Recensione a: Alessandro Portelli- Bruno Bonomo – Alice Sotgia – Ulrike Viccaro, Città di parole. Storia orale di una periferia romana, Una ricerca del Circolo Gianni Bosio, Roma, Donzelli Editore, 2006, pp. 245, Euro 21, 90.
Alla vigilia delle elezioni per il Comune di Roma esce un libro la cui lettura dovrebbe, a mio parere, essere resa obbligatoria per tutti i candidati a Sindaco o a Consigliere.
Parliamo della storia orale di Centocelle, un quartiere popolare cruciale nella nostra città, un luogo forte della Resistenza romana e anche di un formidabile insediamento sociale del PCI, lo scenario di alcune delle più importanti lotte sindacali e popolari ma anche sede di un importante teatro a cui lavorò per anni Dacia Maraini, di una parrocchia assai vivace e di una moschea affollata, di numerose esperienze dei gruppi della sinistra extraparlamentare e del centro sociale forse più importante di Roma (Forte Prenestino), luogo di uno dei più problematici insediamenti di Rom e origine di alcuni quadri poi finiti nelle BR, nonché, da qualche anno (dopo che la presenza fascista era stata impedita per decenni) culla di un’inquietante presenza neo-fascista. Insomma: Centocelle può essere considerato come uno spaccato e un laboratorio di tutta la città e, in particolare, della sua immensa semi-periferia.
Il libro è il frutto di una équipe di giovani ricercatori e ricercatrici coordinato da Sandro Portelli (la sua capacità di “fare scuola” non è l’ultimo dei pregi di questa straordinaria figura di studioso e di militante). Appartiene ai meriti del Municipio di cui Centocelle è parte (Roma VII), e in particolare del suo Assessore alla Cultura Elisabetta Aloisi, aver favorito questo libro, perché non c’è riscatto possibile senza memoria, e la rivendicazione del diritto alla memoria non è l’ultima, né la meno sovversiva, delle lotte popolari. La storia collettiva e orale è sostenuta nel libro da dati economici, e anche urbanistici e sociologici, che rendono la ricostruzione più completa ed esauriente.
C’è sempre un preciso corrispettivo fra la metodologia e l’oggetto della ricerca, e come la Storia con la maiuscola degli storici accademici dava luogo (e non poteva fare altro) a un racconto rettilineo, verticale, autocentrato sui soggetti forti (cioè sul potere), così la storia orale dà luogo invece ad una rappresentazione mobile, contraddittoria, pluricentrica, e (quel che più conta) direttamente partecipata dai protagonisti e dalle protagoniste; insomma una storiografia adeguata al suo oggetto, che non è banalmente il quartiere bensì le donne e gli uomini che lo hanno abitato e costruito, e le loro voci. Viene in mente Gramsci, che in una delle ultimissime lettere al figlio Delio scrive: “Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa.” (A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Torino, Einaudi, 1965, p. 895).
Ecco, una storia che “riguarda gli uomini viventi (…) quanti più uomini è possibile” è l’esatto contrario di quella “storia dei vincitori” che faceva orrore a Walter Benjamin, quella storia (e quella cultura) che “deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni (…), ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei”. È questo il motivo per cui quella storia (e quella cultura) secondo Benjamin: “Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie.” (W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p.31, Tesi VII).
Un particolare che sembra trascurabile e che a me appare invece, in questa prospettiva, della massima importanza: i protagonisti e le protagoniste dei fatti (e del racconto) cessano qui di essere senza nome, per ciascuna testimonianza è infatti riportato in calce il nome dell’Autore: essere privi di nome, di potere e di storia (cioè di racconto) sono tre aspetti di un medesimo asservimento, ma dunque la rottura operata dagli Autori del libro è della massima importanza politica, non solo culturale; e in questo senso l’accurato prospetto dei Narratori e l’Indice dei nomi, che concludono il libro, non vanno intesi solo come prova dell’accuratezza scientifica del lavoro (così come ci deve far molto riflettere il fatto che alcuni testimoni, se non mi inganno specie donne e donne immigrate, abbiano scelto di usare pseudonimi).
Viene così restituito il nome ai veri protagonisti della nostra liberazione collettiva, ai nostri veri eroi (e non intendo riferirmi solo alla Resistenza ma alla quotidiana, molecolare, silenziosa, sotterranea lotta per l’emancipazione collettiva). Ne cito due per tutti: sono due ex partigiani, ricordati per essere stati “di una dolcezza e di una mitezza incredibile”, Nino Frezza e Pina Abbiati. Del primo veniamo a sapere che: “Era un personaggio mitico perché faceva lo straccivendolo; ha fatto il capo partigiano e dopo non è andato a fa’ il deputato, ha fatto lo straccivendolo, finché è morto. Quello se voleva faceva il deputato, il consigliere comunale, qualunque cosa. Ma perché lo stracciarolo? ‘Ho fatto la Resistenza, mo’ faccio lo stracciarolo’ (…)”. La seconda, piacentina, è “la figura femminile della Resistenza”: “Togliatti se la voleva portare a fare la responsabile femminile, dopo la guerra, in direzione, e lei ha risposto: ‘No, il mio posto sta qua, in mezzo alla gente’ (…) “. Entrambi finiscono i loro giorni in miseria, aiutati, ma contro la loro volontà, dall’assistenza domiciliare del Comune. E a Frezza, in dissenso radicale col Partito, viene negato dall’ “Unità” anche un necrologio: “È morto di notte e col passaparola ci siamo ritrovato una trentina di compagni, tutti ai funerali de Nino Frezza.”. Naturalmente (come sempre accade nella storia orale) ciò che conta non è tanto la meccanica veridicità dei fatti (cioè se davvero Frezza poteva essere deputato o se davvero Togliatti in persona abbia rivolto l’invito a Pina Abbiati) quanto che questi compagni vengano tuttora ricordati così. Anche il racconto e la memoria sono fatti, e della massima importanza.
Una piagnona storia dei vinti, allora? O una storia apologetica della perfetta autonomia del popolo? Una manichea contro-storia di proletari rivoluzionari privati della rivoluzione? Leggere così questo libro sarebbe l’errore più grave, un vero tradimento della preziosa operazione culturale compiuta da Portelli, Bonomo, Alice Sotgia e Ulrike Viccaro che consiste anzitutto nel restituirci la complessità. Il popolo di Centocelle è infatti complesso, variegato al suo interno, spurio, contraddittorio, contiene proletariato (nella sua continua evoluzione) e piccola borghesia, comunisti del PCI, esperienze della nuova sinistra, estremisti poi terroristi, cattolici, democristiani e anche fascisti, ha al suo interno atteggiamenti di magnifica solidarietà ma anche di diffidenza e di ostilità per il diverso, e così via. Ora tutto lo sforzo (e la gloria) della politica proletaria è stato proprio ricomporre queste diversità, e, a partire da queste e senza negarle, saper costruire un popolo e una classe, a ricordarci che l’esistenza della classe è sempre il portato di una lotta, non mai un dato di partenza. Credo che si possa leggere alla luce di questo problema tutta la storia che ci viene raccontata, dai primi sforzi degli anni duri del fascismo fino alla terribile nuova disgregazione sociale degli anni di Craxi, del consumismo, della droga, di Berlusconi e della televisione (“con la televisione siamo diventati tutti figli unici”). La necessità della lettura di questo libro in vista delle prossime elezioni comunali (da cui siamo partiti) consiste proprio in questo, nel costringerci a capire che il problema che abbiamo di fronte è ancora e sempre questo: come inventare un popolo e una classe a partire dalla grande disgregazione sociale indotta dal capitalismo.
È un problema che le generazioni della sinistra che ci hanno preceduto hanno saputo risolvere in qualche modo, e rispetto al quale noi sembriamo invece miseramente fallire.
Roma, 1 maggio 2006 Raul Mordenti
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