’68”. Penso che con quest’espressione si intenda e si debba intendere l’apparato ideale, il sistema di valori, le ideologie, le narrazioni che consentirono il ’68 e che il ’68 stesso produsse. Userò d’ora in poi per definire tutto questo complesso di cose il termine – assai presente nel dibattito contemporaneo – di immaginario, che intendo come onnicomprensivo di tutta la sfera della cosiddetta “sovrastruttura”. Orribile e pericolosa parola “sovrastruttura”, che ha legittimato tutti i peggiori meccanicismi e i determinismi economicistici della nostra storia. Io spero – ma forse mi sbaglio – che oggi non esista più fra noi quel pregiudizio materialistico-volgare, in realtà positivista, che c’era (eccome!) nel lungo ’68 e ancora fino a pochi anni or sono nel nostro Partito, quel pregiudizio per cui la sfera della cosiddetta “sovrastruttura” non contava affatto perché quello che contava solamente sarebbe stata la “struttura”, cioè i dati meramente economici e materiali.

            Se anche non ci fosse stato Gramsci (ma Gramsci per fortuna c’è stato) dovrebbe bastare a smentire questi attardati, e tardi, materialisti-volgari un’importante autocritica di Engels che, scrivendo da Londra a Joseph Bloch il 21 settembre 1890, affermava:

“Del fatto che da parte dei più giovani si attribuisca talvolta al lato economico più rilevanza di quanta convenga, siamo in parte responsabili anche Marx ed io. Di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi negavano, e non sempre c’era il tempo, il luogo e l’occasione di riconoscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell’azione reciproca. Ma appena si arrivava alla descrizione di un periodo storico, e perciò a un’applicazione pratica, le cose cambiavano, e nessun errore era qui possibile. […]. E questo rimprovero non posso risparmiarlo neanche a qualcuno dei recenti ‘marxisti’, e ne è venuta fuori anche della roba incredibile.”

In altre parole, Marx ed Engels nella fase della lotta contro il socialismo idealistico ed utopistico, misero necessariamente al primo posto “il principio fondamentale”, ma mi sembra molto importante che Engels scriva che “appena si arrivava alla descrizione di un periodo storico, e perciò a un’applicazione pratica, le cose cambiavano, e nessun errore era qui possibile”, cioè che nelle opere storico-politiche (come Lotte di classe in Francia o Il 18 brumaio) il pensiero di Marx si rivela pienamente dialettico senza nessun aspetto di materialismo-volgare: per questo consiglierei a un/a giovane compagno/a che intenda accostarsi al marxismo di cominciare a studiare Marx da quei suoi lavori storico-politici (che fra l’altro sono scritti splendidamente).

            Naturalmente il ’68 non aveva letto Engels, e meno ancora aveva letto Gramsci (e sui motivi dell’assenza di Gramsci dal ’68 italiano varrebbe la pena di interrogarci più analiticamente). Ma come ignorare il principio di Archimede non impedisce affatto alle barche di galleggiare e agli uccelli di volare, così ignorare l’importanza decisiva per la rivoluzione dell’immaginario non impedì affatto al movimento del ’68 di avvalersi di un formidabile immaginario rivoluzionario e di nutrirsene. Ecco dunque  – se posso permettermi – una prima grande lezione per i compagni e le compagne che daranno vita alla prossima rivoluzione: non credete a chi vi predica la cosiddetta “morte delle ideologie”! È  solo una truffa reazionaria: dire “morte delle ideologie” significa soltanto dire che sono proibite tutte le ideologie tranne una, tranne l’ideologia che fa l’apologia dello stato di cose presente e ne proclama l’immutabilità.   

 

  1. L’immaginario del lungo ’68 di cui parlo era fatto di internazionalismo, di antimperialismo, di antiautoritarismo, a cui si deve aggiungere però almeno il classismo, cioè la consapevolezza che la società è divisa in classi e che esiste la lotta di classe.

L’internazionalismo significa semplicemente fare propria, anzi vivere, la frase attribuita al “Che” (ma in realtà di José Martì): “Ogni vero uomo deve sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato a qualunque altro uomo”. Insomma essere internazionalisti significa sentirsi ed essere parte del “mondo grande e terribile, e complicato” (come scrive Gramsci a Julka), sentirsi ed essere parte di un unico grande movimento di lotta planetario (anche se, è giusto riconoscerlo, era completamente assente in noi la coscienza dell’unità ecologica del pianeta e dei relativi problemi ambientali).

Tutto questo fondava un nuovo e inedito noi, che definirei “il noi del ’68”. Questo “noi” comprendeva semplicemente il mondo intero che lottava, si estendeva da Berkeley alla Cina della rivoluzione culturale, da Parigi a Tokyo, passando per Praga e per Berlino. Tutti quei compagni e quelle compagne in lotta eravamo noi.  È molto importante il “noi”. Domandiamoci, e domandiamo specialmente ai compagni più giovani: chi è oggi il nostro “noi”? Cosa intendiamo oggi quando diciamo “noi” (ammesso che lo diciamo ancora per qualcuno)?

Ci soccorre a questo proposito un’importante intervista di Rossanda a Jean-Paul Sartre comparsa sulla rivista “Il manifesto”. Sartre distingue fra l’essere “in serie” e l’essere “in fusione”: la normalità capitalistica ci mette in serie, cioè isolati l’uno dall’altro, parcellizzati; in una situazione di movimento invece ci si trova in una situazione di fusione, cioè si diventa una cosa sola, un noi. Fra parentesi: è questo il motivo per cui ci colpiscono tanto, quando c’è il movimento, le morti di un compagno o di una compagna, che invece tendiamo a sottovalutare quando siamo tornati alla serialità capitalistica; e permettetemi di ricordare qui un compagno solo e carissimo, Domenico Jervolino, per i tanti e le tante che non ci sono più e che ci mancano.

Essere un noi internazionale ci faceva sentire – appunto – sulla nostra guancia lo schiaffo dato ad altri compagni nel mondo, e per questo all’internazionalismo è strettamente legato l’anti-imperialismo che ci faceva percepire come nemico comune di popoli, anzi dell’umanità: l’imperialismo.

 

  1. L’antimperialismo significò anzitutto la solidarietà militante con il Vietnam. Un piccolo popolo che lottava, che resisteva e che vinceva; e questa fu la lezione più importante: il debole, il piccolo che sconfigge il grande prepotente e strapotente. C’è a questo proposito una foto dell’epoca che a me è sembrata sempre fondamentale: un enorme soldato americano con la testa china e le mani legate dietro alla schiena, fatto prigioniero da una minuscola ragazza vietnamita con il fucile in mano. Come capite, il fatto che la vietnamita fosse una donna, e fosse così piccola di statura, non era meno importante del fatto che l’americano fosse sconfitto.

Al centro di tutto – dunque – il Vietnam; ma non c’era solo il Vietnam. Antimperialismo era tutta l’Indocina; era l’Africa, dove dopo l’assassinio di Lumumba continuava la guerra delle compagnie dei belgi e degli americani contro i popoli del Congo, e dove si combatteva in Angola, in Mozambico, in Guinea, in Sud Africa; era la Palestina dopo la “guerra dei sei giorni”; ed era soprattutto l’America Latina che rialzava la testa forte della vittoria della rivoluzione a Cuba: nel 1966 in Colombia moriva combattendo il prete cattolico Camilo Torres, e nell’ottobre del 1967 “Che” Guevara veniva assassinato dopo la cattura. In Cile si preparava la vittoria di “Unidad Popular”, a cui sarebbe seguito il sanguinoso golpe promosso dal premio Nobel per la Pace Henry Kissinger.

Vale la pena di annotare che il nostro antimperialismo non fu mai “campista”, cioè non fu mai dipendente dall’Unione Sovietica; sarebbe questa una notazione superflua, oggi che non c’è più l’URSS, ma forse superflua non è, dato che c’è ancora oggi un “campismo” senza “campo” (cioè senza che esista più il “campo socialista”), un grottesco “campismo” che si accontenta di Putin e della Russia, magari incontrando nell’anticamera di Putin la Le Pen o qualche fascista italiano della Lega.

Il nostro antimperialismo era in verità assai approssimativo teoricamente, senza cioè che ci fosse ben chiaro cosa fosse l’imperialismo; ma ci bastava l’esperienza, ci bastava vedere come l’imperialismo operasse in Italia, le basi militari e i missili della NATO, l’ipoteca costante dell’ “amico americano” sull’economia, sulla politica, sull’informazione, e soprattutto ci bastava vedere come operasse la CIA coi servizi segreti e con la manovalanza fascista nelle stragi di Stato che insanguinarono il decennio 1968-’78. Poi per noi l’imperialismo prendeva – per così dire –  corpo quando venivano in Italia, a Roma, i presidenti o i vicepresidenti USA, da Johnson ad Humphrey a Nixon, sempre accolti da grandi manifestazioni di piazza del movimento represse sempre nel modo più brutale. Con i veri sovrani non si scherza.

In cambio, qualche anno dopo avremmo assistito allo spettacolo di una ministra Pds che sventolava giuliva una bandierina a stelle e strisce sul palco a fianco di un presidente USA. 

 

  1. Cito per ultimo ciò che in realtà venne, e viene, prima di tutto: l’antiautoritarismo. Occorre dire che il nostro antiautoritarismo è, prima di ogni altra cosa, figlio legittimo ed erede dell’antifascismo: non dimentichiamo mai questa parola che è veramente alla radice di tutto (e lo fu anche cronologicamente per il movimento romano che nacque in realtà nel 1966, con la prima occupazione che seguì all’assassinio di Paolo Rossi per mano dei fascisti).

            Esiste un’interpretazione vulgata dell’antiautoritarismo del lungo ’68 come un’istanza essenzialmente giovanilistica, la rivolta dei figli contro i padri, dei giovani contro i vecchi, degli studenti contro i baroni (parrucconi e cadaveri come nella memorabile copertina di “Quindici”), etc. Debbo dire che questa vulgata non mi persuade del tutto, essa è vera ma mi sembra riduttiva. A me pare che l’antiautoritarismo del lungo ’68 sia piuttosto connesso con un’istanza radicale di democrazia diretta, di protagonismo delle masse, e ne costituisca un aspetto. Intendo dire che l’antiautoritarismo discende dalla volontà di contare, di decidere, di essere tutti uguali e “tutti delegati”, nelle scuole come nelle fabbriche, nelle assemblee come nei cortei, scontri di piazza compresi.

 

  1. E qui siamo, io credo, al vero cuore del ’68; da questa idea forte di democrazia derivano infatti due conseguenze di straordinaria importanza che sono – a mio avviso – i due veri contributi teorici che il tentativo di rivoluzione del ’68 può dare alla rivoluzione necessaria del 2018 (due contributi tanto importanti quanto rimossi: è questa la “grande rimozione” di cui ho scritto altrove).

Il primo di questi contributi teorici è il movimento politico di massa; il secondo  è la necessità di una concezione diversa del momento-partito che non contraddica la natura del movimento politico di massa. Benché essi siano strettamente connessi, proviamo ad esaminare partitamente questi due contributi.

Movimento politico di massa significa che la politica non è un altrove rispetto alla condizione sociale e perfino rispetto alla situazione personale; si può arrivare, ed effettivamente si arriva, a percepire il carattere complessivo, cioè politico, della contraddizione non in modo deduttivo, partendo ad esempio dalla lettura delle opere di Marx, ma a partire dalla contraddizione che si vive, dal proprio essere sociale; per questo i movimenti, che nascono da tali contraddizioni sociali, possono essere politici e al tempo stesso di massa, appunto politici e di massa.

È strettamente legata a questo anche l’eredità più duratura del ’68 che consiste nelle diffuse esperienze di critica politica alla neutralità della cultura, della scienza, delle professioni. E furono esperienze importantissime, da Magistratura Democratica a Basaglia, da Medicina Democratica all’ambientalismo di classe, alla “committenza alternativa” degli architetti fino all’interminato ’68 degli/delle insegnanti e della scuola, etc.; queste esperienze non solo prolungarono il ’68 ma resero la società italiana un po’ meno feroce, un po’ meno barbara. Non ne parlerò perché so che questo sarà il tema della relazione del compagno Ferrajoli che ne parlerà molto meglio di quanto io saprei fare; accenno solo al fatto che anche alla base di  tutto questo c’era il movimento politico di massa, cioè l’idea che la contraddizione dovesse vivere qui e ora, a partire dunque dal proprio essere sociale, cioè dal proprio mestiere, senza aspettare chissà quale altrove od ora x a cui rimandare il rivoluzionamento delle nostre vite.

Segnalo che l’espressione, movimento politico di massa, che oggi appare normale e che tutti usano (anche quelli che non ci credono affatto) non solo rappresenta una novità, una novità del ’68, ma costituisce anche uno scandalo, cioè una contraddizione in termini per la teoria politica di cui il movimento operaio disponeva, diciamo – per intenderci – per la teoria politica che passa (ahimé senza troppe differenze) da Kautsky al Lenin del Che fare?. Secondo quella teoria, o si era politici o si era di massa, perché la politica apparteneva solo alle avanguardie intellettuali (essa “nasce dalla testa” degli intellettuali, come si espresse un grandissimo dirigente comunista), mentre alle masse potevano appartenere solo il trade-unionismo, il corporativismo, l’estremismo, etc. Faccio notare en passant che su queste basi non è possibile in alcun modo fondare teoricamente la democrazia, né nello Stato e nemmeno nel Partito.

Ed ecco in che senso il primo contributo teorico del ’68, il movimento politico di massa, si lega al secondo, cioè alla necessità di una concezione diversa del Partito. Questo secondo contributo consiste insomma nella critica pratica a un’idea di avanguardia esterna, come coscienza pura ed assoluta, idealisticamente sottratta alla lotta di classe.

Ma questo secondo contributo teorico prende necessariamente la forma di domanda, di una domanda ancora senza risposta. La domanda è: come si può riuscire a dare vita a una formazione politica (dunque organizzata, stabile, diffusa, in grado di elaborare programmi, di formare i propri quadri e dirigenti, etc.) senza però contraddire la caratteristica natura del movimento politico di massa? Mi sembra che il “decennio rosso” non abbia saputo rispondere a questa domanda e che le risposte fornite siano state assai insoddisfacenti. Personalmente ho sempre pensato che la scelta della grande maggioranza dei quadri espressi dal ’68 di dare vita a gruppi, gruppetti, partiti e partitini abbia rappresentato addirittura una forma di restaurazione della politica separata, quale era prima del ’68 (ma questo è un vecchio tema di polemica fra noi che richiederebbe da solo un intero e diverso convegno).

Certo è che noi non siamo riusciti a costruire un’organizzazione politica che non producesse di continuo dal suo stesso seno burocratismo, settarismo, leaderismo, correntismo, istituzionalismo, e quanto al personale politico che abbiamo prodotto (beninteso: esclusi i presenti) è meglio stendere un velo pietoso.

E tuttavia anche questa domanda senza risposta è un contributo del ’68 alla rivoluzione futura, perché si consegnano al futuro non solo le vittorie ma anche le sconfitte e le loro lezioni. Come scrive Walter Benjamin nelle sue tesi Sul concetto di storia:

 

“Se una generazione deve saperlo è la nostra: ciò che possiamo attenderci dai posteri non è la gratitudine per le nostre imprese, bensì che vi sia memoria di noi che siamo stati battuti.”

 

Infatti essere stati battuti non equivale affatto ad avere fallito, perché la lotta di classe continua e con essa continua anche la possibilità/necessità da parte del futuro di fare tesoro degli errori del passato per non ripeterli.

 

  1. In conclusione, occorre domandarci: perché furono così importanti la geografia mentale del ’68, la sua mappa ideale, il suo immaginario? Vi propongo una risposta: non perché vi fossero lì dei modelli (quelli che c’erano erano deboli o sbagliati) ma perché lì c’era una speranza, soprattutto grazie a quello che stava accadendo nel mondo. Ecco la parola chiave: speranza. Le masse non si ribellano quando non ne possono più (altrimenti si ribellerebbero sempre) e neppure si ribellano quando hanno un progetto ben definito di rivoluzione (che, a ben vedere, non c’è stato mai); le masse si ribellano quando hanno speranza di poter cambiare il mondo, e con il mondo la propria vita.

            Di questo l’avversario di classe è assai più cosciente di quanto siamo noi; per questo esso si è impegnato a cancellare sistematicamente dall’immaginario collettivo ogni traccia possibile di speranza (ad esempio occultando o deformando, attraverso i mass media che monopolizza, le vittorie dei popoli, che pure vi sono state e vi sono, e perfino i conflitti di classe, che sono ovunque e che crescono). Ciò ha fatto sì che esista una generazione, quella nata dopo il lungo ’68, che non ha conosciuto altro che sconfitte, che in tal modo è stata convinta che non ci sia niente da fare, che è abbandonata a una depressione di massa accuratamente preparata e capillarmente diffusa.

E allora, per la prossima rivoluzione, necessaria, dobbiamo ricominciare da qui: ricostruiamo per questa generazione e per tutti noi la speranza.

 

Raul Mordenti

Roma, 17/11-21/11-2018

 

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