R.Mordenti – R.Herlitzka, Dialogo-introduzione alla traduzione del De rerum natura

INTRODUZIONE AL VOLUME DI

R. HERLITZKA, La natura di Tito Lucrezio Caro. Libri I-IV, Milano, 2019.

Raul Mordenti – Roberto Herlitzka, Introduzione in forma di dialogo

(L’incredibile storia di questo testo)

Questo libro ha avuto un suo fato (come forse hanno tutti i libri importanti), in questo caso un fato sospeso fra abbandono e consegna, fra casualità e lunga durata, tutto – naturalmente – condito da un pizzico di necessaria follia, o di magìa.

Ormai molti anni or sono (direi in uno dei primi anni del Millennio) ricevetti dalle mani di Alberto Gianquinto, un amico comune (e per me un maestro), il testo di Herlitzka, un autografo non proprio “dilavato e graffiato” come il manoscritto da cui Manzoni scrisse di aver tratto I promessi sposi, ma neanche molto ben messo, e a dire il vero neppure un manoscritto come quello manzoniano, ma un dattiloscritto con correzioni a mano dell’Autore.

Dunque un testo prodotto con la macchina da scrivere, uno strumento già al tempo del tutto desueto e per giunta in quel caso assai zoppicante e imperfetto: essendo quella macchina da scrivere utilizzata da Herlitzka probabilmente svizzera, essa mancava dei glifi per ‘ò’, ‘ì’, etc., così che l’accentazione delle lettere era stata compiuta nel dattiloscritto o con il segno di apostrofo dopo la vocale o, più spesso, con una ribattitura dell’apostrofo sulla stessa lettera, tornando indietro.

Quel dattiloscritto si presentava prezioso perché (come mi disse Gianquinto) era copia unica. Ma contraddittoriamente con tale preziosità (che mi fu chiarissima subito, già a una prima lettura) mancava nel dattiloscritto qualsiasi cenno di solennizzazione o di appropriazione; mancavano il titolo, la data e qualsiasi notizia sulle circostanze e le motivazioni dell’ingente impresa; mancava la parola ‘fine’ e qualsiasi comunicazione rivolta al Lettore; mancava perfino il nome dell’Autore-Traduttore. Solo la numerazione accurata dei libri e dei versi, e la presenza di qualche correzione manoscritta qua e là, dicevano che l’opera era destinata ad essere letta da qualcun altro, letta da noi.

Sarebbe bastato poco, davvero molto poco, perché tutto questo lavoro prezioso e immenso (quante ore, e quali, Herlitzka ha dedicato a tradurre oltre 6.000 versi esametri?) sparisse per sempre, senza lasciare traccia, come un sasso nel mare. Che sia intervenuto il fato proprio di questo libro anche in tale circostanza? Ricordiamo infatti che anche il De rerum natura di Lucrezio corse il rischio di scomparire per sempre, ed anzi (dopo i riconoscimenti e le celebrazioni dei contemporanei, da Cicerone[1] a Ovidio[2]) effettivamente quel testo scomparve per secoli, essendo ritrovato un manoscritto che testimoniava l’opera solo nel 1417, all’abbazia di Fulda, dall’umanista Poggio Bracciolini.

La consegna di quel dattiloscritto prezioso serviva dunque essenzialmente a conservarlo, e infatti lo depositammo presso la Biblioteca d’area di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata”[3]. Ma poiché (come dalla Biblioteca d’Alessandria in poi abbiamo imparato) l’unico modo di conservare un testo è garantirne la paràdosis, cioè pubblicarlo, provvidi a offrirne on line nella rivista “Testo e Senso on line”[4] un’edizione diplomatico-interpretativa, insomma dando conto al Lettore non solo del testo ma anche del dattiloscritto. In quell’edizione (parziale e certamente non alternativa a quella cartacea che ora si offre finalmente alla lettura del più vasto pubblico) si rispettavano infatti anche la divisione in pagine dell’originale e la numerazione dei versi del Traduttore (correggendone in nota gli eventuali errori), si dava conto delle sue varianti e degli eventuali pentimenti e correzioni comprendendo fra parentesi quadre le sue aggiunte, si segnalavano fra parentesi uncinate o aguzze tutti gli interventi correttori del Trascrittore, conservandone tuttavia le particolarità anche grafiche[5]. Insomma, si trattava il dattiloscritto di Herlitzka con la massima acribìa filologica, come se ci si trovasse effettivamente di fronte a un codex unicus antico, meritevole di un’edizione scrupolosa, con un rispetto che l’impresa di Herlitzka effettivamente meritava. Nel far questo partecipavamo convintamente a quello “scherzo filologico” di cui parleremo distesamente più avanti, cioè la scelta di Herlitzka di presentare il suo testo come l’opera di un Anonimo trecentesco da lui casualmente ritrovata.

Confesso che prima di leggerlo, e poi incontrarlo, io sapevo solo (e solo per avere visto talvolta all’opera la sua arte) che Roberto Herlitzka è attualmente il più grande attore italiano[6]. E di Lucrezio, ormai annebbiate le reminiscenze liceali e universitarie, sapevo meno ancora. Ma forse mai come in questo caso la totale mancanza di informazione sulle motivazioni e le circostanze della creazione si rivelava del tutto irrilevante.

Questo testo poetico (come tutti i testi poetici?) veniva da lontano, nudo e solo, chiedendo solo di poterci parlare. E ci parlava. Il dialogo che segue aspira comunque a fornire qualche informazione in più al Lettore. (R.M.)

(Le circostanze della creazione)

Raul Mordenti: Caro maestro, puoi dirci qualcosa sulle circostanze della composizione. Come ti è venuto in testa di fare una cosa simile? Perché? Come? Quando?

Roberto Herlitzka: In realtà ho cominciato al Liceo (non ricordo più in quale anno si studiasse Lucrezio). Io avevo nelle orecchie Dante che amavo moltissimo, così mi venne quasi naturale provare a tradurre, tradurre in modo ancora giocoso e studentesco. Poi ho proseguito per molti e molti anni, negli intervalli di tempo, lunghi e a volte lunghissimi, del mio mestiere di attore.

Ma ho tradotto per me, senza pensare mai alla pubblicazione, sempre solo per me, per il piacere di farlo, perché un tratto narcisistico fa parte della mia persona, e infatti alla base del mestiere dell’attore c’è narcisismo (anche se molti miei colleghi si risentono di questa affermazione). Traduco per il piacere che è nella poesia, ad esempio nella rima che (quando è opera di un poeta) chiude nel modo giusto qualcosa che va chiuso proprio in quel modo, come succede in musica; anche se, ovviamente, c’è grande poesia senza rima.

Cominciai quasi da bambino a scrivere versi e – guarda un po’ – erano terzine dantesche e parlavano dell’altro mondo come questi che scrissi su un Garibaldi dannato a vagare, senza vista, del deserto:

(…) Io fui Garibaldi,

e libertà fu sempre dov’io ero

luce di Dio non ebber gli occhi baldi.

Quando l’anima il corpo stanco pose

Minos la diede al doloroso disco.

Somma giustizia gli occhi mi corrose,

nel gran diserto io grido. “Obbedisco”.

Ammettiamolo: non era facile trovare rime per “Garibaldi” e “obbedisco”! Ma ho tradotto anche Saffo[7], una poesia che a me sembra perfetta:

La luna è tramontata

le pleiadi sparite

mezzanotte è suonata

il tempo vola.

E io qui, stesa nel mio letto,

sola.

RM: Mi sembra una traduzione bellissima, direi che è molto meglio di altre anche illustri.

RH: E ho tradotto anche Catullo[8]:

Domandi che sia l’odio innamorato?

Non so, ma esiste. Io ne sono ammalato.

RM: Dunque hai scritto anche altro.

RH: Sì, tanta poesia, tutta inedita; tranne un solo libro uscito per una casa editrice di quelle che si fanno pagare per pubblicare un libro, un libro poi distribuito … a me stesso, con la prospettiva del macero (è il meccanismo che Umberto Eco descrive bene nel Pendolo di Foucault), tant’e vero che quel libro è ormai – ed è stato quasi subito – del tutto introvabile. Poi ho scritto anche i miei sogni, Ipnogrammi, in una collana neonata fondata da importanti letterate[9]; e da sempre scrivo poesie, tra cui molti sonetti.

Dunque in tutto questo, come vedi, Dante e la terzina dantesca non c’entrano. Io ho semplicemente pensato di divertirmi usando una lingua dantesca, che non costituisse un falso credibile ma aiutasse me a esprimere dei versi e soprattutto mi facesse godere di alcune espressioni del Trecento; usando quelle parole io provo un vero e proprio godimento, che chiamo nostalgia delle lingua italiana, una lingua che stiamo perdendo corrosa come è dall’abuso di anglofonie.

(Il rapporto con il modello di Dante)

RM: Tu hai detto che con la tua poesia il suo modello etico-politico di Dante non c’entra, e anzi hai insistito sul carattere gratuito, di gioco (come hai ripetuto) della tua operazione poetica. Mi permetto di contraddirti, e lo faccio con serenità perché sono convinto che l’artista non sappia tutto della sua arte, o – se preferisci – che la sua arte ne sappia più di lui; dunque l’interpretazione del lettore (o del critico) ha una sua legittima libertà, e la deve rivendicare, paradossalmente, anche nei confronti dell’auto-interpretazione dell’Autore.

Io (al contrario di ciò che tu dici di te, e te ne chiedo scusa) ho letto nella tua opera un’idea del fare poesia che deriva direttamente da Dante e che da lui riceve la folle, magnifica idea di parlare agli uomini, a tutti gli uomini senza eccezione (dato che “Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere”: Convivio, I, 1), e di parlare a loro di tutto, ma proprio di tutto, ivi compresa la scienza delle cose e la filosofia.

Per realizzare questo progetto/sogno di parlare a tutti e di tutto ti era dunque necessaria una lingua nuova, fosse anche da inventarsi, giacché la lingua che noi usiamo e abusiamo (la lingua trita e corrotta che tu definisci “dei media”) ti risultava – e giustamente – inutilizzabile, esattamente come il latino risultò inutilizzabile per Dante e il suo progetto/sogno. Quello che fu la lingua volgare per Dante, mi sembra dunque che sia per te la lingua antica/nuova che hai creato: una lingua che presenta un lessico trabordante di invenzioni, immaginosamente “trecentesco” ma fittissimo di novità, e che tuttavia è rivolta (anche se in modo misterioso) a una superiore e non banale comprensibilità universale. Proprio come scrive Leopardi lodando la lingua nuova di padre Bartoli: “(…) vi trovate in una lingua nuova, locuzioni e parole e forme delle quali non avevate mai sospettato (…) il lettore si maraviglia d’intender bene e perfettamente gustare una lingua che non ha mai sentito”.

Così la “lingua nuova” che hai sentito il bisogno di inventare, una contro-lingua necessaria per uscire dalle strettoie della nostra lingua impoverita e incapace di parlare, si presenta per paradosso come una lingua antica, quella di un “Anonimo trecentesco” (su cui torneremo fra poco): non sarebbe la prima volta che un passato immaginario si offre come unico scampo da un presente insopportabile e senza futuro.

Mi colpisce molto che, attraverso percorsi certo del tutto diversi dai tuoi, un grande latinista come Ettore Paratore era pervenuto alla stessa conclusione in merito al rapporto profondo che intercorre fra Lucrezio e Dante:

“Lucrezio è infatti il Dante della poesia latina. Come lui egli chiude un’epoca e ne inaugura un’altra. (…) In un’epoca come la nostra, tutta volta a considerare soprattutto l’anima della collettività, la figura dell’uomo della strada, la voce di Lucrezio può suonare particolarmente attuale: non per niente egli è l’interprete di una crisi che segnò a Roma il crollo delle élites e l’avvento di una civiltà di massa (…) Il carattere dantesco della poesia lucreziana trova la sua conferma suprema nei modi espressivi, nello stile. Il De rerum natura e la Divina Commedia sotto questo profilo costituiscono entrambi un unicum, in cui si misura l’eccezionale potenza delle due esperienze poetiche e spirituali.”[10].

Fra le cose che io ignoravo e ignoro di te c’è anche come tu voti (e se voti), cioè come tu la pensi contingentemente in politica; ma quello che ho letto nei tuoi versi e nella tua operazione (generosa, come si è visto, fino a sfiorare una certa produttiva follia) mi è sufficiente per dire che siamo di fronte a un gesto rivoluzionario, a cui non è estraneo l’accorato grido di Dante: “(…) finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis.” (“Il fine di tutta l’opera [la Comedia] e della parte [la terza Cantica] è togliere in questa vita i viventi dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità.” Epistola XIII, 39).

Togliere in questa vita i viventi dall’infelicità: non è forse questo il vero fine dell’arte, e specialmente dell’arte drammatica che è il tuo mestiere?

RH: Sì, solo se questo effetto agisce per primo su di me. Io non nego affatto di compiere un’operazione contro-corrente. Quello che io nego è che l’arte, e la poesia in particolare, possa essere utile per qualcosa (per esempio socialmente); su questo sono d’accordo con Oscar Wilde: “Lo scopo dell’arte è l’emozione fine a se stessa”. Quello che è utile è del tutto secondario, quello che conta davvero è che tu sia strumento, che tu faccia sentire al lettore, o al pubblico, le cose belle. Tradurre Lucrezio dava modo a me di esercitarmi in un’attività che mi donava piacere, sapendo di fare un gioco, o – se preferisci – di entrare in una specie di rapimento, di estasi, o semplicemente in una dimensione che sentivo consona a me, amante della poesia e della lingua. Riuscire a fare una poesia che a me sembri vera, questo mi basta. Non nego che anche altri possano goderne, dico solo che io non ci penso.

La lingua dunque è e deve essere la materia prima della poesia: quando traduco faccio completamente mio il testo, e posso fare questo perché lo trasformo. Non cerco di restituire l’opera nella sua forza originale ma come in me ha agìto, dunque più che una mediazione si tratta di un’esibizione di me, di me trasformato in quello che presento.

(L’attore come traduttore)

RM: Quello che dici mi permette di cogliere un nesso nuovo e fondamentale, che mi era finora sfuggito, quello fra l’arte dell’attore e l’arte del traduttore: anche il traduttore, esattamente come fa l’attore, fa ri-vivere il testo, gli permette di parlare nuovamente, e ogni volta di nuovo, e sempre. D’altra parte attore e traduttore non sono forse due specialisti e mediatori della parola?

RH: Su questo punto temo di doverti smentire: intanto perché non mi è mai venuto in mente che essere un attore avesse qualcosa a che fare con lo scrivere, ma soprattutto perché io ho sempre considerato l’attività dell’attore come un’attività assolutamente sola che non si dovesse complicare con altri tipi di (chiamiamola pure così) arte, come per esempio quella del regista; difatti io – pur riconoscendo che ci sono persone che riescono benissimo a fare entrambe le cose – nel mio caso non potrei mai fare il regista, perché sarebbero due modi di affrontare la vita, come artista, non solo diversi ma addirittura opposti, perché il regista è uno che guarda, e guardando poi restituisce quello che ha visto e sentito (naturalmente facendolo fare ad altri), mentre l’attore è quello che fa, e quindi sono due modi, uno contemplativo e l’altro attivo di darsi a questa vita. Siccome fra l’altro la mia indole probabilmente è più contemplativa che attiva, io avrei paura che se dovessi fare il regista magari lo farei meglio che l’attore, oppure che lo farei comunque in un modo esclusivo, che impegnerebbe tutta la mia attenzione.

RM: Per me è strano che tu leghi al concetto di regista, che sembrerebbe il simbolo stesso dell’attività, anzi dell’iperattività decisionale, quasi da demiurgo, il concetto di contemplazione.

RH: Sì, hai ragione: come attività è tutt’altro che contemplativa. Però la spinta, la radice, è quella di uno che le cose le guarda, le assimila, per poi restituirle. Anche l’attore lo fa, perché l’osservazione è importantissima per un attore, che quando vede qualcuno, continuamente, immagazzina dei dati; però è un modo diretto a un risultato attivo, non è un modo di vedere le cose. Io in qualche modo sono forse riuscito a conciliare le cose, sia la mia tendenza a pensare, a riflettere, che la mia voglia di fare. E la mia voglia di fare è assolutamente di origine narcisistica: io voglio fare perché voglio piacere, intanto voglio piacere a me stesso, che è la cosa più importante, e poi piacere agli altri. Poi a volte può capitare che accadano tutte e due le cose, e indubbiamente questa sarebbe la cosa migliore. E, devo dire, che a volte càpita. Se io mi mettessi a fare il regista, certamente non trascurerei tutta la parte attiva, ma la partenza sarebbe diversa. Questo è anche dello scrittore, se vogliamo: lo scrittore scrive la vita guardandola, e poi scrivendola; non vive insomma, scrive. Anche l’attore non vive, però vive in scena; è un modo forse di reazione a una mia pigrizia.

RM: Questo francamente mi convince di meno: deve essere una tale fatica il lavoro che fai… Ricordo il tuo Amleto, tu solo in scena a fare tutte le parti…

RH: Sì, sono tutte grandi fatiche; ma scrivere, forse, è ancora peggio.

RM: Torniamo, se me lo consenti, ancora indietro. Io paragonando attore e traduttore non mi riferivo affatto alla scrittura: mi riferivo alla centralità della parola, e alla necessità, o al piacere, di mediarla. Questo in fondo fa il traduttore e questo fa anche l’attore. A partire da un testo che di per sé è muto, che non parla, tu lo proponi attraverso una specie di traduzione nella oralità, che lo fa vivere e lo rivolge agli altri.

RH: Sì, questo può essere vero; però io forse uso un procedimento un po’ diverso, nel senso che io sia quando traduco, come in questo caso, sia quando recito faccio il testo completamente mio. Invece il mio scopo è di fare apprezzare agli altri il testo come lo sento io. Se ci riesco.

RM: Come lo hai letto, e come fatto tuo il testo di Lucrezio?

RH: Parola per parola, senza sapere il seguito, per scoprirlo e sorprendermi continuamente. Infatti Lucrezio spesso colpisce con immagini terribilmente presenti, come ad esempio quella di vari altri mondi oltre il nostro nell’universo. Naturalmente Lucrezio si dichiara un seguace che riferisce tutti i tesori della filosofia materialistica di Epicuro, che Dante – con tutto il rispetto – mette all’Inferno “con tutti i suoi seguaci / che l’anima col corpo morta fanno.” (Inf, X, 13-15).

(L’Anonimo trecentesco)

RM: Tu sei arrivato a dichiarare di aver scoperto il testo in una biblioteca, opera di un Anonimo che evidentemente aveva conosciuto Dante. Peraltro io posso testimoniare di aver assistito a persone adulte, colte e niente affatto ingenue che si lasciarono persuadere dalla tua convinta affermazione di aver ritrovato un manoscritto di Anonimo (e assistendo a questa capacità di persuasione di una storia del tutto assurda mi è capitato di pensare che non si è per nulla un grande attore…).

Questo scherzo filologico (chiamiamolo così) è stato inventato da te, ripetuto più volte ed è durato, si può dire, fino alla vigilia della presente edizione, che ha seriamente rischiato di essere pubblicata adespota, senza il nome dell’Autore. Ci puoi raccontare come nasce, e perché, questa idea dell’Anonimo trecentesco?

RH: L’anonimo era un modo di darmi il permesso di tuffarmi in un’epoca… Che poi fra l’altro l’Anonimo trecentesco sarebbe anche impossibile perché – come sai – il De rerum natura è stato scoperto nel Quattrocento. Mi piaceva l’idea che non si sapesse chi era l’Autore effettivo, anche perché io stesso avevo cominciato a convincermi che fosse quell’altro. Ma ormai è tardi.

(Il ri-suonare delle parole)

RM: Io credo che non sia un caso che nella tua poesia sia così importante il suono delle parole. Mi sembra questa la caratteristica peculiare della lingua che adotti, o per meglio dire inventi: i frequenti enjambements, le allitterazioni, un espressionismo fondamentale e diffuso ovunque, i vocaboli (e i verbi soprattutto) rari ed echeggianti Dante (c’è alla base una conoscenza straordinaria della Commedia, non solo del De rerum natura) ma spesso anche inventati, soprattutto a partire dai sostantivi, e sempre efficacissimi. Così, proprio come accade talvolta nel teatro più alto, qui è lo stesso suono che parla e significa in sé e per sé, senza necessariamente passare per la via lunga e dispersiva della traduzione della phoné in significati logico-verbali.

Non si può non notare, en passant, che anche la lingua di Lucrezio (per quello che ne dicono gli intendenti) è di questo tipo: una lingua ricca di durezze e di “palesi aporìe stilistiche e lessicali”[11], nonché di ripetizioni, una lingua arcaica o arcaicizzante ma piena di neologismi, che sovrabbonda (proprio come la tua poesia!) delle “figure di suono”, come le allitterazioni, gli omoteleuti, le consonanze e le assonanze, le onomatopee, etc.

Si pone inevitabile una domanda: c’è un rapporto fra questo culto della parola ri-sonante e la tua arte di attore? A me sembra che essa risuoni (è il caso di dirlo) nella tua traduzione. Così, più che in ogni altro caso, questa poesia chiede di essere letta ad alta voce e, si vorrebbe, letta dall’Autore/auctor/attore Herlitzka. Speriamo che l’edizione (anche se per ora solo cartacea: ma perché non pensare a una versione multimediale e a un DVD da allegare alla prossima edizione?) renda realizzabile questo auspicio.

RH: Perché no? Ho iniziato un’impresa del genere con il regista Enzo Aronica, che mi aveva già chiamato a leggere questi versi, ad esempio al Fontanone del Gianicolo di Roma. Ricordo di aver detto ai presenti che mi accingevo a leggere versi difficili, e che se volevano avrebbero potuto andarsene e nessuno si sarebbe offeso. In verità non se ne andò nessuno, anzi il pubblico tornò altre volte per sentire quel testo, segno che questa poesia misteriosamente funziona e arriva. E altre letture di versi del Rerum natura mi è capitato di fare in giro per l’Italia.

Ricordo anche una recente esecuzione di questi versi, letti da me, alternati (in un “melologo”) con musiche originali composte per l’occasione sui miei versi da Ivan Vandor, Lamberto Macchi, Matteo D’Amico, Enrico Marocchini, ed eseguite dall’Orchestra Sinfonica Abruzzese per la direzione dello stesso Enrico Marocchini al Festival dell’Aquila diretto da Luca Gregoretti e al Teatro Vittoria di Roma. Fu una bella esperienza di cui sono grato al gruppo di “Nuova Consonanza”, anche se penso che la poesia e la musica possano come in questo caso alternarsi, senza sovrapporsi, perché poesia e musica sono già di per sé armonie generanti. Per questo dico di no alla proposte, che talvolta mi vengono, di leggere poesia con uno sfondo di accompagnamento musicale, quale che sia.

In conclusione debbo ringraziare per questo libro naturalmente Elisabetta Sgarbi che mi ha fatto salire sulla nave di Teseo e accanto e non meno di lei il professor Raul Mordenti che mi ha promosso e sostenuto fin qui come nessun altro.

Ma prima di loro hanno avuto attenzione al mio testo molte persone tra cui: il filosofo e poeta Alberto Gianquinto, il Rettore dell’Alma Mater professor Ivano Dionigi che me l’ha fatto leggere in pubblico per la prima volta, il professor Emilio Pasquini che ne ha detto parole bellissime, il professor Federico Condello, il regista Enzo Aronica, Giorgio Pressburger, Antonio Calenda (che lo ha proposto in più di una occasione), nonché per una sua recensione ad una mia lettura il grande musicologo Paolo Isotta.

(R.H.)

  1. «Lucretii poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingenii, multae tamen artis» (le poesie di Lucrezio sono, come tu scrivi, dotate di molti lumi di ingegno e tuttavia di molta arte), Cicerone, Ep. ad Quintum fratrem, II 9.
  2. «carmina sublimis tunc sunt peritura Lucreti / exitio terras cum dabit una dies» (I versi del sublime Lucrezio periranno solo quando tutta la terra sarà distrutta in un solo giorno), Amores 1, 15, 23. 
  3. Cfr. http://lettere.biblio.uniroma2.it/. La Biblioteca dell’Area Letteraria, Storica, Filosofica dell’Università di “Tor Vergata” si trova a Via Columbia, 1, 00133 Roma; è diretta dalla Dott.ssa Maria Carmela Violante (tel. +39 06 7259.5226, Fax +39 06 7259.5178-5238, Lettere@biblio.uniroma2.it).
  4. Cfr. http://testoesenso.it. Sono uscite in quella rivista (disponibile on line, ovviamente gratis) parti dell’opera di Herlitzka/Lucrezio. Prima, nel 2006: Trascrizione informatizzata della traduzione compiuta da Roberto Herlitzka in terzine dantesche del ‘De rerum natura’ di Lucrezio, a cura di Raul Mordenti [Introduzione, Legenda e trascrizione del Libro I], in “Testo e Senso”, n.7 (2006): http://testoesenso.it/article/view/293/; inoltre: Presentazione di Roberto Herlitzka di Alberto Gianquinto, Ivi: http://testoesenso.it/article/view/294/. E poi, nel 2009, sempre a cura di chi scrive: Libro I – Trascrizione informatizzata della traduzione compiuta da Roberto Herlitzka del ‘De rerum natura’ di Lucrezio. Versione aggiornata, in “Testo e Senso”, n.10 (2009) : http://testoesenso.it/article/view/104/; Libro II – Trascrizione informatizzata della traduzione compiuta da Roberto Herlitzka del ‘De rerum natura’ di Lucrezio. Versione aggiornata, Ivi: http://testoesenso.it/article/view/105/; Libro III – Trascrizione informatizzata della traduzione compiuta da Roberto Herlitzka del ‘De rerum natura’ di Lucrezio. Versione aggiornata, Ivi: http://testoesenso.it/article/view/106/; Libro IV – Trascrizione informatizzata della traduzione compiuta da Roberto Herlitzka del ‘De rerum natura’ di Lucrezio. Versione aggiornata [solo fino al v. 601], Ivi: http://testoesenso.it/article/view/478/.
  5. Infine segnalo qui solo in nota una circostanza che a me pare tutt’altro che secondaria (anzi ormai doverosa) in un’edizione informatica: offrendo al Lettore un testo digitalizzato scrupolosamente si permetteva a chiunque volesse farlo di compiere sul testo ulteriori indagini consentite e sostenute dall’informatica, come spogli linguistici, statistiche, concordanze etc. e tutte le possibilità che la fantasia concreta del ricercatore vorrà e saprà inventarsi in futuro.
  6. Mi sembra tuttavia utile riportare qui cosa scriveva Alberto Gianquinto nella sua citata Presentazione di Roberto Herlitzka (in “Testo e Senso” del 2006): “Un’opera, che ha insieme il sapore delle grandi imprese che nascono dilettantesche e sono invece d’una serietà quasi si trattasse dell’unico impegno nella vita. Il modello dantesco, del tutto immaginario, è stato la spinta, per aggirarsi poi per tutto il linguaggio della poesia italiana, in particolare per quella due-trecentesca. Ne nasce un gergo personale, unico, dove tuttavia, parola per parola, rimane centrale l’attenzione all’invenzione e allo stile di Lucrezio. Herlitzka si muove per quest’impresa con i semplici strumenti di una traduzione scolastica, di un rimario, dei dizionari latini, italiani, dei sinonimi e di quello della Divina Commedia di Siebzenher Vivanti e infine di un vocabolario etimologico. Ogni espressione viene così a trovare legittimazione in questi libri. Nel dare ragione del suo lavoro, Herlitzka vorrebbe dire «che si tratta del vizio solitario e narcisistico ma non alieno da esibizionismo di uno sviscerato amante delle parole della nostra lingua, che si reclude con esse fuori dal mondo circostante, dove una sorda ebetudine le ignora e cancella». Che dire di più su questa straordinaria figura di poeta?”.
  7. Il Frammento 168 B V.
  8. Odi et amo (carme 85).
  9. R. Herlitzka, Ipnogrammi, Roma, Cooperativa Prove 10, 1973.
  10. E. Paratore, Introduzione a: Lucretii, De rerum natura. Locos praecipue notabiles collegit et illustravit Hector Paratore, commentariolo instruxit Hucbaldus Pizzani, Romae, in Aedivìbus Athenaei, MXMLX, , pp. 49, 51.
  11. U. Pizzani, Il problema del testo e della composizione del De rerum natura di Lucrezio, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1959, p. 165.

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