Per una ontologia della menzogna (informazione e guerra)

Raul Mordenti

(in corso di stampa; 147.325 caratteri)

Sommario:

Per una ontologia della menzogna 2

1. Le modalità della censura (l’occultamento e la con-formazione) 4

2. La censura per occultamento 5

Essere contro la guerra in quanto tale (e la stupidità del “campismo” senza campo) 8

Quando la censura si incrina 9

3. La censura per creazione (e narrazione) 10

Le guerre “sotto falsa bandiera” 12

4. La narrazione a sostegno della guerra 14

La Russia di Putin è antifascista? 14

L’Ucraina di Zelensky è antifascista? 16

La tradizione della “guerra giusta” dei democratici borghesi 17

5. Quale è la cosa che occorre nascondere ad ogni costo? 19

6. Le vere radici della menzogna: la guerra atomica già c’è ma non può essere pensata 21

7. Il capitalismo semiotico e la pubblicità 23

La pubblicità nuova Dea 24

8. La fine, e la proibizione, della critica nel dominio della nuova Dea 25

La fine della critica e del circuito del libro 26

Una nuova antropologia: gli “scenari facilitanti” accomunano pubblicità e droga 27

Il primato della pubblicità e la politica: il berlusconismo 28

9. Cosa è verità nel mondo ridotto a immagini? 30

La lumpen-borghesia, la classe che non sa niente 30

La post-verità e la domanda di Pilato 31

Verità è adaequatio rei et intellectus? 31

10. Il soggetto collettivo umano è l’ unica possibile misura di tutte le cose (e della loro verità) 32

Parresìa 33

Che cosa è l’umanità? 33

Opporsi alla fine della storia 34

11. La guerra come disvelamento e la “prospettiva” 35

12. L’incontro Lukács-Anders e il “Grand Hotel Abisso” 37

FINE 38

Riferimenti bibliografici [da completare] 39

Per una ontologia della menzogna

È risuonata spesso in questi mesi di guerra l’affermazione di Eschilo “In guerra la verità è la prima vittima”; eppure questa frase è del tutto insufficiente per descrivere ciò in cui siamo immersi.

Questo verbo non è casuale, perché il profeta della lotta contro l’atomica Günther Anders ha spiegato che i pesci in quanto sono immersi nel mare non sentono e non possono sentire il peso del mare che è su di loro[1]. Anzi, di più, essi sono conformati come sono proprio perché vivono all’interno del mare, e non potrebbero vivere fuori da esso. Noi siamo tutti immersi in un mare di “informazioni” (che in realtà informazioni non sono affatto: su questa parola occorrerà tornare a riflettere), diciamo che siamo immersi in un’abissale media-sfera, che è integralmente posseduta e gestita dal capitalismo, con grande impiego di mezzi e (non nascondiamocelo) anche di intelligenze. Si potrebbe obiettare che è sempre stato così, cioè che il potere ha sempre controllato l’informazione: il potere di informazione è da sempre un potere del potere.

Ma la situazione attuale è del tutto incomparabile con il passato. Se in passato, e ancora nella prima metà del XX secolo, il potere di informazione consisteva nei giornali (che pochi leggevano) e tutt’al più nelle prediche dei parroci, ora l’informazione del potere, divenuta sistema, ha una mole e una capacità pervasiva ineguagliabili.

Ogni giorno e ogni ora siamo tutti esposti e sottoposti alla radio, alle televisioni, al web, e all’intero sistema mediatico. La proprietà oligopolistica o monopolistica di questo sistema si esprime (diciamo: “in orizzontale”) nelle concentrazioni delle testate giornalistiche (un solo proprietario possiede e controlla molti fondamentali giornali, sia quotidiani che periodici) ma, fatto ben più rilevante, tale proprietà oligopolistica o monopolistica riguarda (diciamo: “in verticale”) media diversi (un solo proprietario possiede e controlla giornali, radio, televisioni, agenzie pubblicitarie, case di produzione cinematografiche, e così via).

Del tutto incomparabile con il passato è soprattutto la pervasività e l’efficacia dell’informazione: si è calcolato che l’80% degli italiani si informa di politica praticamente solo attraverso i TG, che da 8 a 10 ore al giorno delle nostre vite (specie quelle degli anziani) sono invase dall’informazione che ci raggiunge senza scampo nelle nostre case (dove il televisore acceso durante i pasti ha sostituito la centralità del tavolo da pranzo o del focolare), e perfino nelle nostre automobili e nelle metro, nei luoghi di lavoro e nei ristoranti, nelle stazioni e negli aeroporti, nei supermercati e dal barbiere e, insomma, in tutti i luoghi del consumo in cui si svolge la nostra vita. Ancora più massiccia è l’esposizione dei/delle giovani al web tramite gli smartphone che li accompagnano senza limiti coi social (anch’essi posseduti e truccati dal potere assai più di quanto si percepisca e creda) occupando i loro sguardi e le loro menti e anzi trasformandoli, a loro insaputa, in produttori gratuiti di ricchezza altrui, poiché partecipano (senza neanche accorgersene) al ciclo di valorizzazione del capitale.

Sull’informazione capillarmente e continuamente veicolata dai social network, i veri media dominanti della nostra era, occorre soffermarci. Essi mantengono ancora – incredibilmente – un’aura di libertà e di autogestione dal basso, ma il contrario è vero: nessuna struttura è stata mai più centralizzata, più unilaterale, più controllabile e controllata, più monopolistica, appartenendo per intero a un unico padrone, statunitense, che non è sottoposto a nessuna regola e a nessun controllo.

Come afferma Ignacio Ramonet:

(…) il conflitto in Ucraina era una guerra locale, nel senso che il teatro delle operazioni si trovava effettivamente in un preciso territorio geografico, per il resto è stata una guerra globale, in particolare a causa delle sue conseguenze digitali, di comunicazione e mediatiche.

Su questi fronti Washington, come nell’era del maccartismo e della ‘caccia alle streghe’, ha arruolato i nuovi attori della geopolitica internazionale, cioè le mega-imprese dell’universo digitale: le GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft). Queste iper-imprese (…) si sono ritirate dalla Russia e si sono volontariamente arruolate nella guerra contro Mosca.

Questa è una novità. Fino a questo conflitto conoscevamo l’atteggiamento partigiano e militante dei grandi media che, in caso di guerra, si allineavano con uno dei belligeranti e abbandonavano ogni senso critico per impegnarsi unilateralmente e difendere gli argomenti di una sola delle potenze avversarie.

La novità è che, per la prima volta, i social media stanno facendo la stessa cosa. Il che conferma che i veri media dominanti oggi, quelli che effettivamente impongono la storia, sono i social network.[2]

Il controllo e l’uso dei social media consentito da GAFAM è però solo un aspetto di una nuova fase della guerra, la “guerra cognitiva”, che presenta aspetti e prospettive ancora più inquietanti perché assume come obiettivo il nostro cervello, le nostre stesse menti. Spiega ancora Ramonet nell’intervista citata:

“Va aggiunto che i laboratori strategici delle grandi potenze, nel quadro della riflessione sulle nuove ‘guerre ibride’, stanno anche cercando di conquistare militarmente le nostre menti.

Uno studio del 2020 su una nuova forma di ‘guerra della conoscenza’, intitolato Cognitive warfare (Guerra cognitiva), del contrammiraglio francese François du Cluzel, finanziato dall’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) afferma: ‘Mentre le azioni condotte nei cinque domìni militari (terra, mare, aria, spazio e cyber) vengono eseguite per avere un effetto sugli esseri umani, l’obiettivo della ‘guerra cognitiva’ è quello di trasformare ogni persona in un’arma’.

Gli esseri umani sono ora il dominio conteso. L’obiettivo è quello di hackerare l’individuo sfruttando le vulnerabilità del cervello umano, utilizzando le risorse più sofisticate dell’ingegneria sociale in un misto di guerra psicologica e di guerra dell’informazione.

Quella guerra cognitiva non è solo un’azione contro ciò che pensiamo, ma anche un’azione contro il modo in cui pensiamo, il modo in cui elaboriamo le informazioni e come le trasformiamo in conoscenza. In altre parole, guerra cognitiva significa militarizzazione delle scienze del cervello. Perché questo è un attacco al nostro processore individuale, alla nostra intelligenza. Con un unico obiettivo: penetrare nella mente dell’avversario e far sì che ci obbedisca. ‘Il cervello – sottolinea il rapporto – sarà il campo di battaglia di questo ventunesimo secolo.’ (…)”

E – fatto fondamentale, che dunque va ripetuto – tutto ciò fa sistema, cioè le informazioni del potere si corrispondono fra loro, si citano e si rafforzano a vicenda.

Le notizie, o le fake news, che provengono dalla rete e dai social sono riprese e amplificate da stampa e tv, e viceversa, sempre senza nessuna possibilità di verifica o di vera smentita (peraltro è ormai una regola nota che una notizia falsa, se smentita, è data due volte e circola con il doppio dell’efficacia).

Nel piccolo del nostro Paese, la manifestazione più vistosa di questo oligopolio è l’esistenza di una “compagnia di giro”, cioè di un numero ristretto e sempre uguale di opinion makers che compaiono nei talk shows televisivi, parlando di tutto esperti di nulla: ci sono direttori di giornali semiclandestini, che nessuno ha comprato mai in un’edicola o visto in giro, che partecipano al quotidiano chiacchiericcio nelle tv e che, per questa via indiretta “di rimbalzo”, fanno opinione. Anche il superficiale contraddittorio o addirittura lo scontro sguaiato fra costoro fa parte dell’univocità dell’informazione: sono scontri previsti ed esibiti, che seguono un preciso rituale e servono anche ad aumentare l’audience, ma che non riguardano mai la sostanza dell’informazione, concentrandosi su dissensi marginali o addirittura personali.

Ma nessuno parla mai di ciò di cui non si può parlare, cioè delle cose importanti.

Così il campo di Auschiwtz è stata liberato dagli americani, i sovietici non hanno mai partecipato alla guerra contro Hitler (e sono dunque esclusi dalla celebrazioni di quella vittoria), a Hiroshima non è stato commesso alcun crimine contro l’umanità (meno che mai a Nagasaki), il trattato del Nord Atlantico (NATO) si può estendere, nonostante la geografia, al Giappone e alla Nuova Zelanda, un corruttore pregiudicato collegato alla mafia viene celebrato in morte come padre della Patria nel duomo di Milano, con la partecipazione del Presidente della Repubblica e di Jerry Scotti, e Ruby diventa la nipote di Mubarak (la verità di questa asserzione è stata votata dal Parlamento italiano).

Si può riferire al nostro tempo (e forse a qualsiasi tempo, come in crescendo) l’affermazione fatta da Alexandre Koyré nel 1943: “Non si è mai mentito come al giorno d’oggi. E neppure si è mentito in modo così sfrontato, sistematico e continuo”[3].

Per dirla più brutalmente: siamo immersi in un mare di menzogna.

1. Le modalità della censura (l’occultamento e la con-formazione)

Non mette conto elencare i singoli episodi di menzogna, sarebbe come elencare le gocce d’acqua del mare, e meno che mai avrebbe senso lamentarcene (e anche perché nessuno ascolterebbe questi nostri patetici lamenti). Sostenere che “l’informazione sostiene la guerra” è affermazione inesatta quanto ingenua: l’informazione è parte della guerra, è un’arma impiegata per combatterla, così dire che l’informazione sostiene la guerra sarebbe come dire che una mitragliatrice sostiene la guerra: l’una e l’altra, l’informazione come la mitragliatrice, sono guerra.

Ci limiteremo a dire che è già materia di studio nelle scuole di giornalismo una prima pagina della “Stampa”, tutta occupata da una foto orrenda di cadaveri con il titolo “La carneficina”, che veniva proposta come opera dei russi (e non degli ucraini come fu nella realtà). E ormai sono più che altro da raccogliere sine ira et studio le performances di un noto, ma non autorevole, giornalista che venne definito da Glenn Greenwald (del “Guardian” e Premio Pulitzer) “the opposite of journalism” (“l’opposto del giornalismo“); ma quel “giornalista”, per la sua straordinaria carriera, può ben essere assunto a emblema e paradigma di tutta intera la stampa italiana (infatti costui fu già del “Manifesto”, della “Stampa”, vice-direttore del “Corriere della Sera”, direttore del TG1 Rai, direttore del “Sole24ore”, firma dell”Espresso”, dell’ “Huffington Post” e di “Repubblica”, nonché direttore della scuola di giornalismo della LUISS, infine è approdato alla cittadinanza USA).

Secondo la classifica sulla libertà di stampa nel mondo, del “World Press Freedom Index” (la graduatoria annuale che valuta lo stato del giornalismo e il suo grado di libertà in 180 Paesi del mondo) l’Italia si trova nel 2022 al 58° posto. Sopra di noi anche Paesi come il Burkina Faso e il Botswana. Ma in compenso abbiamo superato (in discesa) gli Stati Uniti che si trovavano l’anno precedente dopo di noi al 42° posto (dopo l’Italia al 41°) e che ora si trovano al 45° posto, dunque felicemente prima di noi:

:”Dalla 41° posizione alla 58° in un solo anno. 44 intimidazioni ai giornalisti nei primi tre mesi del 2022 ed una diminuzione della libertà di stampa che inserisce il Paese [l’Italia] tra la Macedonia del Nord e il Niger.”[4]

Non le gocce del mare della menzogna debbono interessarci ma quel mare in quanto tale e, se riusciamo a capirlo, il suo funzionamento.

Di tale funzionamento la censura è di certo una componente essenziale. Tuttavia la parola “censura” è assai debole per descrivere questa situazione, a meno di capire che la censura ha molte modalità, a cui corrispondono diversi livelli di efficacia.

Censura consiste certamente nell’occultare una informazione (chiamiamola “censura per occultamento”), come i panneggi dipinti a coprire le pudenda dei quadri o degli affreschi, o come quando i censori della Controriforma toglievano parole o pagine scottanti dal Decameron. Ma mille volte più efficaci sono le modalità della censura che definirei “censura per deformazione” o “per creazione”, come quando i censori della Controriforma (per restare ancora al Decameron) trasformavano nelle loro edizioni “purgate” Masetto da Lamporecchio in un ebreo, le monache lussuriose di un convento in donne mussulmane di un harem o frate Cipolla in un predicatore protestante, e così via (chi fosse interessato a questo peregrino tema, sappia che il Decameron della Controriforma, quello che è stato letto per due-tre secoli in Italia, adottava questa seconda forma di censura, non la prima[5]: cfr. Mordenti 1982).

Esiste inoltre, ed è fondamentale, l’auto-censura, cioè la prudenza che in regime di censura conduce gli uomini e le donne direttamente a non dire ciò che appare loro proibito e dunque pericoloso. Così che la censura, una volta insediata, opera formidabilmente ben al di là dei suoi stretti confini.

Il massimo della censura si verifica evidentemente nella informazione di guerra (o con qualsiasi parole vogliamo sostituire l’espressione ossimorica e priva di senso “informazione di guerra”) e più precisamente nella costruzione di una narrazione, perché la narrazione è ciò che mette in ordine le cose e dà loro senso. Userei dunque, piuttosto che “informazione”, il concetto di “conformazione“, che allude alla capacità di con-formarci, di renderci conformisti. o – per meglio dire – conformati.

Naturalmente il massimo risultato della conformazione consiste nella capacità di rendere la propria deformata narrazione senso comune delle masse.

Ne abbiamo avuto in Italia un esempio clamoroso nella costruzione della narrazione anti-antifascista (“anche i partigiani però…”, “e allora le foibe?”, “la guerra l’hanno vinta gli anglo-americani”, “fascismo e comunismo sono uguali”, e così via delirando), una narrazione contro-fattuale a cui le destre hanno lavorato tenacemente per anni e che (non sufficientemente contrastata dagli antifascisti) è diventata diffuso senso comune fra le masse, oggi largamente con-formate ad essa. Analogo discorso si potrebbe fare per altre narrazioni-conformazioni che ci dominano, da quella relativa ai migranti (“cinque milioni”, venuti a sostituire la nostra nobile e purissima etnia) a quella relativa ai percettori di RdC “fannulloni sul divano” o altre similari.

Non ci inganni l’aspetto grottesco e ridicolo di queste conformazioni: esse grondano sangue.

2. La censura per occultamento

Certo, la censura di primo tipo, o “per occultamento” è terribile e infame, ma funziona benissimo. Non a caso essa è utilizzata largamente a proposito della guerra, giacché tutti sanno bene, a cominciare da chi promuove e governa la guerra, che qualsiasi popolo, e sempre, è contrario alla guerra. Essa dunque va occultata e se possibile non va neppure nominata (“operazione speciale”, come è obbligatorio definire in Russia la guerra in corso).

Basti dire che un autorevolissimo uomo politico italiano ha parlato della guerra in Ucraina come della “prima guerra in Europa dopo il 1945”, dimenticando (cioè occultando) le guerre nella ex Jugoslavia e i 78 giorni di bombardamenti partiti dall’Italia su Belgrado nel 1999, costati 2.550 morti civili, fra cui 89 bambini, 12.500 feriti, distruzioni e danni enormi, poi proseguiti con le leucemie legate all’uso delle bombe all’uranio impoverito; eppure costui era al tempo di quella guerra vice-Presidente del Consiglio e poi Ministro della Difesa.

Oppure, per venire all’oggi, basti pensare alle guerre attualmente in corso su cui ha richiamato l’attenzione padre Alex Zanotelli, con un appello ai giornalisti, tanto accorato quanto vano: ci sono oggi guerre (massicciamente taciute dai mass-media) in Yemen, Sudan, Darfur, Somalia, Eritrea, Centrafrica, Sahel, Ciad, Mali, Libia, Congo, Etiopia, Kenya, Nagorno-Karabakh, Armenia, che si aggiungono a Palestina, Siria, Kurdistan, Iraq, Afganistan, Cecenia, Niger, etc., e l’elenco è incompleto Per non dire dell’embargo (bloqueo) che è una guerra a bassa intensità, concepita per creare il massimo dolore alle popolazioni, in atto da oltre settant’anni contro Cuba, a cui non si può perdonare di aver nazionalizzato il rhum Bacardi, o contro il Venezuela, a cui partecipano anche l’Italia e la CE. C’erano nel 2022 ben 59 guerre in corso nel mondo: 59, ma il numero, oltre che difficilmente accertabile, è in continuo aumento.

Eppure tutte queste guerre i gruppi dirigenti italiani dovrebbero conoscerle bene, non foss’altro perché solo lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per 14 miliardi di euro, e perché appartengono personalmente ai vertici della nostra miliardaria industria d’armi, la “Leonardo”: l’Amministratore delegato è Profumo (del PD), Minniti (PD) ne presiede la Fondazione, come già Violante (PD), l’Amministatore delegato di “Difesa servizi” è Fausto Recchia (PD), il Direttore generale dell’Agenzia Industria Difesa è Nicola Latorre (PD) e – dimenticavo – partecipa direttamente a questa industria il Ministro della Difesa del Governo Meloni Crosetto (come il suo predecessore in quel ministero Guerrini, PD)[6]. E alla Leonardo partecipa come azionista anche Elkann (ex Fiat) che qualcosa conta nel determinare la politica dei suoi giornali, “Stampubblica” e “Corriere”, i vergognosi giornali con l’elmetto.

È sufficiente a proposito dell'”occultamento” constatare come anche il papa ne sia vittima, e la sua voce impegnata per la pace sia praticamente scomparsa dai teleschermi, che si riempivano devotamente ogni giorno dei suoi predecessori; la stessa CEI ha usato l’espressione “spirale del silenzio” per commentare il pressoché totale silenzio dei media riservato a un milione e mezzo (!) di giovani radunato a Lisbona, ma quel silenzio si spiega bene con l’appello rivolto lì il 6 agosto 2023 da papa Francesco: “Non temete di lottare per la pace, per un mondo senza guerre!”.

Tacere, nascondere, non nominare è solo una forma dell’occultamento, particolarmente illustre e particolarmente italiana: «Sopire, troncare, padre molto reverendo; troncare, sopire» (Manzoni).

Appartiene all’occultamento di un fatto anche la capacità di rendere quel fatto del tutto incomprensibile. Ad esempio nel caso della guerra in corso occultandone del tutto le cause politiche, storiche, economiche. Il corrispondente da Mosca della Rai è stato rimosso dal suo incarico per la colpa di aver accennato in una sua corrispondenza al fatto che la guerra in Ucraina era cominciata in effetti nel 2014, con un colpo di stato seguìto dalla ucrainizzazione forzata e sanguinosa delle regioni e delle popolazioni russofone (che aveva già fatto 14.000 morti). A tal punto la necessità prioritaria della conformazione deve prevalere e prevale su qualsiasi informazione.

Eppure già nel 2014 la situazione era del tutto chiara, così come erano del tutto prevedibili e previsti i suoi sviluppi di guerra. Nella gloriosa rivista fondata da Piero Calamandrei “Il Ponte”, già nell’aprile del 2014 (ad opera di uno studioso che non rivendica affatto doti paranormali di previsione del futuro) si potevano leggere le parole seguenti:

“Dalla disintegrazione della Jugoslavia lo schema è sempre quello: si finanzia un’opposizione ‘democratica’, si provoca la reazione dei governi istituiti, si sostengono i ‘ribelli’ sul campo attraverso agenti coperti (della Cia, del Mossad, dei servizi europei), attraverso martellanti campagne mediatiche (televisioni, stampa, social media), e si gestiscono i processi successivi usando tutte le risorse dei ‘diritti umani’, del ‘diritto internazionale’, della ‘libertà’ .

Quanto sta accadendo in Ucraina è da manuale: la strategia dell’ampliamento a est della Nato e dell’Unione europea, avviata negli anni novanta (dal 2006 i campi paramilitari in Polonia, di addestramento dell’opposizione “democratica” ucraina, reclutando neonazisti e criminali comuni) ha avuto una brusca, auspicata accelerazione con il rifiuto del governo legittimo ucraino di entrare nell’area d’influenza europea a condizioni capestro. La spirale manifestazioni di piazza-repressione è stata ulteriormente accelerata il 20 febbraio quando i cecchini della ‘libertà’ hanno sparato sui manifestanti e sulla polizia. La reazione all’escalation è stata l’autodifesa della popolazione russofona da una prospettiva certa di pulizia etnica, il referendum, l’annessione della Crimea alla Federazione russa, l’annessione dell’Ucraina (per ora politica, ma il governo di Kiev è già partner della Nato) all’Unione europea.

Le poste in gioco principali sono due: l’estensione dell’area d’influenza americano-europea ai confini con la Federazione russa, le risorse energetiche dell’area (gas e gasdotti, petrolio), la prospettiva di aprire nuove linee commerciali europee al gas americano. Non finisce qui: l’accordo di associazione del governo “europeista” di Kiev, con la sua milizia nazionalista e neonazista, susciterà inevitabilmente le reazioni delle regioni russofone dell’est dell’Ucraina, che già si stanno mobilitando per seguire l’esempio della Crimea. Così come la Nato sta velocemente militarizzando i paesi baltici, Estonia, Lettonia e Lituania (…)” [7]

Si può anche descrivere, in base all’esperienza dei fatti, una procedura costante che deve condurre, e conduce, alla guerra o al golpe (è il caso del Cile, di Cuba, della Jugoslavia, del Venezuela, etc., e della stessa Ucraina). Tale procedura prevede quattro momenti strettamente legati: a) determinare, anche artificialmente, una crisi economica nel Paese che deve essere fatto oggetto della guerra o del golpe; b) creare, o comunque enfatizzare al massimo, dei movimenti di piazza nel Paese in oggetto; c) costruire una massiccia e pervasiva campagna di stampa volta a demonizzare quel Paese e i suoi gruppi dirigenti; d) saltargli alla gola con le armi.

Così è forse comico (ma è piuttosto tragico) pensare che quando un tizio con le bretelle parlerà ossessivamente delle sofferenze del Dalai Lama in Tibet, ciò significherà che la guerra contro la Cina è imminente (perchè saremo al punto c) della procedura di guerra).

Nel caso dell’Ucraina la situazione era del tutto chiara fin dal 2014 (data del saggio di Binni appena citato), naturalmente a condizione che si volesse vedere la verità delle cose e la si volesse spiegare (due intenzioni evidentemente del tutto assenti nei giornalisti dei mass-media dominanti).

Il potere mediatico persegue l’omologazione ideologica e politi­ca, facendo sì che «i cittadini», come scrisse Condorcet, «non apprendano mai nulla che non sia adatto a confermarli nelle opinioni che i loro governanti vogliono suscitare in loro».

Naturalmente rende incomprensibile un fatto anche la soppressione di qualsiasi vero dibattito su di esso, in particolare di qualsiasi contraddittorio.

L’infamante accusa di essere nemici o al soldo del nemico è sufficiente a tacitare, o rendere inascontabile, qualsiasi voce di critica alla guerra. L’autorevole esponente del “Mulino” Matteucci definì “nemici interni” i pacifisti al tempo della guerra in Iraq. Al tempo della Prima Guerra mondiale, fu quest’accusa a uccidere chi si opponeva alla guerra (si noti: ad opera di entrambe le due parti in conflitto), il francese Jean Jaurès fu accusato di essere al soldo dei tedeschi e la tedesca Rosa Luxemburg fu accusata di essere al soldo dei francesi. Che si potesse (e dovesse) essere semplicemente contrari alla guerra, senza per questo essere schierati con il nemico: era questa l’informazione che doveva essere occultata.

Eppure è proprio il rifiuto della guerra in quanto tale che rappresenta il cuore razionale dell’attuale opposizione alla guerra, resa oggi del tutto obbligata dalla prospettiva presente e imminente della guerra atomica.

Proprio a partire da tale rifiuto si sviluppa la riflessione di Aldo Capitini, teorico e organizzatore della rivoluzione nonviolenta e della “omnicrazia” (più che di democrazia si tratta di una sorta di integrale socialismo liberale), il quale nell’estate del 1968, a pochi mesi dalla morte, scrisse un paragrafo intitolato Il rifiuto della guerra:

“Una prova della difficoltà o impossibilità da parte del riformismo e dell’autoritarismo di formare il ‘nuovo uomo’ è nel fatto che l’uno e l’altro sono disposti ad usare lo strumento guerra. Si sa che cosa significa, oggi specialmente, la guerra e la sua preparazione: la sottrazione di enormi mezzi allo sviluppo civile, la strage di innocenti e di estranei, l’involuzione dell’educazione democratica e aperta, la riduzione della libertà e il soffocamento di ogni proposta di miglioramento della società e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell’efficienza distruttiva al controllo dal basso. Tanta è la forza spietata che la decisione bellica mette in moto, che essa viene ad assomigliare ad una delle terribili manifestazioni della ‘natura’, le più assurde e crudeli e spietate, e certamente ora le supera in numero di vittime. È difficile pensare che la natura possa distruggere in pochi minuti tante persone quante ne distrusse la bomba atomica a Hiroshima, riducendone alcune a una semplice traccia segnata sul muro. E quella bomba era di forza molto modesta rispetto alle bombe attuali. (…)

La ragione del pacifismo integrale non è soltanto il fatto evidente che la guerra, una volta accettata, conduce a tali delitti e a tali stragi, specialmente oggi, che è assurdo presumere di farla e contenerla; ma è la vita della compresenza che si sceglie, il suo accertamento, la sua costruzione, la sua celebrazione quotidiana. Mentre si lavora per migliorare continuamente il rapporto di comprensione e di sacrificio verso ogni essere, non si può interrompere tale lavoro e mutare l’apertura in chiusura.

Ma c’è anche una ragione di carattere organizzativo. È chiaro che bisogna arrivare a moltitudini che rifiutino la guerra, che blocchino con le tecniche nonviolente il potere che voglia imporre la guerra. L’Europa ha sofferto per non aver avuto queste moltitudini di dissidenza assoluta, per es. riguardo al potere dei fascisti e dei nazisti. L’omnicrazia deve prender corpo anche in questo modo: nella capacità di impedire dal basso le oppressioni e gli sfruttamenti; ma questa capacità delle moltitudini ha il suo collaudo nel rifiuto della guerra, intimando un altro corso alla storia del mondo. Se davanti alle forze della Natura non ci si è mossi con il programma che la lotta e la loro utilizzazione fosse per tutti, «fra sé confederati» diceva il Leopardi, si è persa la tensione a trovare il punto della trasformazione della Natura al servizio di tutti, come singoli: chi dà la morte, non può rimproverare la Natura di preparare la nostra morte.”[8]

Essere contro la guerra in quanto tale (e la stupidità del “campismo” senza campo)

Faccio notare che anche ai giorni nostri il fatto che si possa essere contro la guerra in quanto tale, senza per questo fare il tifo per uno dei due contendenti, è la posizione più censurata, rimossa e proibita che ci sia.

E questo è tanto vero che questa posizione risulta difficile da capire anche per tanti/e che “a sinistra” dicono di essere schierati contro la guerra, ma che non riescono a rinunciare a un grottesco “campismo”. Il “campismo” era l’idea che i comunisti nel mondo intero dovessero subordinare la loro politica agli interessi del “campo socialista”, cioè in sostanza dell’URSS e degli Stati suoi alleati, con un’applicazione paradossale della celebre frase “Il mio paese, giusto o sbagliato!”, che risale all’ ufficiale di marina e commodoro statunitense Stephan Decatur dell’inizio del XIX secolo. Se quell’idea del “campo socialista” era già sbagliata ai tempi dell’URSS (e fu pagata duramente dai comunisti nel mondo) diventa ora addirittura grottesca, perché non tiene alcun conto non solo della situazione storica mutata ma soprattutto delle differenze fra l’URSS di Lenin e la Russia di Putin, che – per dirne solo una[9] – ha proceduto al più gigantesco processo di privatizzazioni della storia regalando alle oligarchie il patrimonio dei Soviet. Dunque oggi la tentazione del “campismo” sopravvive assurdamente alla fine del “campo socialista”: sarebbe un “campismo senza campo”. Quanto ai rapporti della Russia di Putin con l’URSS basterebbe ricordare che lo stesso Lenin è stato ritenuto da Putin colpevole di aver creato l’Ucraina, e che nel 2014  il Foro Nazionale della Gioventù di Seliger (riunione dei giovani del partito di Putin) ha definito “traditori” i bolscevichi che, con la loro inopportuna rivoluzione, sabotarono lo sforzo bellico russo nella prima guerra mondiale[10].

Per tornare al filo principale del nostro ragionamento, si può osservare che la storia ha dato ragione agli eroici avversari della guerra come Jaurès o Luxemburg, e oggi chiunque si vergognerebbe[11] a sostenere quelle accuse di disfattismo e tradimento, ma i contemporanei furono “conformati” a crederle vere, con le conseguenze che sappiamo: oltre 17 milioni morti in quella Prima guerra mondiale e l’innesco della Seconda.

Non accade qualcosa di simile anche oggi, sotto in nostri occhi, con la complicità del generalizzato silenzio dei mass media e della nostra passività?

Per venire all’oggi e all’Italia, abbiamo assistito a un fenomeno senza precedenti negli anni della Repubblica, cioè a “liste di proscrizione” preventiva per giornalisti o intellettuali definiti “putiniani” e, insomma, al soldo del nemico. I proscritti, elencati nella prima pagina del “Corriere della Sera” con tanto di foto-identikit, venivano ipso facto esclusi dai media e, comunque, le loro voci rese inascoltabili e inefficaci. A chiarire l’assoluta centralità dell’aspetto mediatico della guerra, si noti che il tribunale il quale, senza processo, pronunciava la sentenza di proscrizione erano gli stessi giornali mainstream del capitale, e che la pena consisteva nell’essere esclusi dal circuito della comunicazione, interamente dedicato alla totalitaria conformazione. E poco importa che alcune di queste voci provenissero da autorevolissimi militari italiani o riprendessero alla lettera posizioni analoghe sostenute dai vertici dell’ONU, da alti militari USA e da esponenti della NATO.

Quando la censura si incrina

Il 7 settembre 2023, nel corso di un’audizione presso la Commissione Affari Esteri del Parlamento Europeo, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ha rivelato che il 15 dicembre 2021 Putin aveva presentato una bozza di trattato in nove punti che, citando il tratto di Helsinki del 1975 e la Carta per la sicurezza europea del 1997, prevedeva l’impegno a non partecipare o sostenere azioni di guerra, chiedendo in cambio l’impegno della NATO a non estendersi ulteriormente verso i confini russi (un impegno peraltro già assunto solennemente dai leaders occidentali in occasione dello scioglimento unilaterale del Patto di Varsavia). “Naturalmente non lo abbiamo firmato”, ha dichiarato tranquillamente Stoltenberg al Parlamento europeo, ma a noi qui interessa soprattutto il fatto che di quella proposta russa i nostri media non abbiano dato notizia, né quando fu formulata nel 2021, né allo scoppio della guerra, né mai.

Risale invece al marzo 2022, a guerra già in corso, un altro credibile “Piano di pace” sembra concordato fra Russia e Ucraina (come rivelato dal “Financial Times”) e naturalmente respinto da USA e GB nel generalizzato silenzio, e poi ancora un Piano in 15 punti sostenuto dalla Cina. Non sappiamo se il nostro Governo co-belligerante abbia avuto voce nel decidere questi sdegnosi rifiuti, ma diamo purtroppo per certo (visto come è stato umiliato e ridotto) che il Parlamento italiano non ne sapesse niente. Forse se di queste cose, o dell’appello di 15 autorevoli personalità americane critiche verso la politica di guerra di Biden (pubblicato dal “New York Times” il 16 maggio), fosse stata informata l’opinione pubblica le cose sarebbero cambiate.

Douglas Abbott Macgregor, un autorevole colonnello dell’esercito USA veterano e decorato, già consigliere del Pentagono, ha dichiarato:

“A questo punto penso che tutte le bugie che sono state raccontate per più di un anno e mezzo sul fatto che gli ucraini stanno vincendo, che la causa ucraina è giusta, che i russi sono cattivi e incompetenti: tutto questo sta crollando.”[12]

In effetti noi, la cosiddetta opinione pubblica, della guerra in corso (a cui pure, lo ripeto, l’Italia partecipa a pieno titolo come co-belligerante) non sappiamo nulla, se non gli spot della propaganda che ci conformano: non sappiamo le cause delle guerra (e dunque le possibilità della pace); non sappiamo se la capitale Kiev sia stata sottoposta allo stesso trattamento di Belgrado o di Bagdad e – se così non è stato – non ne sappiamo i motivi; non sappiamo le vere posizioni dei contendenti sul terreno; non sappiamo quali armi siano impiegate e con quali conseguenze; non sappiamo neppure quali armi l’Italia fornisca alla guerra, perché questo dato è stato secretato. Soprattutto non sappiamo il vero numero dei morti e dei feriti[13] (un dato che fino alla guerra nel Vietnam veniva aggiornato quotidianamente).

Quando i fatti sono talmente clamorosi da non poter essere celati subentra una modalità estrema di censura, che è il rovesciamento. Così (per fare solo pochi esempi fra i tanti possibili) la distruzione del gasdotto North Stream 1 e 2 che portava alla Germania il gas russo è stata dai nostri organi di conformazione attribuita senz’altro…agli stessi russi, senza peraltro che la Germania (la prima danneggiata dalla distruzione del gasdotto) abbia trovato nulla da ridire. Il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh ha invece individuato nella NATO i responsabili dell’attentato ai gasdotti, e recentemente anche il prestigioso settimanale tedesco “Der Spiegel” ha smentito la tesi della responsabilità russa sostenendo che “un numero sorprendente di indizi punta all’Ucraina” e che “è abbastanza evidente che tutte le persone coinvolte sono legate all’Ucraina”, concludendo che “il background e la formazione del gruppo indicano una azione professionale: forse servizi segreti o militari” (americani e britannici). Si aspetta invano che i nostri organi di conformazione diano conto di queste autorevolissime inchieste che smentiscono le tesi da loro propagandate.

Analogo rovesciamento è stato operato a proposito degli atti terroristici (come l’uccisione con una bomba della figlia dell’ideologo putiniano Dugin), del Tir-bomba fatto esplodere sul ponte di Kerch in Crimea (tre morti) e del lancio di droni esplosivi sulle città russe: i russi (almeno così ci hanno unanimemente conformato) questi crimini se li sono fatti da soli, essendo oltre che perfidi aggressori anche masochisti[14].

Superfluo ricordare che non sappiamo praticamente nulla del dissenso verso la guerra presente in Ucraina[15] (anche per lo scioglimento dei partiti e l’incarcerazione degli oppositori e dei pacifisti), e a mala pena sappiamo che in Russia un intellettuale importante come Kagarlitsky, colpevole di criticare la guerra, è stato condannato per “terrorismo”.

Così, per paradosso, la guerra è al tempo stesso occultata e, in quanto resa del tutto incomprensibile, naturalizzata, cioè presentata come un inspiegabile e inevitabile fatto di natura, quasi fosse un terremoto. E ai terremoti non ha senso opporsi.

3. La censura per creazione (e narrazione)

Tuttavia la vergogna della “censura per occultamento”, nelle sue varie forme, non deve farci trascurare il ruolo centrale che nel caso della guerra ha svolto e svolge la censura “di secondo tipo”, quella che usa la creazione e la narrazione ai fini della conformazione.

Ora accade che la conformazione a favore della guerra per svolgere il suo compito si trovi di fronte a problemi effettivamente assai complessi e impervi.

Nessuna delle due parti in guerra può ricorrere per giustificarla agli argomenti del diritto internazionale (peraltro da sempre debolissimi agli occhi delle masse). Nessun diritto internazionale legittima una invasione come quella russa e – dall’altro lato – sono troppi e troppo ingombranti gli scheletri (purtroppo non metaforici) nell’armadio dell’Occidente per poter ricorrere a motivazioni di diritto: come si può condannare l’intervento armato russo in difesa del diritto di secessione della Crimea e del Donbass dopo aver fatto una guerra per garantire il diritto di secessione del Kosovo? E come affermare l’inviolabilità dei confini e il diritto dei popoli all’autonomia mentre si sostiene l’occupazione illegale e la politica di apartheid di Israele in Palestina e la feroce repressione della nazione kurda ad opera della Turchia, la seconda potenza militare della NATO? Si può negare il diritto della Russia a non vedere installati missili NATO a 30 secondi da Mosca quando per rispettare il diritto degli USA a non vedere installati missili sovietici a Cuba si è rischiata la guerra nucleare nel 1962?

La coerenza e la reciprocità, che devono caratterizzare – per loro natura – gli argomenti di tipo etico, sono invece senz’altro soppresse dalla conformazione di guerra.

Neppure si può ricorrere in questo caso all’argomento consueto del “supremo interesse nazionale” a cui sacrificare la pace, perché dal punto di vista geo-politico è fin troppo evidente che questa guerra rappresenta (almeno per l’Italia e l’Europa) l’esatto contrario dell’interesse nazionale. La guerra in corso infatti comporta: (a) una spesa assai ingente e sempre crescente per gli armamenti (il 2% del PIL, come richiesto già da Trump e ora ottenuto da Biden), e questo in società come la nostra che già vivono la crisi drammatica del welfare e un aumento spaventoso della miseria: in Italia le spese militari passano da 25,5 a 29,5 miliardi; (b) le armi che l’Europa paga sono prodotte perlopiù negli USA, e pagate agli USA, contribuendo così a risolvere la crisi economica di sovraproduzione degli USA (il warfare di cui parla Chomsky), e forse per questo autorevoli dirigenti statunitensi hanno dichiarato che la guerra deve essere “più lunga e sanguinosa che sia possibile”. Questo non solo al fine di impantanare per anni la Russia in “un nuovo Afganistan”, ma anche perché sono queste guerre “lunghe” quelle che le industrie d’armi preferiscono, “guerre sulla cui sicura pluriennale durata si possa contare”, come il Vietnam, che fu “occasione di produrre e di consumare il triplo delle bombe impiegate durante tutta la seconda guerra mondiale” (Anders); (c) la rinuncia all’import/export con la Russia, da sempre vantaggioso per le nazioni europee, e in particolare la rinuncia alle economiche fonti energetiche russe, da sostituire con quelle americane più costose e di peggiore qualità; (d) deriva da questo anche un incremento dei costi di produzione per le industrie europee che le penalizza a fronte delle concorrenti statunitensi: la crisi economica europea e la partecipazione subalterna dell’Europa alla guerra sono una cosa sola; (e) la rinuncia a qualsivoglia margine di autonomia (o dignità) nazionale, dato che tutto è stato sussunto sotto il comando della NATO, cioè degli USA, a cui il recente vertice di Vilnius ha affidato perfino le decisioni relative all’eventuale scatenamento della guerra atomica, che si svolgerebbe comunque in Europa, avendo per bersagli prioritari le basi NATO (di cui l’Italia, con ben 120 strutture, detiene il non invidiabile record).

Comunque, questo il punto assolutamente decisivo su cui dovremo tornare, la guerra atomica (cioè la fine del mondo ad opera dell’uomo) ora non è più esclusa in via di principio.

Anche l’argomento usato in altre guerre recenti, quello che consiste nel loro carattere “umanitario” o (con tragico rovesciamento dei fatti) di peacekeeping, cioè di mantenimento della pace, risulta in questo caso difficilmente utilizzabile. Furono presentate come “umanitarie” le due guerre in Iraq (1991 Bush sr. e 2003 Bush jr.), quella ultraventennale in Afganistan, quelle che hanno distrutto la Somalia, la Libia, la Siria, etc… Diversi anni dopo e, soprattutto, dopo diverse centinaia di migliaia, forse milioni di morti (furono 700.000 solo in Iraq), quell’argomento “umanitario” risulta – per così dire – logorato dall’eccessivo uso, e francamente indicibile.

Le guerre “sotto falsa bandiera”

Il giornalista Julian Assange, è atteso da 175 anni di carcere negli USA e viene fatto morire in Gran Bretagna di una terribile morte lenta per aver fatto il suo mestiere di giornalista, cioè pubblicare notizie vere, e questo avviene nella più totale indifferenza dei suoi colleghi e dei mass media. Forse la sua colpa più grave è aver dichiarato: “Se le guerre possono essere avviate dalle bugie, le stesse possono essere fermate dalla verità”.

L’affermazione che le guerre possono essere avviate dalle bugie non è metaforica: in un libro di Enrica Perucchietti[16] si prendono in esame una serie di guerre e attentati forieri di guerre condotti “sotto falsa bandiera”, cioè ad opera dagli stessi Governi e dei loro servizi e/o agenti per persuadere l’opinione pubblica indignata a spaventata a sostenere la guerra. Le cosiddette operazioni “sotto falsa bandiera” sono parte integrante della censura per creazione, e per narrazione.

In esergo al libro della Perucchietti si cita un’affermazione di Hermann Göring:

“Ovviamente la gente non vuole la guerra. Perché un qualche poveraccio d’una fattoria dovrebbe voler rischiare la propria vita in una guerra quando quel che può ottenerne nel migliore dei casi è di tornare vivo alla sua fattoria? Naturalmente la gente comune non vuole la guerra; né in Russia né in Inghilterra né in America, né, per quel che conta, in Germania. Questo è chiaro. Ma dopotutto sono i leader di un Paese che ne determinano la politica ed ogni volta è solo questione di portare il popolo dove lo si vuole, ciò è sempre vero, in una democrazia come in una dittatura fascista, in presenza d’un Parlamento o in una dittatura comunista. (…) Il popolo può sempre essere sottomesso al volere dei leader. È facile. Tutto ciò che devi fare è dir loro che sono sotto attacco e denunciare i pacifisti per la loro mancanza di patriottismo che non può che mettere a rischio il Paese. Funziona allo stesso modo in qualunque nazione.”[17]

Oggi sappiamo con certezza (grazie alla desecretazione dei documenti) che furono fatti di questi tipo, provocati “sotto falsa bandiera” perché il popolo si sentisse “sotto attacco” e acconsentisse alla guerra, molti eventi “misteriosi” che condussero a guerre o a colpi di Stato.

L’esplosione nel 1898 della corazzata USA “Maine” nella baia dell’Avana fu attribuita falsamente agli spagnoli per consentire la guerra ispano-americana, e in quella circostanza è passata alla storia una telefonata fra il magnate della stampa Hearst[18] e il suo fotografo mandato anticipatamente a Cuba; a quest’ultimo che dalla città dell’Avana del tutto in pace chiedeva quale guerra mai dovesse documentare, Hearst rispose: “Tu fai le foto, io procurerò la guerra”.

Nel 1915 fu l’affondamento della nave passeggeri “Lusitania”, mandata intenzionalmente nella zona della flotta militare tedesca, che riuscì a legittimare l’ingresso in guerra degli USA, fino a quel momento rifiutato dall’opinione pubblica statunitense.

L’incendio del Reichstag del 1933, attribuito del tutto falsamente a Dimitrov, dirigente della III Internazionale comunista, aprì le porte alla legislazione totalitaria di Hitler e alla persecuzione dei comunisti.

Il Segretario generale dell’ONU, lo svedese Dag Hammarskjöld, morì nel 1961 in un incidente aereo mentre era impegnato in una missione di pace per evitare la secessione del Katanga e la guerra nell’ex Congo, le cause dell’incidente non furono mai chiarite, anche se il Presidente americano Truman disse: “Era sul punto di ottenere qualcosa quando l’hanno ucciso. Notate che ho detto ‘quando l’hanno ucciso’ “. Luciano Canfora ha scritto:

«E ora, dopo quarant’anni, nelle pagine molto interne dei giornali, leggiamo quello che abbiamo sempre saputo: che l’Union Minière condannò a morte (per ‘incidente aereo’) anche Hammarskjöld, il segretario generale dell’ONU, colpevole di opporsi alla secessione del Katanga, preda ambita dell’Union Minière.»[19]

Della medesima natura fu il cosiddetto “incidente del Golfo del Tonchino” del 2 agosto 1964, cioè un attacco vietnamita a una nave USA che in realtà non avvenne affatto (ma che servì a giustificare la guerra del Vietnam: 58.000 americani e 3.000.000 di vietnamiti morti).

Nel 1981 il leader di Panama Omar Torrjios[20] e il presidente dell’Ecuador Jaime Roldós Aguilera (che era stato eletto su un programma di contrasto allo sfruttamento nord-americano del suo paese) furono assassinati entrambi in strani “incidenti” aerei[21], che negli italiani non possono non richiamare l’assassinio di Enrico Mattei, colpevole di essersi messo di traverso al monopolio delle “Sette sorelle” del petrolio.

Questo elenco terribile è meramente esemplificativo e potrebbe continuare molto a lungo, comprendendo anche la “strategia della tensione” in Italia inaugurata dalla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e culminata nell’assassinio di Aldo Moro, oltre a infinite sanguinose provocazioni in America Latina, in Africa e in Asia, non esclusa la creazione di Al-Qaeda e dell’ISIS con il sostegno degli stessi servizi occidentali[22]. Una strategia di menzogna che ebbe un episodio culminante nella celeberrima ostensione all’ONU il 5 febbraio 2003 della boccetta con una polverina bianca (che doveva essere antrace e probabilmente era talco) come prova della imminente guerra batteriologica di Saddam Hussein contro l’Occidente[23]. Quel gesto è ora definito dai media americani “the big lie” (“la grande bugia”)[24], come peraltro era una bugia l’affermazione di Blair davanti al parlamento inglese secondo cui  Saddam Hussein possedeva le armi di distruzione di massa e che il suo armamento missilistico gli avrebbe permesso di arrivare in tre quarti d’ora sino a Londra. Le armi batteriologiche e i missili intercontinentali di Saddam Husserin non c’erano, ma la guerra vi fu, e il consenso dell’opinione pubblica che permise la guerra vi fu, ed entrambi furono terribilmente “veri” e non falsi.

Non è esagerato dire che la storia dell’Occidente e del mondo abbia galleggiato su un mare di menzogne.

Recentemente, nella guerra russo-ucraina, abbiamo assistito a un episodio che somma in sé sia il meccanismo della “falsa bandiera” che l’assoluta imminenza della guerra nucleare: il 15 ottobre 2012 un missile cade in territorio polacco uccidendo due persone; ma la Polonia fa già parte della NATO e, per lo statuto della NATO, un attacco al suo territorio farebbe scattare la guerra a un livello terribilmente più pericoloso. Il portavoce di Zelensky Mychajlo Podoljak, ripreso dal coro dei nostri mass media, si affrettò a dire che si trattava di “lanci deliberatamente pianificati dalla Russia e mascherati da errori”, chiedendo l’immediato e diretto intervento della NATO. Ma il missile era ucraino.

C’è inoltre qui un circolo vizioso che segnalo. Chi dovrebbe denunciare questa strategia della menzogna sarebbe la stampa, ma se la stampa è interamente asservita e conformata chi mai può denunciare l’asservimento e la conformazione della stampa?

4. La narrazione a sostegno della guerra

La conformazione a sostegno della guerra, non potendo ricorrere a nessuno degli argomenti “tradizionali” (la guerra in nome del diritto, la guerra in difesa dell’interesse nazionale, la guerra peacekeeping umanitaria), deve dunque ricorrere alla forma più potente di censura che abbiamo definito di “secondo tipo”, cioè quella creativa e fatta di narrazione.

Allora si è fatto ricorso a quella che possiamo definire la narrazione fondamentale delle nostre società, la guerra contro il nazifascismo del 1939-1945, assunta come prototipo della guerra necessaria anzi giusta e lodevole. Faccio notare che la medesima narrazione, cioè l’assunzione a modello del medesimo evento, la guerra contro Hitler, è fatta propria da entrambi le parti in conflitto. Anche la cosiddetta reductio ad Hitlerum è stata largamente usata nel recente passato: erano, di volta in volta, “nuovi Hitler” Saddam Hussein e Milosevic, Osama Bin Laden e Gheddafi, e ora Putin, insomma tutti coloro a cui l’Occidente decideva di muovere guerra e al cui carattere diabolico dovevamo essere conformati.

Fra persone ragionevoli e per bene (non conformate) non ci sarebbe bisogno di sprecare troppe parole per dire che il paragone con Hitler è falso e del tutto insostenibile: il nazismo fu un progetto di dominio assoluto sul mondo con motivazioni razziste, un progetto che era stato apertamente dichiarato e che anzi era in corso di realizzazione. Lo stava mettendo concretamente in atto la più forte potenza del tempo, sostenuta dai formidabili apparati dell’industria e dell’esercito della Germania, il più poderoso blocco capitalista e imperialista del tempo. Nessuna di queste caratteristiche appartiene oggi all’Ucraina di Zelensky o alla Russia di Putin, e il fatto che sia stato possibile affermare che occorreva fermare la Russia in Ucraina per evitare che essa si estendesse fino al…Portogallo (sic!) dice solo quanto sia possibile per la conformazione scendere in basso e quanta poca stima essa dimostri per l’intelligenza del suo pubblico.

Senza dire che alla oltraggiosa identificazione della guerra in corso con la Resistenza antifascista si opponevano altri – chiamiamoli eufemisticamente così – “particolari” francamente non trascurabili.

La Russia di Putin è antifascista?

Sul versante della Russia è davvero difficile definire antifascista l'”eurasiatismo”, l’ideologia di Aleksandr Dugin, il vero ispiratore di Putin. L’eurasiatismo coniuga il “tradizionalismo integrale” (gli autori della “nuova destra” sospetti di fascismo, come il francese René Guénon e l’italiano Julius Evola, che Dugin traduce e pubblica) con il pensiero di Martin Heidegger e con costitutivi elementi di esoterismo apocalittico. La sua opposizione all’Occidente, “degenerato” perché liberale e protestante, è dunque in nome di una Russia bianca e ortodossa, elevata a baluardo della “tradizione”, la rappresentante più genuina della spiritualità slavo-ariana fusa con il neo-paganesimo tradizionale. La Siberia sarebbe rimasta il “cuore immacolato” dell’Eurasia, il centro di irradiazione nel mondo degli Ariani (neanche a dirlo: caratterizzati da capelli biondi e occhi azzurri). Dunque non solo tale opposizione all’Occidente non ha nulla a che fare con il marxismo, internazionalista e multietnico, ma per molti aspetti è il suo contrario, esprimendosi in programmi come il rifiuto della democrazia e della lotta di classe, la difesa del patriarcato, la lotta alla modernità, al femminismo e alle libertà (anzitutto quelle sessuali e dei movimenti LGBTQ+).

Non per caso l’ideologia del putiniano Dugin ha trovato apprezzamenti e contatti diretti con la destra razzista italiana, dalla Lega di Salvini a Fratelli d’Italia di Meloni, e colpiscono le analogie con le posizioni della destra cattolica ferocemente avversa a papa Bergoglio (l’ultratradizionalista arcivescovo Carlo Maria Viganò, si schierò con Putin all’inizio della guerra in Ucraina).

Ma c’è di peggio. L’assessore meloniano Maurizio Raffaele Marrone[25] nel 2016 aprì un “consolato” della filo-russa Repubblica Popolare di Donetsk a Torino.

Marrone, chi era costui? Così lo descrive un articolo del “Fatto”:

“Negli anni dell’università milita nel Fuan (gli studenti di estrema destra) e le sue prime grane sono causate da furori ideologici. L’8 giugno 2011 è tra gli studenti che irrompono ai Murazzi, storico centro sociale torinese, con l’idea di ‘restituire il palazzo alla città’. Sulle pareti lasciano queste scritte: ‘Partigiani infami’, ‘Boia chi molla’, ‘Viva il duce’, ‘Onore a Mussolini’. Marrone all’epoca è consigliere comunale, il più votato del Pdl a Torino. Nessun imbarazzo: ‘Non ho nulla di cui pentirmi’. (…) nel 2013 si esercita in un altro capolavoro di retorica, stavolta neonazista, con questo post su Facebook nei giorni dei funerali di Erich Priebke: ‘Una rinfrescata alla memoria di quanti si accaniscono su Priebke anche dopo la morte: la rappresaglia alleata era cinque volte più feroce’.(…) il ‘centro di rappresentanza’ presieduto da Marrone è stata l’unica sedicente ambasciata dei separatisti filorussi in Europa. Il meloniano ha un rapporto così intenso con il Donbass da avergli fatto incrociare la strada con il latitante neonazista lucchese Andrea Palmieri (…), un gentiluomo condannato a 2 anni e 8 mesi per aver accecato un ragazzo in una rissa e ricercato dalla magistratura di Genova per il reclutamento di mercenari italiani in Ucraina.”[26]

Nel curriculum di un simile sostenitore di Putin non poteva mancare l’accanimento contro le donne e l’interruzione volontaria di gravidanza:

“Marrone (…) è noto soprattutto per portare avanti le idee più ancestrali sul corpo delle donne: nel 2020 ha scritto una delibera contro la pillola abortiva, nel 2022 ha stanziato 400 mila euro per scoraggiare le interruzioni di gravidanza (…).”[27]

Occorre anche dire che queste posizioni del meloniano Marrone sono largamente consonanti con quanto sostenuto nel fronte putiniano in Ucraina.

Il 14 maggio 2014 la Repubblica popolare di Donetsk ha adottato una Costituzione, riassunta e commentata in un articolo comparso sullo storico periodico del femminismo italiano “Noi Donne”:

“Restare ancorati ai valori e agli ideali del ‘Mondo Russo’ e onorare la memoria dei suoi antenati”; Chiesa ortodossa russa (patriarcato di Mosca) come religione di Stato e colonna portante della neo-Repubblica; “sette religiose” fuori legge, aprendo così la strada alla persecuzione di qualsiasi religione non gradita alla Chiesa ortodossa russa; “Lo Stato sostiene la famiglia tradizionale come unione tra un uomo e una donna registrata secondo le modalità previste dalla legge” e vieta ogni possibile forma di unione “perversa” tra persone dello stesso sesso, che sarà perseguita per legge; “diritto alla vita” fin dal momento del concepimento, implicando in tale modo il divieto all’aborto; pena di morte. E – dulcis in fundo – una feroce misoginia. Aleksej Mozgovoj, comandante della brigata meccanizzata ‘Prizrak’ [che vede fra i “volontari” anche i nazifascisti europei[28]], nel corso di un’intervista al giornale “Novaja Gazeta” ha spiegato che tutte le donne che frequentano un’osteria o un bar meritano la galera: “Tutte queste giovani donne, che dovrebbero fare nascere i bambini di cui abbiamo bisogno per evitare una crisi demografica, cuocere al forno pirozhki e fare punto croce, invece di occuparsi di questo non fanno altro che distruggere il proprio organismo. D’altronde, perché mai ai vecchi tempi alle donne era proibito sedersi al tavolo? Perché una donna era innanzitutto una madre. Ma che madre potrebbe mai essere se rovina il suo organismo con l’alcool, e ai tempi d’oggi addirittura con le droghe?”[29]

Tutto ciò – vorrei essere chiaro su questo punto delicatissimo – non significa affatto che le repubbliche russofone (anzi russe) siano da considerarsi nel loro complesso fasciste, in esse esistono e sono assai importanti tendenze genuinamente socialiste; e meno che mai tutto ciò significa che i popoli di quelle repubbliche non abbiano diritto a decidere in libertà la loro autonomia statuale: significa però che l’antifascismo non può essere certo considerato come il tratto caratterizzante dell’attuale Russia di Putin e dei suoi sostenitori.

L’Ucraina di Zelensky è antifascista?

Se dunque è davvero assai difficile attribuire la qualifica di “antifascista” allo schieramento putiniano, sono ancora più evidenti le “difficoltà” (chiamiamole ancora con un eufemismo così) a definire antinazista l’Ucraina di Zelensky, data la forte presenza di elementi esplicitamente nazisti nel Governo e nell’esercito ucraino.

Il potere di Zelensky è frutto di qualcosa di molto simile a un colpo di stato (secondo me un golpe vero e proprio, assai ben fatto, con un presidente eletto deposto da moti di piazza), diciamo un non-colpo di stato ma certamente procurato e organizzato dall’Occidente (Victoria Nuland, quella del “Vaffanculo Europa!”, incaricata USA alla bisogna in loco se ne è apertamente vantata).

Quanto alla società ucraina, già nel 2019 l’americana ed ebraica Anti-Defamation League denunciava come il 46% degli ucraini si dichiarasse apertamente antisemita (erano “solo” il 32% quattro anni prima), e come la “liberazione” della gloriosa Ucraina dai russi e dagli ebrei figurasse nei programmi, e nei comizi, dei partiti di Governo. Viene celebrato come padre e simbolo della patria ucraina il collaborazionista filonazista Bandera, responsabile di stermini e di progrom antisemiti. A lui sono ora dedicati in Ucraina statue e francobolli.

Può così accadere che nel parlamento del Canada, per omaggiare Zelensky presente, sia stato presentato come “eroe ucraino, eroe canadese” il novantottenne Yaroslav Hunka, fatto oggetto della standing ovation dei presenti. Peccato che Hunka sia stato membro delle Waffen SS ucraine, volontari al servizio dei nazisti, che si distinsero fra l’altro per i massacri antisemiti[30]. Un piccolo incidente – diciamo così – mediatico, emerso solo per la denuncia della comunità ebraica locale e che comunque ha condotto alle dimissioni il presidente della Camera canadese. Questo (intendo dire: le dimissioni) in Italia non sarebbe certo successo.

Anche la cultura e l’arte vengono coinvolte direttamente nella guerra. Ha affermato la direttrice dell’Istituto ucraino del libro Oleksandra Koval: “Più di 100 milioni di copie di libri di propaganda, compresi i classici russi, devono essere ritirati dalle biblioteche pubbliche”. Secondo costei furono poeti e scrittori russi come Pushkin e Dostoevskij a gettare le basi del mondo russo: “È una letteratura molto dannosa, può davvero influenzare le opinioni delle persone. Pertanto questi libri dovrebbero essere rimossi anche dalle biblioteche pubbliche e scolastiche”[31]. Chissà se quei libri pericolosissimi sono stati anche bruciati?

Peraltro di analoghi vergognosi provvedimenti di guerra alla cultura sono stati fatti oggetto anche in Italia i seminari universitari sui libri di Dostoevskij o l’esecuzione di musiche di Ciajkovskij, etc. Anche i gatti russi, per difendere la democrazia e l’Occidente, sono stati opportunamente esclusi dalle mostre internazionali di bellezza felina.

Soprattutto l’Ucraina, il suo Governo non-fascista emerso dal non-golpe del 2014, ha condotto una guerra in Donbass con 18.000 morti, compresa la strage di Odessa (42 vittime alla Casa del Sindacato con gli occupanti lasciati morire bruciati vivi dai fascisti che sparando gli impedivano di mettersi in salvo). Così come gli accordi di Minsk sono stati, anche a detta dell’OCSE, violati apertamente anzitutto dall’Ucraina.

Data l’esistenza della guerra in Donbass (di cui “Repubblica” & Co., che al tempo ospitavano a pagamento le marchette a Putin nel supplemento “Russia Today”, si guardavano bene dal parlare) forse occorre anche rivedere le date: questa guerra non è cominciata affatto il 24 febbraio 2022 ma molto prima, direi nel 2014 dopo il non-colpo di Stato, e dunque forse è da mettere in questione perfino che la guerra l’abbia cominciata da solo Putin. La guerra non è solo muovere i carri armati oltre un confine straniero, ma è fatta anche di fornitura di armamenti, di addestramento dei militari (e Stoltenberg si è esplicitamente vantato di aver fatto questo almeno da otto anni!), della proibizione della lingua russa nel russofono Donbass, di persecuzioni e massacri, di provocazioni e stragi di civili, dell’insistito “abbaiare” ai confini della Russia (per dirla con le parole del papa), etc.

Nessuna guerra, almeno a mia memoria, è stata preparata nel tempo, programmata e voluta come questa.

Tutto ciò non si deve dire, non si deve sapere, perché contrasta con la narrazione dominante di un’Ucraina democratica aggredita dalla totalitaria Russia e che dunque deve essere difesa, in nome dell’antifascismo, dalle nostre “democrazie” (Polonia di  Morawiecki e Ungheria di Orban in testa!).

Le foto di militari dell’esercito ucraino con la bandiera nazista, con i ritratti di Hitler, con simboli nazi sulle divise o addirittura tatuati sul corpo non sono stati mandate in onda nelle nostre Tv né pubblicate dai nostri grandi organi di conformazione. Personalmente (forse per mia distrazione) ho visto solo nel web, non nei grandi media, i filmati di prigionieri legati, prima picchiati e poi a terra colpiti con colpi di arma da fuoco al ventre, prodromo di una terribile agonia. O le immagini – forse ancora più agghiaccianti – di prigionieri legati al palo con una specie di nastro adesivo, poi schiaffeggiati, denudati dalla vita in giù, e lasciati così, non sappiamo per quanto tempo né a quali temperature. Forse neppure i nazisti, quelli del vero Hitler, si erano comportati così coi prigionieri di guerra.

Voglio anche io pronunciare il mio conformato “Io non sono con Putin, però…”: se ricordo queste cose non è per sostenere la bontà dei russi che sarebbe garantita dalla ferocia degli ucraini, credo infatti che anche i russi in guerra abbiano commesso e commettano altrettante infamie. Ricordare queste cose serve solo a dire che la guerra in quanto tale è un orrore, e che in guerra non ci sono ragioni di parte che possano giustificarla, non ci sono “i buoni” per cui fare il tifo contro “i cattivi”, non ci sono i cow boys contro gli indiani.

Il fatto (che crediamo di aver argomentato) che esistano elementi fascisti o fascistoidi in entrambi gli schieramenti non dovrebbe sorprendere chi tenga presente la lezione di Lenin e di Rosa Luxemburg: poiché la guerra è frutto di contraddizioni inter-imperialiste possono esistere, e purtroppo esistono largamente, elementi di nazionalismo, di bellicismo, di razzismo, insomma di fascismo, in tutte e due le parti.

La tradizione della “guerra giusta” dei democratici borghesi

L’ideologia della “guerra giusta” (che sarebbe giustificata dal suo carattere antifascista) è apparsa ben presente in grande parte della intellettualità europea e italiana.

Un fatto su cui riflettere: questo non ha riguardato solo personaggi esplicitamente e notoriamente arruolati dalla NATO, che non mette conto neppure nominare, ma anche intellettuali rispettabili. In particolare molti sostenitori della “guerra giusta” sono da annoverare fra democratici, liberali, ex-socialisti, transfughi e reduci del Partito comunista etc. Ricordo che anche nel caso delle guerre in Iraq, quando si manifestò nel mondo un’amplissima opposizione alla guerra (si percepiva che quella guerra, la prima dopo la fine dell’URSS, era una guerra costituente, che affermava il dominio unilaterale degli USA sul mondo), proprio nell’area cosiddetta laica si era manifestato lo zoccolo più duro dell’interventismo, con alcune punte apertamente belliciste e militariste, al punto che Ernesto Balducci, nel 1991, parlò a questo proposito di «disavventure della cultura laica». Sono diretti eredi di quella cultura gli attuali “interventisti democratici” che hanno invocato senz’altro la no fly zone, cioè l’abbattimento degli aerei russi da parte della NATO, cioè in pratica la guerra atomica[32].

Peraltro l’esistenza di un accanito “interventismo democratico” (chiamiamolo così) non rappresenta una novità per l’Italia. Anche in occasione della Prima Guerra mondiale si manifestò l’interventismo dei Salvemini e dei Bissolati, che scesero in campo per la guerra a fianco dei D’Annunzio, dei Corradini e dei Federzoni, nazionalisti pre-fascisti.

Col senno di poi della storia, risulta oggi evidente che i nazionalisti vedevano lucidamente che la guerra avrebbe realizzato il loro obiettivo, cioè la fine dell’Italia liberale (la disprezzata “Italietta” giolittiana), e che non altrettanto lungimiranti si dimostrarono gli interventisti democratici à la Salvemini: le conseguenze per la libertà italiana sono ben note (per non dire dei 651.000 militari italiani caduti e dei 589.000 morti civili, il 3,8% della popolazione italiana del tempo).

Anche l’interventismo salveminiano era motivato dall’adesione ai nobili principi, allora contro le autocrazie degli imperi centrali e a sostegno di Francia e Inghilterra, considerate democrazie. Era per Salvemini una “guerra giusta” una guerra dei e per i valori. E non era estranea all'”interventismo democratico” (di ieri e di oggi) una forte vena di laicismo anti-clericale, in opposizione alle tendenze pacifiste espresse dalla Chiesa cattolica (nel ’15-’18 da papa Benedetto XV, oggi da papa Francesco).

L'”interventismo democratico” ha dato prova di sé in Italia anche in tempi più recenti: fu il “democratico” D’Alema, non i governi “reazionari” della DC[33], a portare nel 1999 per la prima volta nel dopoguerra l’Italia in un conflitto (l’aggressione alla Jugoslavia), e fu il “democratico” Napolitano nel 2011 non il “reazionario” (e recalcitrante) Berlusconi a volere la partecipazione dell’Italia all’aggressione contro la Libia, una guerra con ogni evidenza contraria non solo al diritto internazionale ma anche agli interessi nazionali dell’Italia.

Richiamo l’attenzione sul fatto che nelle argomentazioni degli “interventisti democratici” e atlantici ricorre ancor oggi lo strano tema del carattere “asiatico” della Russia, evocando l’antica, infame ma efficace, narrazione anticomunista della Chiesa di papa Pacelli (ricordate? i cosacchi che avrebbero abbeverato i loro cavalli alle fontane di piazza S. Pietro). Una compagnia, quella di papa Pacelli, certamente imbarazzante che sarebbe respinta con sdegno dai nostri “interventisti democratici” laici e liberali. E tuttavia il rifiuto di ogni idea di pluricentrismo politico-culturale dell’umanità associata, l’ossessivo eurocentrismo (oggi, se si può dire così: “NATO-centrismo”) dominatore e “bianco”, l’assolutizzazione dei “valori dell’Occidente” assunti senz’altro come superiori, anzi unici ed esclusivi da imporre ad ogni costo, fanno di questa ideologia di guerra “democratica” il pendant simmetrico dell'”eurasiatismo” reazionario di Dugin (e dell’estrema destra cattolica di monsignor Viganò) che abbiamo poc’anzi considerato. Le somiglianze fra queste posizioni opposte sono fin troppo evidenti: esse hanno in comune la convinzione che le diversità del mondo, invece di costituire una meravigliosa ricchezza da gestire nella fratellanza e nella pace, rappresentino invece una jattura intollerabile, da risolvere con la guerra. Fuori del proprio campo, fuori dell’Occidente per i nostri interventisti liberal, esiste solo assoluto disvalore e barbarie “asiatica”, così che la guerra, anzi la guerra giusta, diventa, come fu il colonialismo, un ennesimo “fardello dell’uomo bianco”.

Ha scritto Primo Levi:

“A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager.”[34]

Come si spiega questo fatto, che potrebbe sorprendere in chi si proclama, e per certi aspetti effettivamente è, erede dell’Illuminismo, degli immortali principi di Liberté, Égalité, Fraternité?

Forse ci può aiutare a capire il mistero dell'”interventismo democratico” il vecchio Marx, cioè l’uso di categorie di classe: esistono le classi ed esiste la lotta di classe. La borghesia è in guerra, si sente in guerra, e vi partecipa convintamente. La borghesia, la classe che, legata al capitalismo, ha dominato per due secoli e domina ancora il mondo, avverte oggi la sua crisi irreversibile, e – come tutte le classi al tramonto – pensa di dover giocare la carta estrema, quella della guerra (deriva da qui, sia detto en passant, la terribile pericolosità della situazione storica attuale). Direi che non è un caso se in Francia, la nazione borghese per eccellenza, la guerra sembri trovare il massimo dei consensi, che coinvolge anche settori della sinistra di opposizione e perfino della Sinistra Europea. Per non dire dei Verdi che in tutta Europa (a cominciare dalla Germania) sono schierati entusiasticamente per la guerra, sospendendo per un attimo la loro raffinata sensibilità ecologica quando si tratta delle spaventose devastazioni ambientali comportate dalla guerra. Per costoro le devastazioni, le mine, le bombe, comprese quelle “a grappolo” e quelle all’uranio impoverito, rappresentano un inquinamento buono: ne vale la pena.

Il fatto è che questa è la guerra della borghesia, e più precisamente la guerra dell’Occidente, l’Occidente capitalistico, liberista e “bianco”, che combatte la propria lotta finale stretto in obbedienza attorno alla sua guida armata statunitense.

E quando si è in guerra non si scherza più, il resto non conta, a cominciare dalla democrazia, dai sacri dettami della Costituzione (l’art.11: “L’Italia ripudia la guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali…”) e dalla libertà di stampa. Tutto ciò è soppresso senz’altro dalle prevalenti necessità della conformazione.

Il mondo è una volta di più diviso in due, non solo dai livelli di reddito ma anche dall’esposizione alla menzogna: fra l’homo sapiens e l’homo credulus. Solo il primo, in quanto padrone del logos (del pensiero-parola) è veramente uomo. Il secondo è lo schiavo, ribadendo la terribile e duratura antropologia aristotelica. Potenzialmente, ed auspicabilmente, schiavo (e comunque fin d’ora non-uomo) è il nemico, lo straniero, più in generale l’altro. Naturalmente è della massima importanza la tendenziale identificazione fra i concetti di altro-straniero-nemico-schiavo-non uomo.

La menzogna fonda in tal modo una radicale distinzione antropologica fra il veramente-uomo, padrone della parola, che può esercitare la menzogna e il non-veramente-uomo (l’altro-straniero-nemico-schiavo-non uomo) che deve subirla. “Non servatur fides infidelibus”[35]. Tale distinzione è proposta come insuperabile, e anzi “di natura”: non per caso i fascismi sono tutti anche razzisti.

Forse capiamo solo ora perché secondo Alexandre Koyré la menzogna è la vera essenza del nazismo, e la presenza fra noi e in tutta Europa di ideologie nazional-socialiste e ora assai meno sorprendente di quanto fosse prima delle guerre.

Per questo, se la prima vittima della guerra è la verità, la seconda è certamente la democrazia.

5. Quale è la cosa che occorre nascondere ad ogni costo?

La forza (o se, si preferisce: la violenza) della censura e di tale narrazione di guerra è proporzionale all’importanza della cosa che si deve nascondere. Quanto più una menzogna è grande, tanto più essa deve essere gridata forte. Ma che cosa deve essere occultato e mascherato, nascosto?

La cosa che si deve occultare ad ogni costo è la guerra atomica, cioè la fine della presenza degli uomini e delle donne sulla terra, né più né meno.

A me sembra che il problema oggi non è più se la guerra atomica sia probabile o solo possibile; il problema oggi è se la guerra atomica sia, oppure no, evitabile, e molti dati testimoniano purtroppo per l’ipotesi peggiore.

Esiste in questa guerra un fatto decisivo da cui deve partire ogni ragionamento: il carattere atomico dei due contendenti. (che sono, con ogni evidenza la Russia e la NATO, a cui l’Ucraina fornisce solo corpi da fare ammazzare e un presidente-attore da mandare in televisione). Questo fatto cambia davvero tutto perché si coniuga con la logica della escalation che caratterizza da sempre ogni guerra.

Nelle guerre pre-atomiche (chiamiamole così) la logica di escalation, insita nella guerra (in ogni guerra), portava ad innalzare sempre più il livello dello scontro fino a che una delle parti era, e si dichiarava, sconfitta. Ora questo non è più possibile, per nessuno, né per la Russia né per gli USA-NATO e per la loro carne da macello ucraina.

Che significa questo? Significa che se una delle due parti è sconfitta a un livello A (diciamo: il corpo a corpo o i carri armati), poi passa a un livello di guerra B (diciamo i missili a corta gittata o i bombardamenti), se risulta sconfitta a questo livello B passa necessariamente a un livello ulteriore C (diciamo i missili a lunga gittata o gli aerei e i droni che colpiscano la Russia o l’Europa), e così via. Ma alla fine, se una delle due parti risultasse sconfitta al livello più alto (e peggiore) della guerra convenzionale, ecco allora che essa passerebbe necessariamente al livello ulteriore e ultimo, quello dell’atomica, di cui non caso si parla apertamente senza che essa sia più un tabù. Le atomiche cosiddette “tattiche”, sono rivendicate anche da Zelensky nel suo programma (“Riacquisizione di armamenti nucleari tattici”, si legge in quel programma, che ha al primo punto “Adesione alla NATO“). Ma la parola “tattiche” riferita alle atomiche è un miserabile eufemismo che serve, ancora una volta, a occultare la terribile verità della cosa, dato che tali atomiche comunque hanno una potenza dieci volte superiore a quella di Hiroshima. D’altra parte sia Zelensky, sia il capo della NATO Stoltenberg (che conta ben di più), e perfino – per quel che conta – Mario Draghi, hanno garantito che lo scopo irrinunciabile della guerra, l’unico che potrebbe porvi fine, è la sconfitta della Russia, fino alla “liberazione” della Crimea, una regione da sempre russa che sembra aver votato con oltre il 90% per la riunificazione con la Russia.

Come si può non vedere questa logica ferrea e inevitabile, insita nella guerra e l’esito, altrettanto inevitabile, dell’escalation in atto? Si può davvero immaginare Putin che dice “Beh, ho perso; adesso magari mi uccido” o “Muoio di cancro” (o altre similari balle che i nostri organi di conformazione non hanno mancato di diffondere, come sempre in coro), oppure si può davvero immaginare Sleep-Joe Biden che ammette di aver fatto un massacro inutile, rinunciando al dominio USA sul mondo intero a cui esplicitamente aspira (come il recente vertice NATO ha dimostrato)? Nessuna di queste due cose può accadere.

Spiega bene il meccanismo il ferreo e micidiale dell’escalation il colonnello americano Macgregor, dopo aver illustrato l’impossibilità per gli Stati Uniti e la NATO di vincere una guerra convenzionale:

“Per questo motivo, persone come me e altri temono che, se dovessimo entrare in un confronto che non possiamo vincere allora ripiegheremmo sul deterrente nucleare: un’arma atomica tattica. L’uso di qualsiasi arma nucleare farà partire l’escalation molto rapidamente, perché i tuoi avversari penseranno che se non useranno le loro armi nucleari le perderanno (…)”[36]

E allora se la guerra continua la catastrofe atomica non è solo possibile ma è altamente probabile, anzi purtroppo è l’unico esito razionalmente prevedibile.

6. Le vere radici della menzogna: la guerra atomica già c’è ma non può essere pensata

Perché mai l’umanità associata non si solleva subito, unita e allarmata, contro la situazione in cui i sopravvissuti invidierebbero i morti, per impedire questa prospettiva catastrofica che si avvicina ogni giorno di più? Anders ci ha spiegato (da maestro della pace e da profeta) la nostra difficoltà a pensare la guerra atomica: la sproporzione che oggi si verifica non è più fra ciò che pensiamo e ciò che facciamo o sappiamo fare (era lo spazio delle utopie) ma, al contrario, la sproporzione è fra ciò che facciamo o abbiamo fatto e ciò che riusciamo a pensare.

Proprio parlando dell’Ucraina e della distruzione integrale degli ebrei ucraini, Vasilij Grossman ha spiegato come sappiamo commuoverci o indignarci per l’uccisione di un uomo, e forse ancora di più per l’uccisione di dieci persone, e potremmo anche essere mossi a lottare contro questi crimini; ma l’uccisione di 100.000 o di un milione di persone (bambini, donne e vecchi compresi) non ci turba più di tanto, in fondo ci lascia indifferenti, perché non riusciamo a immaginarcela. Meno che mai ci turba, perché non riusciamo a immaginarcela, la distruzione di tutti/e. Non siamo in grado di immaginare la distruzione totale dell’umanità, che pure siamo in grado di compiere nei fatti e che anzi stiamo compiendo già in questo momento.

È un difetto di immaginazione che perderà l’umanità.

Distruzione totale significa infatti non solo uccidere tutti gli uomini e le donne presenti sulla faccia del globo (il presente) ma anche tutti quelli che sarebbero potuti venire (il futuro) e ancora tutti quelli che ci sono stati (il passato). Come Benjamin ci ricordava:

“neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se questo vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.”[37]

Con la distruzione atomica anche i morti, coloro che sono stati, saranno cancellati come tutto assieme alle loro opere dalla storia e dal ricordo, e diventeranno così coloro che non sono mai esistiti.

D’altra parte, la garanzia del rifiuto della guerra atomica non può venire dai responsabili politici e militari, da chi tiene il bottone apocalittico a disposizione del suo dito. E questo per molti motivi (l’ignoranza, l’idiozia, l’odio nazionalista e razzista, il sempre possibile errore umano, il sempre possibile impazzimento di un dottor Stranamore, etc.), ma fra questi motivi ne spiccano due.

Primo motivo. Vige nel capitalismo reale una regola irrefragabile: poiché la merci dominano il mondo, una merce prodotta deve essere consumata, cioè utilizzata, affinché la divinità produzione/consumo possa proseguire la sua vita, l’unica vita che conti veramente. Questa regola, l’abbiamo visto, vale anche per le armi talmente criminali da essere dichiarate illegali (come le “bombe a grappolo”, fatte per sterminare civili innocenti e pronte a esplodere per decenni, proibite dalla Convenzione ONU di Dublino del 2008): poiché sono state prodotte, allora esse debbono essere consumate, cioè utilizzate, affinché i produttori di armi possano liberare i loro magazzini e trarre profitto da merci altrimenti, imperdonabilmente, invendute.

Secondo motivo. Siamo tutti nipotini di Eichmann che rivendicava la sua irresponsabilità. Nel sistema di produzione capitalistico, il lavoratore non può e non deve controllare ciò che produce, non lo decide a monte e ignora, a valle, quale uso possa essere fatto del prodotto del suo lavoro, che peraltro è solo un segmento di un insieme che sfugge del tutto a chi lavora. Ancora più radicale è tale esproprio del controllo quando il lavoro umano si riduce al semplice gesto di azionare un dispositivo. Dunque giudicare il carattere morale, o immorale, dei diversi segmenti in cui è frammentato il lavoro, non appartiene in alcun modo a chi tali lavori esegue, non lo riguarda. Delle conseguenze del nostro lavoro ridotto a capitale siamo totalmente irresponsabili. E tutto ciò è mille volte più vero se si tratta di lavori legati alla guerra, in cui vengono chiamati in causa il patriottismo, la disciplina, il segreto.

Chi ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima o su Nagasaki poteva non avvertirne la responsabilità morale, come tanti partecipanti al genocidio che hanno proclamato la propria irresponsabilità (si noti: non la propria innocenza) rivendicando il loro non sapere/non potere.

Naturalmente le cose dal punto di vista etico non stanno affatto così: anche un granello di sabbia può danneggiare e fermare la macchina della morte, e anche un “No, io non ci sto!” può servire a metterle in crisi: la Resistenza è stato l’insieme di questi tanti, piccoli, eroici “No!”. Tuttavia Robert Oppenheimer rappresenta un’eccezione, e non si deve dimenticare che per la sua latente obiezione morale alla guerra (in realtà solo alla produzione della bomba H, mille volte più potente della bomba A di Hiroshima) egli, nonostante la sua grandezza scientifica e la sua fama, fu accanitamente perseguitato in vita dalle autorità statunitensi (in prima fila J. Edgar Hoover, direttore dell’FBI e il senatore repubblicano Joseph McCarthy, il promotore della “caccia alle streghe” anticomunista). Ricordo che centocinquantacinque scienziati atomici del “progetto Manhattan”, guidati da Leò Szilàrd, avevano perfino proposto di limitarsi a una dimostrazione ai giapponesi della immensa potenza della bomba, senza fare vittime. Non sappiamo quali prezzi abbiano pagato tanti oppositori della guerra atomica meno grandi e meno famosi di Oppenheimer, e neppure sappiamo i loro nomi. Sappiamo però che non fu affatto un “nipotino di Eichmann” Claude Eatherly, il pilota americano che sganciò la bomba su Hiroshima, il quale visse il resto della sua vita sconvolto dal senso di colpa e dal pentimento, fra manicomio e carcere, tentando due volte il suicidio.

Per restare la nostro tema della informazione/conformazione di guerra, dobbiamo ricordare che fa parte integrante del crimine di Hiroshima la narrazione che su di essa è stata impiantata e diffusa, durando praticamente incontrastata fino ai nostri giorni. Non solo il numero dei morti di Hiroshima di cui si parla di solito (da 100.000 a 200.000) è meno della metà di quello effettivo, da raddoppiare ulteriormente con i morti di Nagasaki, ma soprattutto è falso che l’atomica abbia risparmiato vite umane (sic!) perché fu ciò che abbreviò la guerra e costrinse alla resa il Giappone. La resa del Giappone era già scontata, dopo la resa della Germania, la distruzione completa della flotta giapponese, la mancanza totale di carburanti e materiali per la guerra e l’invasione sovietica della Manciuria. E comunque dopo Hiroshima non si giustifica in alcun modo la seconda bomba su Nagasaki.

A conferma del fatto che non c’è un nesso diretto fra lo sganciamento delle atomiche e la resa del Giappone, c’è il fatto che anche dopo la seconda bomba su Nagasaki (9 agosto ’45) gli americani effettuarono ancora i più estesi e devastanti bombardamenti sul Giappone di tutta la guerra: più di 400 B-29 attaccarono il Giappone durante la giornata del 14 agosto e più di 300 nella notte seguente. In totale 1.014 velivoli furono impiegati in quei bombardamenti ben cinque giorni dopo la bomba su Nagasaki. Comunque fu solo dopo questi bombardamenti, il 15 agosto, che Hiro Hito pronunciò il suo discorso che apriva alla resa; l’uso dell’atomica dunque non fu risolutivo per la resa giapponese, che fu firmata solo il 2 settembre, quasi un mese dopo il 6 agosto 1945, il giorno di Hiroshima.

Gli storici che hanno potuto esaminare i documenti desecretati affermano altresì che il governo giapponese era pronto ad arrendersi circa un mese prima che fosse sganciata la bomba su Hiroshima e Nagasaki[38], e che il vero destinatario politico dell’impiego delle due bombe fosse l’Unione Sovietica, il nuovo nemico del dopoguerra, a cui Truman voleva dimostrare subito la schiacciante superiorità militare americana. Credo inoltre che avesse ragione il Segretario Generale dell’ONU U Thant nel dire che la bomba non sarebbe mai stata utilizzata se si fosse trattato di uccidere in massa dei bianchi e non degli asiatici.

Ancora a proposito di narrazione degli orrori, va ricordato che analogo trattamento di occultamento fu riservato ad Auschwitz, l’altro (assieme a Hiroshima) crimine fondativo dell’Occidente (post-)contemporaneo: anche i nazisti dedicarono particolare cura prima a nascondere, anche costruendo false narrazioni e falsi filmati, l’esistenza dei campi di sterminio, e poi a cancellarne le prove. “Se anche qualcuno di voi sopravvivesse – dicevano gli aguzzini, come testimonia Primo Levi –, tanto nessuno vi crederebbe”.

Questi silenzi, anzi questi occultamenti menzogneri, mirano a far trionfare quello che Asor Rosa definisce “il principio di indifferenza”, che coincide “con la massima realizzazione possibile del consenso”[39]:

“(…) Hiroshima aspetta ancora il suo giudizio; vale la pena di ricordare che una delle colpe più gravi dell’Occidente e delle sue macchie più nere è di aver iscritto tanto a lungo Auschwitz nell’elenco dei crimini più terribili mai commessi dall’umanità, come ovviamente era giusto, e Hiroshima nell’elenco delle manifestazioni più significative di una democrazia progressista, un tipico prodotto delle ‘magnifiche sorti e progressive’, ma anche ne possiamo ricavare l’indicazione che il male principale dell’Occidente è l’essersi ‘mangiato’ totalmente il proprio principio di contraddizione (…). Così facendo, si è chiuso in una tomba da sé. Infatti, il massimo di applicazione possibile del principio d’indifferenza, se da una parte coincide con il massimo di realizzazione possibile del consenso, dall’altra coincide con uno ‘stato di morte’. Ciò, del resto, è anche logico. Il massimo d’indifferenza possibile, infatti, è l’esser morti. Il massimo di consenso, – ossia la coincidenza ultimativa del con-senso con il ‘senso comune’, – è la fine di ogni vita, una palude uniforme e coatta: la ‘fine della democrazia’, se vogliamo usare un’espressione un po’ enfatica, oppure, se si guarda alla cosa da un altro punto di vista, la sua ‘espressione’ più conseguente.”[40]

7. Il capitalismo semiotico e la pubblicità

Si determina così una contraddizione drammatica di cui non si vede soluzione possibile: proprio nel momento in cui le sarebbe necessario sapere per sopravvivere, l’umanità viene tenuta all’oscuro dell’essenziale, cioè non sa niente, totalmente immersa nell’epoca che Ramonet chiama della “post-verità”.

Tutto ciò sembrerebbe contraddire il fatto che la nostra società si presenta invece come la “società della conoscenza”, in cui le informazioni (ma ormai lo sappiamo: si tratta spesso di conformazioni) ci circondano e ci pervadono in quantità inaudita e anzi totalitaria (il “totalitarismo morbido”). Al contrario: la situazione di generalizzato non sapere/non potere delle masse che stiamo cercando di descrivere è il portato diretto e inevitabile del capitalismo contemporaneo, che si può definire capitalismo semiotico. Questo capitalismo ha al suo centro la comunicazione, non la conoscenza.

Si intende qui “comunicazione” nel senso filosofico forte che ha dato alla parola Mario Perniola:

“La comunicazione è l’opposto della conoscenza. È nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti. (…) La comunicazione si sottrae a ogni determinazione come fosse la peste. Aspira a essere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e tutto ciò che sta in mezzo tra i due opposti. È quindi totalitaria in una misura molto maggiore del totalitarismo politico tradizionale (…) lo scopo della comunicazione è favorire l’annullamento di ogni certezza e prendere atto di una trasformazione antropologica che ha mutato il pubblico in una specie di tabula rasa estremamente sensibile e ricettiva ma incapace di trattenere ciò che è scritto su di essa oltre il momento della ricezione e della trasmissione. Paradossalmente il pubblico della comunicazione è tutto coscienza che trasmette e riceve qui e ora, ma senza memoria e senza inconscio. Ciò consente ai potenti di poter fare e disfare secondo il tornaconto momentaneo senza essere legati ad alcunché.”[41]

La comunicazione, e più precisamente quella sua modalità particolarmente aggressiva che è la pubblicità, rappresenta effettivamente il pilastro indispensabile (anche se a mio avviso argilloso: ma di questo converrà ragionare altrove) del capitalismo semiotico della nostra epoca, il capitalismo globale e finanziario (vitalmente intrecciato alla criminalità) che residua dopo i processi di de-industrializzazione e la rottura di ogni patto socialdemocratico fra capitale e lavoro.

Il trionfante capitalismo contemporaneo non può più espandersi organicamente nell’allargamento della base produttiva e, meno che mai, nell’aumento del monte-salari (giacché esso vive di salari decrescenti e forza-lavoro numericamente sempre più ridotta), allora per evitare (o rimandare) la crisi di sovra-produzione o sottoconsumo che lo porterà alla tomba è assolutamente costretto ad affidarsi al sovra-consumo coatto indotto dalla pubblicità. In altre parole: è solo l’ossessivo sovra-consumo improduttivo di massa a cui la pubblicità ci costringe ciò che continuamente rinvia la crisi catastrofica del capitalismo.

Dunque nulla di aristocratico o di vetero-umanistico nella nostra critica alla pubblicità: al contrario essa è mossa dalla constatazione che c’è la durezza assolutamente ‘strutturale’ di questo capitalismo dietro l’apparente Helzapoppin’ dell’immaginario pubblicitario (ed è per questo che non ci si libererà della pubblicità se non liberandosi del capitalismo).

La pubblicità nuova Dea

La pubblicità è dunque la nuova Dea: essa funziona, tramite le quantificazioni dell’auditel, da criterio di valore (peraltro l’unico valore ormai vigente) dei prodotti ininterrottamente proposti dai media, realizzando un meccanismo di rovesciamento che sembra realizzare pienamente il vaticinio del primo libro del Capitale a proposito del feticismo delle merci: un giornale o un programma radio-televisivo non viene affatto prodotto per essere venduto al pubblico bensì è prodotto per vendere alle aziende pubblicitarie inserzioniste il pubblico stesso, cioè tutti noi. Il pubblico, da soggetto (per quanto passivo) del meccanismo di compra-vendita, diviene in tal modo definitivamente il suo oggetto, chi-compra (o meglio: chi-deve-comprare) diviene così ciò-che-si-compra, e che viene in effetti venduto alle imprese dagli inserzionisti pubblicitari. Infatti è appunto la vendita di una tale specialissima merce, il pubblico, che determina il valore degli spazi pubblicitari i quali finanziano i mass media apparentemente gratuiti e consentono i profitti dei loro possessori.

Le conseguenze di questo rovesciamento (che sembra restare, incredibilmente, inavvertito dalla politica) sono politicamente decisive:

“Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alla manipolazione di coloro che cercano di trarne profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.”[42]

Da notare che i due esempi che Mc Luhan citava a suo tempo (all’inizio degli anni Sessanta) come esiti del tutto paradossali e quasi assurdi (fare profitti col linguaggio e privatizzare l’atmosfera) appartengono invece, come è noto, al dibattito economico-politico contemporaneo e sono oggi di strettissima attualità.

Se avessimo ancora bisogno di una conferma del carattere centrale della Dea pubblicità basterebbe riflettere che in occasione dell’agonia, della morte e del funerale di papa Wojtyla, furono soppressi i programmi televisivi di varietà, poi addirittura fu interrotta la campagna elettorale per le elezioni regionali (e proprio nell’ultimo giorno prima del voto, quello decisivo e dedicato ai comizi ‘di chiusura’), infine furono sospese tutte le attività sportive e perfino del campionato di calcio (naturalmente la serie programmi di varietà-democrazia-campionato di calcio configura un crescendo di importanza). Ebbene, a nessuno è venuto in mente di sospendere, o interrompere, anche la pubblicità dai nostri teleschermi, e anche le più commosse telecronache da piazza S. Pietro sulla vita e la figura del papa morente sono stati interrotte dagli spot pubblicitari per indurre all’acquisto delle merendine e dei deodoranti.

Insisto sul fatto: non si tratta solo di non aver sospeso la pubblicità, si tratta soprattutto di aver considerato del tutto normale ed ovvio che tale sospensione non ci fosse e non ci potesse essere, e che nessuno l’abbia né pensata né proposta. E ancora più significativo il fatto che a nessuno sia parsa cosa strana o criticabile una tale eccezione. Dove lo sport e perfino l’esercizio della democrazia sono stati considerati passibili di sospensione o soppressione, solo il flusso comunicativo della pubblicità veniva considerato per sua natura assolutamente inarrestabile e indiscutibile.

La Dea pubblicità è ovunque e sempre, come recita l’art.7 del Catechismo di Pio X “Dio é in cielo, in terra e in ogni luogo”, la Dea Pubblicità ci accompagna nelle nostre vite e le pervade, riempie le nostre case e le nostre città, dai manifesti alle stesse facciate dei palazzi, dagli autobus alle magliette dei calciatori e delle nazionali, occupa ormai anche i margini dei teleschermi durante le partite di calcio e ne riempie tutti gli attimi di sospensione del gioco, fa parte degli ossessivi “digiti 1, digiti 2…” che allietano i nostri sforzi di entrare in contatto con i fornitori, viene stampata (a nostre spese) sui biglietti elettronici, detta i modi, le forme e i ritmi dell’assordante concerto mediatico.

Un programma-guida e simbolo del nuovo assetto televisivo, l’orripilante Grande Fratello di Mediaset, è per intero pubblicità: sono pubblicità (o come si dice più elegantemente: “sponsorizzati”) tutti gli arredi della “casa”, tutti i prodotti usati al suo interno, dalle patatine ai vini, ai vestiti indossati etc., e sono pubblicità anche le stesse persone di stessi partecipanti i quali firmano un contratto in esclusiva con Mediaset destinato a produrre profitti mediatici in futuro, nei servizi dei giornali gossip, nelle ospitate televisive, nelle fiere paesane[43].

Nella risposta “di sinistra” della Rai, il serial politicamente corretto e pedagogico Un posto al sole, poiché lo sponsor è una marca di caffè i personaggi interrompono di continuo la vicenda per dedicarsi – più volte in ogni puntata – a bersi un buon caffè.

La pubblicità è dentro, e non solo intorno, la stessa produzione culturale contemporanea, rappresentandone al tempo stesso il contesto sociale di fruizione e il principio costruttivo, cioè l’anima (o almeno lo scheletro, se essa, come pare, non possiede anima alcuna).

8. La fine, e la proibizione, della critica nel dominio della nuova Dea

Ora, la pubblicità è l’esatto contrario della critica e, ancora più precisamente, rappresenta una modalità di discorso che non tollera, né può tollerare, alcuna critica.

Il celebre schema di Jakobson (cfr. Tavola 1) riassume gli elementi presenti sempre in ogni comunicazione linguistica (un Messaggio, che si comunica da un Mittente a un Destinatario, presupponendo un Contatto, un Contesto della comunicazione e, infine, un Codice tendenzialmente condiviso che organizza il Messaggio stesso).

A questi elementi corrispondono altrettante ‘funzioni’, le quali dominano e segnano diverse tipologie discorsive. Ebbene, possiamo notare che le due funzioni ‘conativa’ (quella che si concentra sul Destinatario) e ‘metalinguistica’ (quella che riguarda il Codice) possono essere fatte corrispondere rispettivamente alla pubblicità e alla critica. La prima (la funzione conativa) appartiene infatti alla pubblicità come ad ogni comunicazione pragmaticamente orientata alla persuasione del Destinatario, la seconda (la funzione metalinguistica) è caratteristica invece dell’attività che riflette sul Codice stesso, su come il Messaggio è organizzato e funziona, e dunque è alla base della riflessione critica e di ogni critica.

TAVOLA 1 :

I fattori della comunicazione linguistica, le funzioni del linguaggio di Jakobson, e le corrispondenti tipologie discorsive:

Legenda: In tondo i fattori della comunicazione; in neretto le corrispondenti funzioni del linguaggio; in corsivo (fra parentesi) una esemplificazione possibile delle tipologie discorsive dominate da ciascuna funzione.

Come si può constatare, queste due funzioni (quella conativa e quella metalinguistica) sono non solo opposte ma (ciò che più conta) si trovano logicamente ed operativamente in un rapporto di reciproca esclusione. Dove c’è l’una (la persuasione pubblicitaria) non c’è e non può esserci l’altra (la critica), e viceversa. D’altronde se fosse attivata la funzione critica chi potrebbe mai credere che il Mulino Bianco sia sinonimo di natura, o che delle creme possano far ringiovanire o dei profumi sedurre?

La fine della critica e del circuito del libro

Neanche a dirlo questo nuovo assetto sconvolge completamente il circuito moderno (in particolare otto-novecentesco) di produzione e distribuzione del libro, il quale si fondava sulla catena funzionale casa editrice-recensione-libreria-biblioteca. Era questo un assetto in cui la critica (e, in particolare, la critica letteraria) era implicata come momento cruciale di regolazione e anche di validazione qualitativa, dato che un libro ‘brutto’ era, per ipotesi, respinto a monte dal critico-consulente editoriale (di cui tutte le case editrici degne di questo nome si giovavano), oppure era stroncato a valle dal critico-recensore, magari su una terza pagina (un’istituzione attualmente, non per caso, pressoché scomparsa). Tale circuito è oggi completamente distrutto e anzi reso insensato, sostituito dalla libreria-supermercato in cui si vendono pressoché soltanto i libri-immagine pubblicizzati dai programmi televisivi, i libri assurdamente tratti da film o da programmi televisivi di successo, oppure quelli scritti in prima persona dai discutibili gestori di quegli stessi eventi mediatici (absit iniuria…: dai brunivespa), con un terribile effetto-specchio moltiplicatore, che essi chiamano ‘sinergia’: si legge (o meglio: si compra) solo il libro che si è visto in televisione, e si mostra in televisione solo il libro che si deve far comprare. Così oggi le librerie (un altro snodo decisivo del vecchio assetto in via di estinzione) non vendono tanto i libri quanto gli spazi espositivi e si può ottenere, pagando, che il proprio libro sia esposto in vetrina.

Lo stesso vale per la produzione artistica contemporanea, dove la valutazione del critico e dell’esperto è stata del tutto soppiantata dalle interessate esternazioni di personaggi-star legati ai media (e ai mercanti).

D’altra parte, come è noto, non si va in televisione perché si è importanti o famosi uomini di cultura, ma si è importanti e famosi uomini di cultura perché si va in televisione.

Una nuova antropologia: gli “scenari facilitanti” accomunano pubblicità e droga

Tutto ciò è certo fondamentale, ma il punto davvero decisivo è che la Dea determina una nuova sensibilità di massa, un nuovo approccio del pubblico, una diversa fruizione dei prodotti culturali, nuove modalità percettive e perfino una nuova antropologia.

La Dea ha inoltre risvolti cruciali nella psicologia di massa: la pubblicità si alimenta infatti dallo spaccio di ciò che gli psicologi chiamano ‘scenari facilitanti’, e questa circostanza decisiva accomuna la pubblicità alla droga o all’alcool, e gli oggetti della pubblicità (i consumatori addetti al consumo coattivo di massa) agli assuntori di droghe o agli alcoolisti. A entrambi (sia agli addetti al consumo coattivo di massa che agli alcoolisti o agli assuntori di droghe) è necessaria una dose almeno quotidiana, a entrambi servono dosi sempre crescenti, entrambi sono disposti a sacrificare per questo la loro intelligenza, per entrambi è pressoché impossibile liberarsi della dipendenza.

Di queste nuove modalità di percezione, ma dunque anche di pensiero, lo zapping televisivo rappresenta il simbolo e il cuore, ed esso va inteso (esattamente come i video-giochi dei nostri ragazzi) anche e soprattutto in quanto potentissimo meccanismo autoaddestrativo delle menti e dei corpi. Lo zapping costituisce, in apparenza, un cambiamento assolutamente potente (perché istantaneo, immotivato, illimitato, gratuito) ma al tempo stesso si tratta di un cambiamento assolutamente inutile; la sua stessa reiterazione continua è, a ben vedere, segno della sua effettiva impotenza. Ne descrive l’ossessività Italo Calvino in un suo breve illuminante racconto in cui il personaggio protagonista cambia continuamente canale, sempre angosciato dall’idea che su un altro canale possa svolgersi proprio in quel momento, a sua insaputa, la trasmissione di un messaggio fondamentale che egli rischia di perdere per sempre; ma ogni volta, su qualsiasi canale egli si sintonizzi, trova le medesime insensatezze. Lo zapping è infatti in realtà una libera scelta fra l’ identico (un tipo di scelta che presenta un’impressionante somiglianza con il voto nei sistemi elettorali maggioritari uninominali: scegliere liberamente fra due cose identiche).

Non si può trascurare il fatto che molti registi di qualità (da Fellini a Woody Allen) e molti grandi scrittori hanno partecipato e partecipano in prima persona alla produzione di testi pubblicitari (stranamente mi sembra che questo non sia oggetto di riflessione: una rimozione autentica). Né si tratta di richiamare l’attenzione su fenomeni-limite, significativi ma ancora marginali, come gli inserti pubblicitari all’interno dei libri o le interruzioni pubblicitarie inserite all’interno delle stesse telefonate private. E nemmeno si tratta solo di notare che già oggi i libri vendutissimi delle serie ‘rosa’[44] non ignorano nella loro stessa composizione scritturale le modalità caratteristiche della produzione di serie (la catena di montaggio), così come i seguitissimi serials televisivi (il genere-principe della nuova narrativa, quello specificamente televisivo, cioè non più debitore del cinema) sono scritti prevedendo già nella sceneggiatura la loro interruzione pubblicitaria, ciò che determina la loro peculiare struttura narrativa, fatta di interruzioni e di riprese, di lentissimo avanzare della vicenda e di reiterati riassunti intradiegetici affidati ai personaggi stessi. Non per caso sono stati gli sceneggiatori hollywoodiani di serials a protestare per primi per l’invasione dell’Intelligenza Artificiale nel campo della scrittura dei testi, giacché in quella struttura produttiva già segnata dalla meccanicità della catena di montaggio la loro intelligenza ancora umana rischia di poter essere presto sostituita.

Il primato della pubblicità e la politica: il berlusconismo

Per non dire dell’influenza devastante che il primato della pubblicità ha avuto ed ha per la nostra politica e per la democrazia. Noi italiani dovremmo saperne qualcosa. Uno studioso autorevolissimo, George Steiner, non certo sospettabile di essere comunista, ha scritto:

“(…) in Europa è in trionfale ascesa un fascismo del denaro, del filisteismo e dei media. Per tutto questo in Italia c’è un’espressione: il berlusconismo.”

Così, per la seconda volta in meno di un secolo, dalla periferica Italia proverrebbe all’Europa e al mondo intero una categoria politico-culturale di portata e significato universali: dagli anni Venti del Novecento il fascismo, dai nostri anni il ‘berlusconismo’ che si è esteso ben al di là dei confini nazionali (si pensi a Bolsonaro, a Trump, etc.). Naturalmente è da sottolineare, con tristezza per un italiano, che l’Italia ha fornito al mondo non solo la leggerezza della parola nuova, ma anche la pesantezza della cosa. Sarebbe il più ingenuo degli errori ridurre il berlusconismo alla persona di Silvio Berlusconi e alla sua vicenda politica; come accade per ogni seria malattia, anche il berlusconismo precedeva chi gli ha dato il nome e gli sopravviverà, avendo determinato una vera e propria corruzione antropologica del nostro Paese, che va bel al di là dei confini della destra e coinvolge pressoché integralmente anche la “sinistra”.

Si è realizzata sotto i nostri occhi la profezia di Mc Luhan: “La politica sarà rimpiazzata dall’immaginario. Il politico sarà felice di abdicare in favore della sua immagine, perché l’immagine sarà molto più potente di quanto egli potrebbe mai essere.” Come è stato detto, nella politica contemporanea le banche decidono, le burocrazie (per noi quelle di Bruxelles) governano, e i politici vanno in televisione.

Nella politica ridotta al dominio del mass media e dell’immagine ci si deve allora domandare che fine faccia la democrazia e anzi se si possa ancora parlare di democrazia. Facciamo l’ipotesi (per carità: solo l’ipotesi) che una forza politica sgradita sia interamente esclusa dai mass media e che qualsiasi iniziativa tale forza politica intraprenda (manifestazioni, feste partecipatissime, proposte di referendum con decine di migliaia di firme, scioperi, flash mob, comizi, etc.) i mass media non ne diano alcun conto facendo calare su tutto ciò una compatta cortina di silenzio. Ebbene, una tale situazione non somiglia assai da vicino a essere messi fuorilegge? Non è forse questa la forma contemporanea della messa fuorilegge dei partiti di opposizione praticata dai regimi fascisti, che era certamente un orrore, ma che almeno presentava il pregio della evidenza e della sincerità? E facciamo il caso contrario (anch’esso, per carità, del tutto immaginario), cioè di una forza politica gradita o graditissima al potere, che sia – per ipotesi – del tutto inesistente nel Paese o quasi, ma che possa godere di un’attenzione costante dei media, con i suoi esponenti quotidianamente intervistati, presenti in tutti i TG e in tutti i talk show (e naturalmente abbondantemente finanziati). Ebbene: il consenso che una tale forza politica (spesso si tratta di singole persone) possa ottenere alle elezioni sarebbe un frutto della democrazia (del “potere del popolo”) oppure il risultato di qualche altra cosa che con la democrazia c’entra ben poco?

Forse occorre modificare l’antica frase del presidente Mao Zedong “Un popolo che non ha un proprio esercito non ha nulla”, e dire “Un popolo che non ha un proprio sistema mediatico non ha nulla”. È questa – come è noto – la posizione a cui è pervenuto Pablo Iglesias di “Podemos”, che per dedicarsi interamente a un tale compito ha lasciato la politique politicienne delle istituzioni. Tuttavia non si può non domandarsi se lo sforzo di contrastare coi volantini, i megafonaggi, o anche i blog, gli SMS o i post nei social il poderoso e univoco sistema mediatico non somigli troppo al tentativo di opporsi ai bazooka armati di un fucile a tappi.

Quanto c’è di “politico” e quanto di “immagine” anche nel successo di esponenti e dirigenti della (ex-)politica del nostro tempo? Ed è superfluo dire che in quanto essenzialmente “immagine” anche questi uomini e queste donne sono esposti alla transitorietà e alla rapida obsolescenza che appartiene al mondo delle immagini (basta riflettere sugli ultimi decenni della politica italiana per constatare la vigenza di questa ferrea regola). E tuttavia non c’è dubbio che in un immaginario confronto televisivo-politico (per un seggio uninominale o magari per una presidenza eletta plebiscitariamente) fra Antonio Gramsci e Maria De Filippi, la seconda vincerebbe a mani basse, contro il primo decisamente non alto, non bello e con un forte accento sardo[45].

Non è questa la sede per discutere sul fatto che l’eroe eponimo del berlusconismo dopo essere “disceso” (come egli stesso amava dire) nel campo della politica, non abbia affatto abbandonato (ma semmai rafforzato ed incrementato) il suo essere proprietario di tre reti televisive (oltre che controllore politico della Rai), della più possente centrale di raccolta e gestione della pubblicità (Publitalia), di una casa di produzione cinematografica e di una catena pressoché monopolistica di sale, di un impero editoriale che annovera quotidiani e settimanali a larga diffusione, oltre a case editrici come la Einaudi e la Mondadori.

Il punto da notare è un altro, e cioè che la cultura è effettivamente il vero centro dell’assetto di potere di cui parliamo, giacché è cultura, ad ogni effetto, la comunicazione pubblicitaria, di cui il Nostro è stato dominus incontrastato e sulla cui base ha fondato il proprio impero, economico prima e politico poi.

Dunque, per quanto ciò possa apparire strano, o addirittura ripugnante per qualcuno di noi, nell’epoca degli ossimori, berlusconismo e cultura vanno declinati insieme.

Così Horkheimer e Adorno descrivevano i nuovi prodotti artistici dell’industria culturale:

“sono fatti in modo che la loro apprensione adeguata esige bensì prontezza d’intuito, doti di osservazione, competenza specifica, ma anche da vietare addirittura l’attività mentale dello spettatore, se questi non vuol perdere i fatti che gli passano rapidamente davanti. (…) La violenza della società industriale opera negli uomini una volta per tutte. I prodotti dell’industria culturale possono contare di essere consumati alacremente anche in stato di distrazione. Ma ciascuno di essi è un modello del gigantesco meccanismo economico che tiene tutti sotto pressione fin dall’inizio, nel lavoro e nel riposo che gli assomiglia.[46]

Queste parole, scritte fra il 1944 e il 1947, descrivono con tale precisione la fruizione culturale contemporanea dominata dalla pubblicità da confermare l’affermazione di Benjamin secondo cui a ogni epoca compare (magari nei suoi incubi) l’epoca seguente: “Nel sogno in cui, ad ogni epoca, appare in immagini la seguente…”[47].

La velocità (sempre crescente e tuttavia sempre insufficiente) è l’ambiente naturale del mondo delle immagini, e la riflessione lenta, così intrinseca allo studio e alla contemplazione e così caratteristica della fruizione estetica tradizionale, è dunque ora del tutto soppressa, sostituita da una sorta di riflesso meccanico e simultaneo. In tal modo scompare il chiaro-scuro della complessità e della problematicità, si sopprime ogni distanza e si perseguita, come ridicola, ogni volontà e capacità di distinzione e approfondimento, ogni dubbio.

La diffusione della cosiddetta DAD (“Didattica a distanza”, cioè mediata dalle piattaforme informatiche) non solo rappresenta un’occasione di nuovi profitti e di nuovo potere per GAFAM ma, ben più radicalmente, segna il passaggio della stessa scuola dal campo del rapporto interpersonale docente-allievi e degli allievi fra loro (un rapporto fatto di voce e volti, di corpi e sguardi) al campo della “comunicazione” tramite la macchina informatica, una comunicazione unidirezionale e assai impoverita fra docente e allievi e quasi del tutto esclusa degli allievi fra loro. È forse il colpo di grazia a scuola e università, già mortificate e distrutte dalla costante e criminale riduzione della spesa per l’istruzione e dalla sua subordinazione alle esigenze del mercato.

Non per caso nel nuovo e decisivo campo dei social-media i nostri giovani hanno già abbandonato Facebook (considerato ormai roba da millennials, cioè da vecchi) colpevole di prevedere ancora le parole, e si dedicano a nuovi social che escludono di fatto le parole e consistono solo di immagini. Non è superfluo ricordare che il dominio della Dea pubblicità vive anche in tutti i social e lo fa anzi in una forma più profonda e ingannevole, perché, attraverso la sistematica profilazione consentita dall’informatica, non solo fa dei fruitori i target per pubblicità mirate ad personam ma li trasforma (a loro insaputa) in gratuiti produttori di reddito.

Naturalmente anche la lingua è direttamente investita da questo processo e ne rivela anzi l’autentica natura devastante: la mia generazione è forse l’ultima che usa un tempo, il passato remoto, ormai soppresso (e sostituito con l'”eterno presente”) come, più in generale, è soppressa la stratificazione complessa dei tempi verbali e dunque la consecutio (che è stata tormento dei nostri licei ma vanto della nostra lingua). E si cancellano non solo dai temi scolastici delle nuove generazioni ma (ciò che è più grave) dalle loro menti il congiuntivo e il condizionale (i modi della possibilità, dell’eventualità, ma anche della connessione casuale ipotetica e aperta, del “se…allora…”, del “benché…tuttavia…”)[48]. Vengono così disarticolati irreparabilmente i modi densi del raccontare, e non per caso il sinfonico romanzo (che assieme all’orchestra e alla fabbrica rappresenta la vera gloria della modernità borghese) sembra essere stato condannato a morte per primo da questa temperie culturale e sociale, sostituito soltanto dal raccontare semplicissimo e senza sviluppo, eternamente reiterato ed immobile delle telenovelas.

Prevale, incontrastabile, anche nella fruizione dei fatti culturali un meccanismo rapido di “presentificazione” (Vattimo), una totale e continuamente rinnovata disponibilità a stimoli diversi ed eterogenei, le cui omologie con le nuove forme di lavoro flessibile, telematico (e precario) sono del tutto evidenti.

9. Cosa è verità nel mondo ridotto a immagini?

Siamo di fronte a una contraddizione drammatica di cui non si vede soluzione possibile: proprio nel momento in cui sarebbe necessario sapere per sopravvivere, l’umanità viene tenuta all’oscuro dell’essenziale, cioè non sa niente.

La lumpen-borghesia, la classe che non sa niente

Dopo la liquidazione dei contadini e la distruzione sistematica di ogni identità classista della classe operaia, rappresenta la grande maggioranza delle nostre società una classe-non classe che definirei lumpen-borghesia (straccio-borghesia o sotto-borghesia) in analogia con il concetto marxiano di lumpen-Proletariat (straccio-proletariato o sotto-proletariato).

La lumpen-borghesia di massa non è da confondere con la vecchia piccola-borghesia produttiva degli artigiani, dei commercianti, dei tecnici o degli impiegati; la lumpen-borghesia forse lavora ma non produce, vive ai margini della rendita e vi partecipa, non conosce alcun confine fra le proprie attività e quelle della criminalità diffusa[49] (ciò che non accadeva per la borghesia classica), si identifica con un individualismo esasperato e con un cinismo assoluto che coniuga però con la difesa della famiglia (il “familismo amorale”[50]), odia visceralmente lo Stato ma soprattutto odia il popolo (anche se spesso lo vellica demagogicamente) perché ha il terrore di venirne risucchiata. Per definizione: la lumpen-borghesia di massa non conosce (e non può conoscere) alcuna forma di coscienza di classe.

Credo si possa dire che nessuna classe nella storia ha mai saputo meno dell’attuale lumpen-borghesia di massa. Questa classe/non classe è del tutto esclusa dalla cultura “alta” che fu della borghesia (e che peraltro la lumpen-borghesia disprezza) ma ha anche perduto del tutto lo straordinario complesso dei saperi, parziali ma veri, che provenivano agli operai, ai contadini e alle donne dal loro lavoro e dalle tradizioni vive ad esso legate.

Si potrebbe sostenere che la Dea pubblicità, la quale in quanto Dea è capace di creazione, abbia creato anche la classe perfetta per poter esercitare nel modo migliore il suo dominio, per dirla con le citate parole di Perniola, una “tabula rasa estremamente sensibile” e ricettiva ma del tutto incapace di autonomo giudizio.

La post-verità e la domanda di Pilato

Tuttavia (di nuovo Anders ci insegna) l’impossibilità di sapere/potere a cui l’umanità è condannata ha radici ben più profonde, e allude alla situazione generale delle nostre società dominate dalla tecnica e – come abbiamo visto – in particolare dai mass media, dalla pubblicità e dalle immagini. Non per caso è ora in uso il termine “post-verità” (che sembra risalire al 1992, essendo usato in relazione al nascondimento negli USA dello scandalo Iran-Contras e della guerra del golfo) che indica una situazione in cui la falsità, spacciata dai media per autentica, toccando le emozioni e i pregiudizi, è in grado di influenzare l’opinione pubblica, divenendo un argomento reale, un fatto. La frequenza d’uso della parola post-verità è salita enormemente e l’Oxford English Dictionary decise di eleggere post-verità come “parola dell’anno del 2016″.

Siamo ancora di fronte alla domanda di Ponzio Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18, 38) . É ancora possibile questa domanda nell’era della post-verità?

Nella domanda di Ponzio Pilato la parola “verità”, (aléteia) in greco è senza articolo, e la domanda è tradotta in latino con “Quid est veritas”, ma poi viene tradotta in italiano “Che cos’è la verità?”. Non possiamo permetterci di considerare indifferente l’inserzione dell’articolo determinativo “la”. Domandare cosa è “la verità” è cosa diversa da chiedere cosa è “verità”, perché nel primo caso la verità è sostanzializzata, considerata di per sè, come un ente metafisico, mentre solo nel secondo caso la verità diventa una caratteristica che ha senso solo se applicabile ad altre cose o parole, come un loro attributo[51]. Forse dunque sarebbe meglio per noi dire (e pensare) “verità” senza articoli di sorta.

Ancora più differenti sono i concetti “la verità” (singolare) e “le verità” (plurale). Il singolare “la verità” sembra chiamare irresistibilmente un’iniziale maiuscola, diventare “la Verità”, una sola, ma se la verità è una sola, assoluta, che riduce tutto il resto a falsità e menzogna, allora può esserci chi è chiamato a difenderla, o piuttosto ad amministrarla, generando dunque intolleranza, totalitarismo e violenza. Non è accaduto forse così nella storia? D’altra parte “le verità”, al plurale, sembrano alludere al relativismo, a un’equivalenza fra verità diverse, tutte ugualmente vere e indecidibili, una situazione dunque in cui il successo di una verità sulle altre è affidato alla volontà di potenza dell’interpretazione.

Verità è adaequatio rei et intellectus?

Per secoli l’Occidente ha pensato che verità fosse dire gli enti come sono «E quello che dice gli enti come sono è vero, mentre quello che li dice come non sono è falso»[52], verità cioè sarebbe la corrispondenza fra una rappresentazione linguistica, o concettuale, e la realtà delle cose. Verità è adaequatio rei et intellectus, («corrispondenza tra cosa e intelletto»), secondo Tommaso d’Aquino, e secondo tanti altri prima di lui, risalendo fino a Isacco Ben Salomon, ad Avicenna e ad Aristotele. Nella modernità la corrispondenza fra proposizioni e cose è stata affermata (in forme diverse) anche dal razionalismo e dal positivismo, fino alla filosofia analitica contemporanea, considerando tanto più forte una verità se essa può essere verificata logicamente o sperimentalmente.

È questa la verità della scienza, ma tale verità è per intero sussunta all’interno del discorso scientifico che la esprime, e non può prescinderne; dove per “discorso” si deve intendere l’insieme dei fattori che lo rendono possibile: un linguaggio, un vocabolario, un punto di vista, una base di fatti ed esperienze, e perfino una determinata sintassi di ragionamento e una interna logica, e così via. Ora tutto ciò espone anche il discorso scientifico – assai più di quanto appaia – alla transitorietà e alla obsolescenza che caratterizzano qualsiasi umano discorso, necessariamente travolto dal modificarsi nel tempo della storia delle umane conoscenze. Chi mai oggi potrebbe sostenere la “verità” delle affermazioni interne al grande discorso scientifico di Tolomeo, ma anche a quelli altrettanto grandi di Copernico, di Galilei, di Cartesio e dello stesso Newton? E certamente la scienza contemporanea e futura condannerà le “verità” di oggi allo stesso destino che ha coinvolto quelle del passato. Sembra fondata l’osservazione che Platone mette in bocca a Socrate quasi a conclusione del Cratilo: “Nessuna conoscenza coglie il suo oggetto, se questo non sta assolutamente fermo.”[53]. E cosa mai sta assolutamente fermo nel nostro tempo?

Se quanto detto testimonia contro l’assolutezza di verità dal punto di vista del tempo, analogo ragionamento vale dal punto di vista dello spazio. L’essere-discorso di verità di cui trattiamo è veramente e solamente occidentale, l’onto-logia è occidentale. Ma, domandiamoci: esiste altra verità al di fuori dei limitati confini geografici dell’Occidente? Esiste qualcosa che non sia “bianco, maschio, morto”? Con uno degli scarti così sorprendenti e così caratteristici del suo pensiero, Anders evoca la difficile necessità di tenere conto nella filosofia anche dell’esistenza…degli Afgani[54] (un tema che, quando scriveva, rappresentava davvero il massimo dell’estraneità al nostro mondo: ora, naturalmente, dopo decenni di guerra non è più così). E basti dire che l’ontologia occidentale ha escluso del tutto dal suo orizzonte oltre che gli Afgani (cioè i popoli del Sud del mondo) anche le donne, il loro corpo e il loro pensiero, per capire quanto insopportabilmente angusti siano i suoi limiti.

Sottolineo che è ancora più evidente la obsolescenza dei discorsi umani di verità se ci si riferisce, invece che al discorso scientifico, a quelli che si svolgono sul terreno delle filosofie, delle teologie, delle ideologie. Ma ciò che è più grave: sono ancora più evidenti (la storia ci insegna) i pericoli che per la società degli uomini e delle donne derivano dal fatto che la verità sia sussunta ed espressa all’interno di tali discorsi e appartenga loro.

Dunque l’affermazione platonica (da cui siamo partiti) che intende la verità nel «dire gli enti come sono» zoppica (per così dire) dal primo lato, quello del “dire” cioè del discorso, ma essa è ancora più debole dal secondo lato, quello degli “enti” o dell’essenza delle cose.

Infatti, non è forse proprio la res, l’esistenza autonoma e oggettiva della realtà “là fuori”, ciò che il nostro mondo mette radicalmente in discussione? Non consiste in questo la fondatezza della radicale critica all’ontologia occidentale e alla metafisica? Il dominio della tecnica si compie nella fantasmagoria delle immagini in cui siamo totalmente immersi. Questo processo reale è seguìto, come un cagnolino fedele, dalle filosofie del post-moderno.

10. Il soggetto collettivo umano è l’ unica possibile misura di tutte le cose (e della loro verità)

Non c’è dunque via d’uscita per dire e ascoltare, per comunicare e ricevere verità fra umani?

Sembrerebbe che condizione perché questo possa avvenire sia solo una ritrovata soggettività dell’uomo/donna in quanto collettivo. Cerchiamo di argomentare questa speranza.

Parresìa

Esiste una parola, “parresiasta”, tanto bella quanto difficile, che deriva dal greco “parresìa[55], una parola composta di “pan” (= tutto) e “rhema” (= parola, discorso). Il parresiasta è dunque colui che dice tutto, dove tutto sta per ogni verità. Egli paga per questo il prezzo altissimo che le società degli uomini fanno sempre pagare a chi dice verità, da Socrate in poi. Fino ad Assange.

Verità è dunque per il parresiasta anzitutto un dovere[56], un dovere etico non conoscitivo, che precede addirittura ogni sua personale preferenza. La Legge a cui il parresiasta obbedisce “non è regola, ma richiamo, e tale richiamo è, allo stesso tempo, un’ingiunzione, poiché il richiamo non si discute: non è soggetto a esami, verifiche, rimaneggiamenti, come è per tutte le leggi umane.”[57] Come dice Foucault “La parresìa è al contempo una libertà e un obbligo”[58].

Si noti che il dire verità del parresiasta non è condizionato dal contesto o da altri fini, e neppure dall’efficacia (dalla tentazione di essere efficaci nell’immediato[59]): la sua verità è fine a sé stessa. In questo senso la verità del parresiasta è assolutamente etica, essa è pre-teoretica, viene prima ed è al di là anche di ogni “discorso di verità” e dei limiti che abbiamo rintracciato in ogni discorso di quel tipo, rimanda insomma ai fondamenti dell’etica prima ancora che a quelli della conoscenza discorsiva.

Tali fondamenti dell’etica non possono che riguardare l’umanità in quanto tale. Ma che cos’è l’umanità? Che cos’è l’uomo?

Che cosa è l’umanità?

In alcuni passi straordinari dei suoi Quaderni Gramsci affronta la domanda che fu già dei Salmi e di Giobbe[60] “Cos’ è l’uomo?”, ma rileva subito che tale domanda non è in sé né obiettiva né innocua, perché in essa sono già presupposti “determinati modi di considerare la vita e l’uomo: il più importante di questi modi è la ‘religione’ ed una determinata religione, il cattolicismo”[61]; si potrebbe dire, con linguaggio non gramsciano, che quella domanda è di per sé metafisica e ontologica[62]. (E noi non possiamo fare a meno di rilevare che questo è un esempio probante di quella deformazione insita in ogni discorso con pretese di verità, in realtà denso di presupposti non dichiarati ma operanti, che poc’anzi abbiamo cercato di descrivere)[63]. Prosegue il ragionamento di Gramsci:

“(…) non esiste di fatto, storicamente, un modo di concepire ed operare uguale per tutti gli uomini (…)”[64]

“Tutte le filosofie finora esistite può dirsi che riproducono questa posizione del cattolicismo, cioè concepiscono l’uomo come individuo limitato alla sua individualità e lo spirito come tale individualità. È su questo punto che occorre riformare il concetto dell’uomo. Cioè occorre concepire l’uomo come una serie di rapporti attivi (un processo) in cui se l’individuo ha la massima importanza, non è però il solo elemento da considerare. L’umanità che si riflette in ogni individualità è composta di diversi elementi: 1) l’individuo; 2) gli altri uomini; 3) la natura. (…) Questi rapporti non sono meccanici. Sono attivi e coscienti, cioè corrispondono a un grado maggiore o minore d’intelligenza che di essi ha il singolo uomo. Perciò si può dire che ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento. In questo senso il filosofo reale è e non può non essere altri che il politico, cioè l’uomo attivo che modifica l’ambiente, inteso per ambiente l’insieme dei rapporti di cui ogni singolo entra a far parte.”[65]

Questo significa che non esistono “l’uomo” o “l’umanità” in quanto entità date e metafisiche, ma esiste l’umanità in quanto processo, in via di costruzione, risultante dall’insieme delle soggettività degli uomini e delle donne in quanto creatori di storia[66].

Tale soggettività umana (che, come abbiamo visto, è oggi impedita in radice dall’attuale assetto iconocratico) è sempre in via di costruzione, presuppone e richiede però negli uomini e nelle donne il loro essere collettivo, come ribadì Antonio Gramsci scrivendo una delle sue ultime lettere al figlio Delio:

“Carissimo Delio, […] Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa.”[67]

È solo questo umano soggetto collettivo (tutti gli uomini “quanti più uomini è possibile”) ciò che può diventare “misura di tutte le cose” a cominciare dalla loro verità.

Opporsi alla fine della storia

Ma ora – lo sappiamo bene – l’essere collettivo è il più proibito dei gesti in società dominate dal capitale che hanno elevato l’assoluto individualismo a dogma e legge. La tecnica, anzi la tecnologia, è ora il solo soggetto, e la sua evoluzione è la pallida parvenza a cui si riduce ciò che era la storia.

È tutto questo il macroscopico e globale fatto che implica la fine della umana storia (non certo le distopiche affermazioni del sociologo americano Francis Fukujama sulla “fine della storia” dopo il crollo dell’URSS). Ma dire fine della storia significa, né più né meno, dire fine della libertà umana nella storia.

La storia, questa meravigliosa costruzione di presente-passato-futuro fatta dall’umanità associata al tempo del mondo dei fatti e delle cose, non può più esistere nel mondo delle immagini e della “iconocrazia” privata di verità. E tale impossibilità deriva dalla situazione in cui gli uomini e le donne non sono più né soggetti né protagonisti di nulla.

D’altronde, al contrario di quanto si crede, la storia non è sempre esistita: è sempre esistito il variare del giorno e della notte e il succedersi delle stagioni, ma la storia è (è stata) un’altra cosa, e come non è sempre esistita così non c’è motivo di credere che essa debba esistere per sempre.

Il mondo ridotto alle immagini non possiede d’altronde né tempo né spazio, perché non consente alcuna nostra collocazione soggettivante nel tempo e nello spazio. Il primo, il tempo, già destituito dalla velocità istantanea degli scambi, è ridotto all’ “eterno presente” del capitalismo realizzato; il secondo, lo spazio, diventa attraverso le immagini dei mass media un ingannevole “ovunque”, che naturalmente significa nessun luogo.

Le immagini sono fantasmi, e il fantasma (dal greco φαντάζω phantàzo, “mostro”, “appaio”) si caratterizza appunto per il suo rapporto debole, o inesistente, con la realtà delle cose. Se anche un fantasma fosse “vero” la sua verità sarebbe quella di un fantasma e non quella della persona o della cosa che evoca. Lo stesso vale, evidentemente, per le immagini. Allora quale mai può essere lo statuto della verità in un mondo di immagini-fantasmi? Solo formulare una tale domanda è cosa ridicola e priva di senso.

Così nel mondo ridotto a immagini viene mancare in radice ogni progetto di umana ricerca e verifica di verità, in cui consisteva, a ben vedere, anche la parziale quanto preziosa libertà concessa agli umani. Quella che viene soppressa, nel mondo ridotto a immagini, è infatti anzitutto l’umanissima dialettica tra il potersi distanziare dalla datità del mondo nel conoscere (θεωρεῖν) e il potevi tornare, compensando l’alterità dell’uomo dal mondo, mediante le attività del fare (la πρᾶξις).

Soppressa l’umana ricerca di verità nella libertà di conoscere e fare, quello che resta è soltanto la “volontà di potenza” degli uomini e delle classi dominanti, quello che resta è la guerra.

Ecco perché la menzogna è più di una possibilità o un destino: essa è una modalità dell’essere, quella che domina questo nostro tempo finale.

Nell’ultimo libro, che precede di poco la sua morte, Primo Levi si pone, e ci pone, una domanda cruciale, che di certo tante volte era stata stupidamente posta a lui e ai sopravvissuti dal lager:

“Perché non siete scappati ‘prima”. Prima che le frontiere si chiudessero, prima che la trappola scattasse? (…) l’uomo minacciato provvede, resiste o fugge, ma molte minacce di allora, che oggi ci sembrano evidenti, a quel tempo erano velate dall’incredulità voluta, dalla rimozione, dalle verità consolatorie generosamente scambiate ed autocatalitiche.

Qui sorge la domanda d’obbligo: una controdomanda. quanto sicuri viviamo noi, uomini della fine del secolo e del millennio? e, più in particolare, noi europei? Ci è stato detto, e non c’è motivo di dubitarne, che per ogni essere umano del pianeta è accantonata una quantità di esplosivo nucleare pari a tre o quattro tonnellate di tritolo; se se ne usasse anche solo l’uno per cento, si avrebbero decine di morti subito, e danni genetici spaventosi per tutta la specie umana, anzi, per tutta la vita sulla terra, ad eccezione forse degli insetti. È almeno probabile, inoltre, che una terza guerra generalizzata, anche convenzionale, anche parziale, si combatterebbe sul nostro territorio, fra l’Atlantico e gli Urali, fra il Mediterraneo e l’Artico. La minaccia è diversa da quella degli anni ’30: meno vicina ma più vasta; legata, secondo alcuni, ad un demonismo della Storia, nuovo, ancora indecifrabile, ma slegata (finora) dal demonismo umano. È puntata contro tutti, e quindi particolarmente ‘inutile’.

Allora? Le paure di oggi sono meno o più fondate di quelle di ieri? (…) perché non partiamo, perché non lasciamo il nostro paese, perché non fuggiamo ‘prima’?”[68]

11. La guerra come disvelamento e la “prospettiva”

Se tutto questo è vero, allora il noto aforisma eschileo da cui siamo partiti (“In guerra la verità è la prima vittima”) si rivela insufficiente e forse deve essere rovesciato, perché la guerra mostra la nuda verità delle cose per quanto orrenda essa sia; in quanto apocalisse (la parola deriva dal greco apo-kálypsis (ἀποκάλυψις), che significa levare ciò che copre, dunque, letteralmente scoperta o disvelamento, rivelazione) la guerra toglie il velo.

Questo spiega perché per molti (e anche per chi scrive) la guerra abbia comportato anche la fine di amicizie pluridecennali e perché (per fare un solo esempio meno personale) un quotidiano della capitale, e del capitale, che per decenni ha rappresentato anche (troppo) un punto di riferimento politico-culturale della sinistra non si possa più leggere oggi senza disgusto e vergogna. È cambiato quel quotidiano, oppure è solo cambiato il nostro sguardo reso ora più acuto dall’apocalisse?

Eppure tutto era già chiaro, squadernato sotto i nostri occhi, almeno a partire dalla prima delle “guerre costituenti”, quella contro l’Iraq del 1991.

Se ne accorse, più lucidamente di tutti, Alberto Asor Rosa scrivendo Fuori dall’Occidente. Ovvero ragionamento sull’apocalissi nel 1992. Come uscire dall’apparente e mortifero “trionfo dell’Occidente”? È possibile farlo? Lo scenario che Asor Rosa descrive è davvero quello di una nuova Apocalissi.

«Il “nuovo ordine” sarà tempestoso e terribile. È completamente sbagliato pensare che l’Unum imperium, unus rex fondi un principio di pace. L’unicità essenziale del potere su scala mondiale è destinata, al contrario, a sconvolgere tutti i già fragili equilibri del mondo. Il mondo si separerà e si contrapporrà sempre di più, sostituendo ai principî universali la difesa dell’identità di ciascuno contro quelle di tutti gli altri. All’Unum imperium, unus rex – fondato su di una invincibile supremazia economica e tecnologica, la quale sostituisce il moderno “principio di autorità, – verrà accompagnadosi una disgregazione e separazione sempre più accentuata di singoli individui, il marasma generalizzaato dei poteri, il caos naturale, che riemerge dall'”armonia” puramente formale (e in realtà solo costrittiva) imposta dai più potenti. (…) Scorreranno fiumi di sangue, non si avrà pietà per nessuno. La guerra (…) sarà un elemento fondamentale e continuo, pre-supposto, del nuovo ordine. (…)

E l’Occidente triumphans, se lo si guarda più da vicino, ha sul volto un colorito che assomiglia di molto al pallore del rigor mortis. È un caso che in questo straordinario, trionfante mondo imperiale tutte le forme di pensiero siano in decadenza? Che non ci siano più nè letteratura né arti né filosofia né pensiero giuridico né riflessione religiosa, e che persino il cuore del sistema, – l’economia, – non alimenti un pensiero capace di guidare gli avvenimenti invece di limitarsi a seguirli? Ma tutto questo è nulla, rispetto a quello che si vede in giro, se ci si occupa di politica o di dimensioni sociali dell’agire umano. In questa zona un sentore di morte sprigiona dappertutto. Si sprigiona dai volti degli amici e dai volti dei nemici. Dalla mortificazione delle masse e dall’arroganza dei potenti. Dalla disperata sottomissione dei deboli e dalla spropositata opulenza dei ricchi. Dalla patetica impotenza di chi resiste e dalla rassegnata malinconia di chi s’è lasciato andare.»[69]

Come sia possibile uscire dalla prospettiva catastrofica del capitalismo trionfante, è un problema che esula, evidentemente, dai limiti i queste pagine e di chi le scrive. Basti qui dire che se la crisi è con ogni evidenza di sistema, se il sistema stesso (cioè il capitalismo globale dominato dall’Occidente) si rivela essere catastrofico per l’umanità associata, allora è da questo sistema che occorrerà fuoruscire. Si può dire che sono tutte in questa necessità le ragioni attuali del comunismo, cioè del tentativo degli uomini e delle donne di fuoruscire dal capitalismo. E per Lukács:

“(…) non è possibile sviluppare alcuna adeguata analisi di carattere sociale, senza simultaneamente offrire una concreta pospettiva politico-organizzativa del problema diagnosticato.”[70]

Potremmo dire che ci è stato distrutto il percorso ma non l’orizzonte, che ci è stata interdetta la via, forse ogni via, ma non la prospettiva.

Lukács pose il problema della prospettiva al centro del suo intervento al IV Congresso degli scrittori tedeschi, e così la definisce:

“In primo luogo: qualcosa si determina come prospettiva in quanto è non ancora esistente. Se esistesse¸ non sarebbe prospettiva per il mondo che noi configuriamo.

In secondo luogo: tale prospettiva non è però una pura utopia, un puro sogno soggettivo, sibbene la necessaria conseguenza di un’evoluzione sociale oggettiva (…).

In terzo luogo: essa è oggettiva, ma non fatalistica. Se lo fosse, non sarebbe una prospettiva. È prospettiva in quanto non è ancora realtà; tuttavia ciò che è effettualmente dato è la tendenza ad attuare, mediante le azioni e i pensieri di uomini determinati, questa realtà: una grande tendenza sociale che si realizza per vie intricate, forse in modo assai diverso di come ci immaginiamo.”[71]

12. L’incontro Lukács-Anders e il “Grand Hotel Abisso”

Ed è sul problema della prospettiva che si realizza un decisivo punto di incontro nello straordinario dibattito a distanza che si verificò fra Lukács e Anders, accomunati nell’ultima battaglia politica del filosofo ungherese, quella per la vita e la libertà di Angela Davis, una battaglia per la quale Andres avrebbe ricevuto il testimone da un Lukács ormai vicino alla morte.

Alla base del rapporto fra i due filosofi c’è, crucialissimo, il problema della responsabilità, che ricade in primo luogo sugli “intellettuali”, intendendo con questa odiata parola tutti gli uomini e le donne dotati di parola, cioè di ragionamento. Torna dunque una forte curvatura etica della filosofia che già era emersa nei nostri ragionamenti (specie a proposito della parresìa).

A questo proposito Lukács propone, proprio nella sua prima lettera ad Anders del 1964, la formidabile metafora del “Grand Hotel Abisso”, cioè un luogo, dotato di ogni comfort, sull’orlo del nulla, dall’alto del quale intellettuali aristocratici e critici, ma malinconicamente o cinicamente disimpegnati, contemplano il panorama, senza fare nulla per modificarlo:

“Sono assai scettico sulla mediore letteratura sulla Entfremdung [estraniazione]. Regna in essa un vigliacco e falso auto-compiacimento. La Entfremdung viene ‘smascherata’, ma così, come se essa riguardasse unicamente la misera plebs e in alcun modo l’autore, l’intellettuale aristocratico non conformista. Con questa mia posizione, che in altre circostanze ho chiarito nella Prefazione alla Teoria del romanzo, ritengo infatti che alcuni autori si curano di vivere nel “Grand Hotel Abisso” da dove, sull’orlo dell’abisso (un abisso inteso come una prestazione di servizio particolarmente raffinata della società contemporanea) possono godere di una buona coscienza.”[72]

Anzi si può dire che nella visione etico-politica (e forse anche moralistica) di Lukács questi intellettuali e questi artisti che vivono graditi ospiti del “Grand Hotel Abisso” siano particolarmente colpevoli, perché pur disponendo di una strumentazione intellettuale che potrebbe condurli a una vera rottura con lo stato di cose presente, presumono “di aver già rotto con la borghesia e la sua cultura mentre sono ancora con tutti e due i piedi sul suo terreno.”[73]

Lukács affronta apertamente, nella comune decisiva lotta contro l'”estraneazione”, o “alienazione” (Entfremdung), il problema del pessimismo, o della disperazione, a cui potrebbero condurre le posizioni di Anders (forse come traccia della sua originaria matrice heideggeriana[74]). Scrive Lukács:

“Umanamente apprezzo molto la Sua interiore disposizione alla disperazione. Ma tuttavia credo che nel pensiero bisogna superare i sentimenti come la speranza o la disperazione (uno dei limiti del pensiero di Ernst Bloch consiste nel non fare ciò e nel trasformare un sentimento in un principo oggettivo). Credo che si tratti obiettivamente del problema della differenza tra le prospettive immediate e quelle lontane nel tempo. Si può tranquillamente anche essere molto pessimisti per il presente e per l’immediato futuro senza perdere di vista la più ampia prospettiva finale.

Per questo non bisogna essere necessariamente marxisti.”[75]

Dunque nulla toglie all’attualità, anzi alla necessità, della prospettiva di una necessaria fuoruscita dal capitalismo (ciò che chiamiamo ancora “comunismo”) il fatto che noi attualmente non sappiamo quasi nulla del come realizzarla, e che non siamo neanche in grado di identificare (e meno ancora di unire e organizzare) i mille e mille soggetti collettivi che trovano intollerabile il capitalismo e che sono chiamati a realizzare un giorno tale rivoluzionaria fuoruscita.

Comunque è questo un altro disvelamento, certo non il meno importante, che la guerra porta con sé.

E resta il fatto che cercare di capire e spiegarsi come stanno effettivamente le cose rappresenta di per sé l’inizio di qualsiasi possibile rivoluzione.

FINE

Riferimenti bibliografici [da completare]

Per non appesantire inutilmente la lettura (e soprattutto, lo confesso, la scrittura) queste pagine non presentano il consueto apparato accademico di note. Fornisco solo qui, in modo sommario, alcuni riferimenti ai libri da cui ho tratto più spunti e idee.

Il pensiero di Günther Anders rappresenta l’ispirazione fondamentale di queste mie pagine; nell’impossibilità di citare tutto analiticamente, mi limito a rimandare a:

– Günther Anders, L’uomo è antiquato, I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Traduzione di Laura Dellapiccola, Torino, Bollati Boringhieri, 2021;

– Id., L’uomo è antiquato, II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Traduzione di Maria Adelaide Mori, Torino, Bollati Boringhieri, 2022.

– Id., Tesi sull’età atomica, Viterbo, edizioni del Centro di ricerca per la pace, 1991.

Una ricca e utile bibliografia relativa a Günther Anders si trova nel periodico on line “Donna, vita, liberta’. 216” (4/8/2023), del “Centro studi per la pace di Viterbo”, di Beppe Sini (nonviolenza@peacelink.it) .

Ho utilizzato largamente Wikipedia, specie per alcune cifre (e per le notizie sulla resa del Giappone).

Altri testi citati o utilizzati:

– AA. VV., Vie traverse. G. Lukács e G. Anders a confronto, a cura di Aldo Meccariello e Antonino Infranca, Testi di Giuseppe Cacciatore, Devis Colombo, Matteo Gargani, Antonino Infranca, Lelio La Porta, Aldo Meccariello, Miguel Vedda, Trieste, Asterios Editore, 2019

– Alberto Asor Rosa, Fuori dall’Occidente. Ovvero ragionamento sull’apocalissi, Torino, Einaudi, 1992.

– Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Torino, Einaudi, 1998, p 27.

– Lanfranco Binni, I cecchini della libertà, «Il Ponte», anno LXX, n. 4, aprile 2014, poi in Id., Rosso di sera. Scritti per «Il Ponte» 2011-2019, Firenze, Il Ponte Editore, 2019.

– M. Foucault, La parresia, in Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, Donzelli, 2019, pp. 127-161;

– Id., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983) [2008], a cura di M. Galzingna, Milano, Feltrinelli, 2009;

– Id., Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980) [2012], a cura di D. Borca e P.A. Rovatti, Milano, Feltrinelli, 2014;

– Id., Dir vero su se stessi. Conferenze all’Università di Victoria Toronto, 1982, Edizione italiana a cura di Filippo Domenicali, Napoli-Salerno, Orthotes, 2020.

– A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, 4 voll., Torino, Einaudi, 1975.

– Vasilij Grossman, Ucraina senza ebrei, Milano, Adelphi, 2023.

– M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo (trad. di Lionello Vinci), Torino, Einaudi, 1966 (2.a).

– A. Koyré, Sulla menzogna politica, Torino, Lindau, 2020 (2.a).

– Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986.

– Id., Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 0000 1986.

– Natascia Mattucci e Francesca R. Recchia Luciani (a cura di), Obsolescenza dell’umano.Günther Anders e il contemporaneo, Genova, Melangolo, 2018.

– H. Marshall Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, trad. it. di E. Capriolo, Milano, Il Saggiatore,1964.

– Id., La Galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, traduzione a cura di Stefano Rizzo, Roma, Armando, 1976.

– R. Mordenti, Le due censure: la collazione dei testi del Decameron “rassettati” da Vincenzio Borghini e Lionardo Salviati, in AA.VV., Le pouvoir et la plume. Incitation, contrôle et répression dans l’Italie du XVI.e siècle, Paris, C.I.R.R.I.-Université de la Sourbonne Nouvelle, 1982, pp. 253-273.

-Id., Per un’analisi dei testi censurati: strategia testuale e impianto ecdotico della “rassettatura” di Lionardo Salviati, in “FM Annali”, 1982, 1, pp. 7-51.

– Id., L’altra critica. La nuova critica della letteratura fra studi culturali, didattica e informatica, Roma, Meltemi, 2007 (seconda edizione: Roma, Editori Riuniti University Press, 2013, che cito ampiamente nel paragrafo dedicato a “La fine, e la proibizione, della critica”).

– J.-L. Nancy, L’odio per gli ebrei. In dialogo con Danielle Cohen-Levinas, Traduzione e cura di Daniela Calabrò e Massimo Villani, Prefazione di Danielle Cohen-Levinas, Roma, Casstelvecchi, 2023.

-Id., Verità della menzogna, Traduzione di Lucrezia Lenti. Revisione in italiano Paola Armenti e Antonia Guarini, Alberobello (Ba), Poiesis, 2023.

.-Mario Perniola, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004.

– Michele Rak, Rosa. La letteratura del divertimento amoroso, Roma, Donzelli, 1999.

– Gianni Vattimo, L’oblìo impossibile, in AA.VV., Usi dell’oblio, Parma, Pratiche, 1990, pp. 91-104.

-L’intervista a Ignacio Ramonet, è stata rilasciata a Pascual Serrano il 10 agosto 2023 “L’obiettivo è ‘hackerare’ l’individuo con un misto di guerra psicologica e di guerra dell’informazione”, (wordpress.com), traduzione a cura di Rifondazione/Esteri:

http://www.rifondazione.it/esteri/index.php/2023/08/10/intervista-a-ignacio-ramonet-lobiettivo-e-hackerare-lindividuo-con-un-misto-di-guerra-psicologica-e-guerra-dellinformazione/)

  1. G. Anders, L’uomo è antiquato, I, Torino, Bollati Boringhieri, 2021, pp.000.
  2. Ignacio Ramonet, intervista rilasciata a Pascual Serrano il 10 agosto 2023.
  3. A. Koiré, Sulla menzogna poliica, Torino, Lindau 2020, p.7.
  4. Cfr. “Questi dati (…) escono dal World Press Freedom Index, un’analisi realizzata da Reporter sans frontieres, che ha studiato a fondo la libertà di stampa a livello globale e l’ha classificata rispetto a cinque diversi indici: contesto politico, legale, economico, socioculturale e di sicurezza.” https://ilbolive.unipd.it/it/news/world-press-freedom-index-italia-stampa (Il Bo Live” dell’Università di Padova). Ma si vedano anche le critiche a questi criteri di classificazione in: https://pagellapolitica.it/articoli/classifica-liberta-di-stampa-problemi.
  5. Cfr. Mordenti 1982.
  6. La composizione del management e della proprietà della “Leonardo” spiega come mai, nella famosa telefonata intercettata, D’Alema proponesse alla Colombia, a nome della “Leonardo” (senza averne, in apparenza, alcun titolo), la vendita di armi per milioni di dollari, specificando che bisognava sbrigarsi perché la situazione politica poteva cambiare.
  7. Lanfranco Binni, I cecchini della libertà, «Il Ponte», anno LXX, n. 4, aprile 2014, poi in Id., Rosso di sera. Scritti per «Il Ponte» 2011-2019, Firenze, Il Ponte Editore, 2019.
  8. A. Capitini, Il potere di tutti, Firenze, La Nuova Italia, 1969, ora in Id., Attraverso due terzi del secolo. Omnicrazia: il potere di tutti, a cura di L. Binni e M. Rossi, Firenze, Il Ponte Editore, 2016, pp. 54-56 (vedi anche Id. Un’alta passione, un’alta visione. Scritti politici 1935-1968, stessi curatori, Firenze 2016). La figura di Capitini è ingiustamente ignorata e sottovalutata: si può perfino dire che le sia nuociuta la riduzione al generico pacifismo della “marcia della pace” Perugia-Assisi da lui inventata, e per questo è assai prezioso il lavoro di pubblicazione dei suoi scritti e di rivalutazione del suo pensiero politico messo in atto da Lanfranco Binni, da Marcello Rossi e dalla casa editrice “Il Ponte” di Firenze.

  9. Si potrebbe anche citare, fra le altre cose, l’abbandono putiniano di qualsiasi sostegno economico a Cuba sottoposta al “bloqueo” nordamericano, un sostegno che invece era in qualche modo garantito dall’URSS.
  10. Cfr. V. Evangelisti, I ribelli del Donbass, http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=14265.
  11. Mi correggo: chiunque si vergognerebbe, tranne Rampini, Johnny Riotta, Nathalie Tocci, etc.
  12. Intervista a D. A. Macgregor cit. in F. Mini, I veri numeri della guerra/1. “Ogni russo ucciso muoiono 5 ucraini, “Il Fatto quotidiano”, 13 settembre 2023, p.17.
  13. Secondo il colonnello Macgregor si tratterebbe (nell’agosto 2023) di circa 400.000 morti ucraini (di cui almeno 40.000 nel corso della offensiva di primavera) e di circa 50.000 morti russi, con un rapporto di 1 a 5 o addirittura di 1 a 7 fra perdite russe e ucraine. (Intervista a D. A. Macgregor cit. in F. Mini, I veri numeri della guerra/1. “Ogni russo ucciso muoiono 5 ucraini, “Il Fatto quotidiano”, 13 settembre 2023, p.17).
  14. In base alla tesi dello stesso masochismo auto-distruttivo, i russi sono stati dipinti come gli autori della distruzione di dighe (nei loro territori) e di attacchi a centrali nucleari (nei loro territori).
  15. Il movimento pacifista ucraino ha denunciato la repressione politica del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina contro i pacifisti, citando l’incarcerazione politica di Ruslan Kotsaba (già nel 2015) come anche la perquisizione e l’arresto domiciliare di Yurii Sheliazhenko nel 2023 “sotto il pretesto di una presunta giustificazione dell’aggressione russa nella dichiarazione ‘Agenda per la Pace dell’Ucraina e del Mondo’, che in realtà condanna l’aggressione russa”. Cfr. anche la dichiarazione del movimento pacifista ucraino (del 26 aprile 2022) in

    https://www.pressenza.com/it/2022/04/dichiarazione-del-movimento-pacifista-ucraino-contro-la-continuazione-della-guerra/. Neanche a dirlo, la presenza di questo movimento è stata del tutto occultata dai nostri mass media.

  16. E. Perucchietti, False Flag. Sotto falsa bandiera. Strategia della tensione e terrorismo di Stato, Bologna, Arianna Editrice, 2016.
  17. Da un’intervista rilasciata a durante il Processo di Norimberga.
  18. William Randolph Hearst è il personaggio rappresentato nel film capolavoro di Orson Welles Quarto potere (Citizen Kane) del 1941.
  19. L. Canfora, Critica della retorica democratica, Roma-Bari, Laterza, 2002. L’Union Minière è la potentissima holding belga che gestiva i giacimenti del l’ex Congo belga e che al momento dell’indipendenza del Paese (1960), dopo l’uccisione del leader Lumumba, promosse la secessione della ricca regione mineraria del Katanga e una guerra lunga e sanguinosa.
  20. Seguì, nel 1989, dopo un’intensa delegittimazione massmediatica del successore Manuel Noriega (già beniamino degli USA e della CIA e ora accusato di narco-traffico), l’invasione armata di Panama da parte degli Stati Uniti. 
  21. Secondo l’ex agente e banchiere John Perkins (Confessioni di un sicario dell’economia (TXT), su archive.org, 2004) si trattò in entrambi casi di operazioni “coperte” della CIA.
  22. Cfr., in una ormai sterminata bibliografia sul tema: Pino Cabras, Strategie per una guerra mondiale. Dall’11 settembre al delitto Bhutto, Aìsara, 2008; Giulietto Chiesa e Pino Cabras, Barack Obush. La liquidazione di Osama, l’intervento in Libia, la manipolazione delle rivolte arabe, la guerra all’Europa e alla Cina: colpi di coda di un impero in declino, Ponte alle Grazie, 2011, 
  23. Il “Corriere della Sera” titolò l’indomani: “Colin Powell presenta le prove all’Onu”.
  24. Non posso non immaginare che quello spettacolare gesto di Powell sia stato pensato da qualche bravo sceneggiatore di Hollywood, comunque da qualcuno che conosceva bene le regole della retorica e la forza persuasiva della “cosa”, incomparabilmente più forte di qualsiasi parola.
  25. È assurto agli onori delle cronache per aver tentato – sostenuto da Giorgia Meloni – la rimozione del direttore del Museo Egizio colpevole di favorire l’accesso a quel Museo degli arabi.
  26. T. Rodano, Il personaggio. L’uomo di Meloni in Piemonte. Marrone tra nostalgie fasciste e voglia di epurazioni ‘egizie’, in “Il Fatto quotidiano”, 20 settembre 2023, p. 16.
  27. Ibidem.
  28. Cfr. R. Mordenti, Si può co-belligerare con i fascisti agli ordini di Putin? Io dico di no (2016), in

    https:// www.raulmordenti.it

  29. Cfr. Cristina Carpinelli, Neo-Repubbliche del Donbass Dio, patria e famiglia: i valori della Grande Russia Ucraina: il Donbass e il ripiegamento nostalgico su un lontano passato patriarcale e confessionale, in

    http://www.noidonne.org/articolo.php?ID=05102

  30. Dopo la seconda guerra mondiale, il Canada fu la meta di molti criminali nazisti che costituirono una fiorente comunità ucraino-canadese, di orientamento neo-nazista, sfuggendo a qualsiasi processo per le loro responsabilità. Nel 1997 il “New York Times” titolò un suo articolo: Il Canada definito paradiso per nazisti, e anche il Centro di caccia ai criminali nazisti di Simon Wiesenthal dovette arrendersi di fronte alle coperture fornite ai nazisti dalle autorità canadesi.
  31. La traduzione integrale dell’articolo More tha 100 milion propaganda books to be withdrawn from libraries, (https://imi.org.ua) è stata realizzata da Peace Link (cfr. https://www.peacelink.it/conflitti/a/49186.html).
  32. Sia consentito il rinvio alla polemica di chi scrive verso la rivista “Micromega” di Paolo Flores d’Arcais: https://fb.watch/dcwxs3IAcJ/.
  33. Ai quali comunque va riconosciuto il merito di aver tenuto l’Italia fuori dall’attacco anglo-francese all’Egitto al tempo della crisi di Suez nel 1956 o della guerra del Vietnam.
  34. P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 000, 000.
  35. Tradurrei, un po’ liberamente: “La fede (la parola data) non deve essere osservata con gli infedeli”.
  36. Intervista a D. A. Macgregor cit. in F. Mini, I veri numeri della guerra/2. L’America è debole: il rischio atomico, “Il Fatto quotidiano”, 14 settembre 2023, p.17.
  37. W. Benjamin, Sul concetto di storia, Torino, Einaudi, 1997, p. 27.
  38. Il solo punto su cui i giapponesi tenevano duro (e tennero duro fino alla fine) era la richiesta alleata di incriminazione dell’imperatore, una richiesta a cui gli Alleati alla fine rinunciarono.
  39. A Asor Rosa, Fuori dall’Occidente. Ovvero ragionamento sull’apocalissi, Torino, Einaudi, 1992, p. 101. Asor Rosa ricorda che Bush, nel momento della guerra del Golfo, godeva secondo i sondaggi del consenso del 92% dei cittadini statunitensi “probabilmente la stessa percentuale che Adolf Hitler avrebbe ricevuto in Germania nel giugno 1940, se Hitler avesse mai provato il bisogno di verificare mediante sondaggio il grado di consenso acquisito”.
  40. Ivi, pp. 101-102.
  41. M. Perniola, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004, pp. 9, 108.
  42. H. Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1964.
  43. Si può anche notare che ai partecipanti, mentre non sono affatto interdetti i comportamenti più intimi (coito compreso), sono invece rigorosamente proibiti dal Regolamento, oltre alle bestemmie, il possesso e la lettura dei libri.
  44. Cfr. Rak 1999 000
  45. È ormai un caso di scuola condiviso che nella vittoria di Kennedy contro Nixon fu determinante il fatto che nel dibattito televisivo il primo fosse vestito di scuro e biondo, il secondo invece vestito di chiaro, bruno e con la barba un po’ lunga che lo faceva decisamente somigliare a Ezechiele Lupo.
  46. M. Horkheimer , T. W. Adorno, L’industria culturale, in Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966, p. 137.
  47. W. Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, Torino, Einaudi, 1982, p. 7.
  48. Come è noto, l’uso del congiuntivo risulta ostico non solo al rag. Filini (degno collega di Fantozzi) ma anche a Ministri della Repubblica italiana.
  49. Naturalmente la sistematica, convinta, massiccia evasione fiscale rappresenta il vero cuore della lumpen-borghesia di massa, e una base strutturale del suo reddito. Analogo discorso si potrebbe forse fare per la prostituzione diffusa e per il peculato.
  50. I due motti (fascistissimi) “Chi se frega” e “Tengo famiglia”, che si alimentano a vicenda, descrivono per intero l’orizzonte etico della lumpen-borghesia di massa.
  51. Si potrebbe anche notare che la domanda di Pilato non è assoluta né teorica ma è occasionata dalle parole di Gesù Cristo: “(..) Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimonium perhibeam veritati; omnis qui est ex veritate, audit meam vocem.” (Gv, 19, 37). Peraltro Gesù successivamente non risponderà in alcun modo alla domanda posta da Pilato.
  52. Platone, Cratilo 385b, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Milano, Rusconi, 1991, p. 137.
  53. Platone, Cratilo 440a , ivi, p. 182.
  54. Cfr. G. Anders, 000, p.000.
  55. Questa parola, e questo tema, ha attirato l’attenzione di 000 Salvatori 000, Agamben 000, ma specialmente dell’ultimo Foucault: cfr. M. Foucault, La parresia, in Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, Donzelli, 2019, pp. 127-161; Id., Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983) [2008], a cura di M. Galzingna, Milano, Feltrinelli, 2009; Id., Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980) [2012], a cura di D. Borca e P.A. Rovatti, Milano, Feltrinelli, 2014; Id., Dir vero su se stessi. Conferenze all’Università di Victoria Toronto, 1982, Edizione italiana a cura di Filippo Domenicali, Napoli-Salerno, Orthotes, 2020.
  56. In questo il parresiasta si differenzia dal semplice “sincero” (cfr. Natoli, 0000).
  57. J.-L. Nancy, L’odio per gli ebrei. In dialogo con Danielle Cohen-Levinas, Roma, Casstelvecchi, 2023, p.22.
  58. M. Foucault, Dir vero su se stessi. Conferenze all’Università di Victoria Toronto, 1982, Edizione italiana a cura di Filippo Domenicali, Napoli-Salerno, Orthotes, 2020, p.189.
  59. Per questo il parresiasta parla così spesso ai posteri, e non a caso rifugge dalla retorica come da ogni strategia manipolativa esterna a verità.
  60. “Chi è dunque l’uomo perché ti ricordi di lui?” (Sal. 8, 5); “Che è mai l’uomo, che tu ne fai tanto conto” (Giobbe, 7, 17).
  61. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, 4 voll., Torino, Einaudi, 1975, vol.II, p.1344 (Q 10, § 54 “Introduzione allo studio della filosofia. Che cosa è l’uomo?”).
  62. Credo che questo sia il motivo per cui Gramsci annette la domanda alla religione e al “cattolicismo”.
  63. Cfr. supra, il paragrafo “Verità è adaequatio rei et intellectus?” a, p.000.
  64. A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., ivi.
  65. Ivi, p. 1345. Sottolineature nostre NdR.
  66. L’argomento era stato già affrontato in una nota del Q 4, § 45 intitolato “Struttura e superstrutture” (A. Gramsci, Quaderni, cit., vol. I, p. 471).
  67. A. Gramsci, Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, 1965, p.895. (Sottolineature nostre, NdR)
  68. P. Levi, I sommersi e i salvati, Torno, Einaudi, 000, pp. 135-136.
  69. A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente. Ovvero ragionamento sull’apocalissi, Torino, Einaudi, 1992, pp. 99, 102.
  70. M. Gargani, Il carteggio Lukács-Anders. Una lettura, in Vie traverse. G. Lukács e G. Anders a confronto, a cura di Aldo Meccariello e Antonino Infranca, Testi di Giuseppe Cacciatore, Devis Colombo, Matteo Gargani, Antonino Infranca, Lelio La Porta, Aldo Meccariello, Miguel Vedda, Trieste, Asterios Editore, 2019, p. 78.
  71. G. Lukács, Il problema della prospettiva (1956), in Il marxismo e la critica letteraria, Traduzione e Prefazione di C. Cases, Torino, Einaudi, pp.460-461.
  72. Cit. in Vie traverse. G. Lukács e G. Anders a confronto, cit., p. 58. Una preziosa nota di Gargani (a p. 59) ci avverte che stessa immagine compare in uno scritto di Lukács del 1933 (la data, quella dell’avvento diHitler, naturalmente è assai importante) rimasto inedito in vita e pubblicato solo nel 1977 e nel 1984.
  73. Ivi, p. 62.
  74. Credo che non si possa non concordare con l’affermazione seguente: “(…) la silhouette di Anders come pessimista disperato non si accomuna con la realtà dell’intellettuale intenso e valorosamente impegnato con varie cause, tra le quali occorre rilevare quella del disarmo nucleare, alla quale si dedicò con esemplare impegno.” (M. Vedda, Verso un realismo ben inteso…, in Vie traverse. G. Lukács e G. Anders a confronto, cit., p.84).
  75. Lettera citata in Vie traverse. G. Lukács e G. Anders a confronto, a cura di Aldo Meccariello e Antonino Infranca, Testi di Giuseppe Cacciatore, Devis Colombo, Matteo Gargani, Antonino Infranca, Lelio La Porta, Aldo Meccariello, Miguel Vedda, Trieste, Asterios Editore, 2019, p.77. (Sottolineatura nostra, NdR)

3 comments

  1. Alberto Bianchi ha detto:

    UNA PROPOSTA: Fare un commento breve ad una analisi così lucida, articolata e urgentemente attuale non è cosa facile. Pone come riflessione finale il dilemma di base già posto da Alberto Asor Rosa citato nella relazione sul “come uscire dal mortifero trionfo dell’Occidente”. Di fronte a tutto ciò si deve anche tenere presente della grave crisi che sta attraversando la sinistra di classe e nelle sue diverse forme oggi, in Italia e in Europa.( si veda come esempio la deriva a destra della fu socialdemocratica Svezia!). Urge essere propositivi, in particolare di fronte alle GRAVI responsabilità dell’Unione Europea, del suo governo e alla pesante DISINFORMAZIONE sul suo operato.In Ucraina si trattava dei suoi confini orientali e una Europa che avesse veramente voluto TUTELARE LA PACE e i suoi interessi economici avrebbe dovuto dire agli USA ‘sono questioni interne all’Europa, ce la vediamo noi’! Convocare il leader ucraino che aveva fatto richiesta di adesione e porre la condizione della neutralità dell’Ucraina per il suo ingresso nell’U.E. E’ accaduto tutto il contrario, l’U.E. ha preferito la logica del DOMINIO della NATO DELEGANDO TUTTO AGLI USA !!!Il prossimo anno ci saranno le elezioni europee, che senso ha andare a votare??? Da qui la proposta di attivarsi per un rifiuto del voto e uno scontro politico frontale con il governo dell’U.E in Italia e in Europa. Provare a recuperare una visione internazionalista delle sinistre, una contro informazione e provare a praticare inedite strade per una nuova sinistra. Evito di dilungarmi troppo e ringrazio Raul Mordenti per il suo prezioso contributo di analisi. Alberto Bianchi –

    • Raul mordenti ha detto:

      Grazie Alberto per le tue generose parole. La proposto di una “Lista per le pace” unitaria e aperta, avanzata da Santoro e La valle, forse può essere una “inedita strada per un nuova sinistra” (come tu scrivi). Attiviamoci tutti e tutte per riportare al voto tanti compagni demoralizzati che non votano più, la situazione è davvero molto grave e la pace (come la Costituzione) ha bisogno oggi, non domani, dell’impegno di tutti e tutte. Non c’è più tempo.

  2. Raul mordenti ha detto:

    Ricordo a chi fosse interessato che questo libretto è stato stampato dalla casa editrice Asterios di Trieste (pp.92, €.12,00). Lo si può ordinare direttamente all’edirte che lo manderà a casa (con un piccolo sconto): http://www.asterios.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.