Riv d’Ottobre x Convegno di Futura Umanità 20-9-2017

Convegno di “Futura umanità”, Roma, Villa Mirafiori, 28-9-2017

Intervento di Raul Mordenti[1]

1. Quando parliamo dell’Ottobre noi stiamo in realtà parlando di una narrazione, una narrazione e un immaginario che hanno sostituito con la loro potenza il fatto, e che hanno contato enormemente nella vita e nella storia del movimento operaio.

Credo che di una tale sostituzione sarebbe bene essere coscienti.

Come dice il critico indiano-statunitense, Homi K. Bhabha, teorico del post-coloniale, nel suo importante libro Nazione e narrazione (traduzione italiana da Meltemi 1997) le nazioni sono anche, o soprattutto, narrazioni, sono cioè frutto di pratiche discorsive decisive per costruire ciò che i gramsciani chiamano “egemonia”. Questo vale per le nazioni ma vale tanto più per i partiti e per i movimenti.

2. Certo, esiste un fatto, o piuttosto un insieme di fatti, definibili “rivoluzione in Russia, o piuttosto a Pietrogrado, dell’ottobre 1917”, che è prevalentemente affare degli storici; ma quello che ha contato politicamente è stata la narrazione dell’Ottobre e la forza che essa ha assunto per alcune generazioni di proletari e di comunisti in tutto il mondo (di tali generazioni la mia è senza alcun dubbio l’ultima).

La forza straordinaria della narrazione dell’Ottobre era direttamente proporzionale alla debolezza della nostra conoscenza storica: la nostra bibliografia (o almeno la mia, ma credo di essere abbastanza tipico) sull’Ottobre erano due o tre libri: il Carr (solo il primo volume 1917-23) pubblicato da Einaudi nel 1964 ma che risaliva al 1950, I dieci giorni di John Reed (più tardi accompagnato dal film Reds con Warren Beatty e Diane Keaton del 1982), forse La storia della rivoluzione russa 1917-1921 di Chamberlain (pubblicato da Einaudi nel 1966, che risaliva addirittura al 1935), e molto probabilmente due libri, per diversi motivi, bellissimi, la Storia della rivoluzione russa di Trotzkj, tradotta dal nostro caro compagno Maitan (uscito in due volumi per gli Oscar Mondadori nel 1969) e la Storia del Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS di Stalin, che solo i compagni meno giovani hanno letto ma su cui si formarono milioni e milioni di comunisti in tutto il mondo.

Se non mi sbaglio, era tutto qui il nostro patrimonio di conoscenze, più qualche saggio sparso qua e là sulle riviste: francamente, poca roba.

3. Come accennavo: la conoscenza è stata però sostituita dalla narrazione e dall’immaginario, questi sì fortissimi, diffusi, radicati.

Una narrazione e un immaginario che parlavano di lunghi fucili e di lunghi cappotti, di neve e di sangue, di folle arringate direttamente dalla viva voce di Lenin, dei Romanov passati (assai giustamente) per le armi, di comunisti in divisa e con strani cappelli, sempre di corsa, insomma quello che si riassume nell’immagine dell’ “assalto al palazzo d’Inverno”. E tutto era decisamente in bianco e nero, per influenza dei film di Eisenstein.

Quella narrazione rappresentava la rivoluzione quasi come un momento, un atto fortemente centralizzato, essenzialmente militare, frutto della volontà di un’avanguardia ristretta, cosciente, organizzata, se non addirittura di un uomo solo, di un demiurgo geniale, Lenin.

È davvero incredibile, e increscioso, come riaffiori anche[2] nella sinistra ex-comunista (e sia riaffiorata qui fra noi) questa nostalgia del demiurgo, che affonda le sue radici in una precisa tradizione di cultura politica italiana, quella elitista e antidemocratica dei Mosca e dei Pareto; è come se la terribile crisi del movimento operaio italiano, sommandosi a personalissime depressioni e disorganicità, riconducesse alcuni compagni alla teoria politica quale era prima della nascita dello stesso movimento operaio. Ma questo rimpianto del demiurgo è pericolosissimo: se in passato ha potuto condurre alla tragedia del culto della personalità, oggi ha potuto condurre alla farsa di sostenere Renzi e di votare la sua devastante riforma della Costituzione.

Si noti che nella narrazione della rivoluzione come atto di un’avanguardia convergevano in un certo senso sia la destra che la sinistra: gli anticomunisti per descrivere un fatto ristretto, minoritario, violento; i comunisti per sottolineare i meriti dei propri leader (cambiava il nome del vice-demiurgo, Stalin per alcuni, Trotzkj per altri). Soprattutto quella narrazione sembrava legittimare con tali precedenti ogni leadership dei partiti comunisti agli occhi della base militante e delle masse: se il gruppo dirigente bolscevico aveva visto così lontano e aveva condotto il proletariato alla vittoria, allora questo legittimava l’obbedienza anche all’ultimo piccolo lenin del più sperduto partito comunista.

Questo immaginario per decenni è stato al tempo stesso sia il terrore dei dominanti e dei borghesi (ricordate: i cavalli cosacchi abbeverantisi alle fontane di piazza S. Pietro?) e sia la speranza degli oppressi e dei proletari (“e noi faremo come la Russia/ e suoneremo il campanel / falce e martèl”, che nel popolo della mia città, Roma, prese la forma dell’invocazione “Addavenì baffone!”).

4. Tuttavia anche gli immaginari hanno una loro evoluzione e una loro storia, ed è importante notare cosa ne sia stato dell’immaginario di cui parliamo: è scomparsa totalmente la speranza presso i proletari oppressi, direi senza lasciare traccia, invece è ancora ben vivo il terrore nell’immaginario dei dominanti, se è vero che i politici della borghesia (di ogni schieramento, sia di destra che di sinistra) evocano tuttora lo spettro del comunismo e lo usano per dare del pericoloso comunista a personaggi come Occhetto, D’Alema, Bersani, Bertinotti etc.

Comunque, nel tempo della storia, anche il ruolo e il significato politico dell’immaginario possono mutare di segno, e il rosso si può trasformare in nero, il positivo in negativo; così anche quell’immaginario proletario dell’Ottobre, che è stato a lungo un fattore di autonomia, di speranza, di liberazione, è diventato (credo non da oggi) un fattore di conservazione e di passivizzazione delle masse.

Io oso dire – con una brutalità che spero mi sia perdonata anche in ragione dell’esigenza di brevità – che poche cose quanto la narrazione dell’Ottobre di cui abbiamo detto si sono opposte con tanta efficacia alla rivoluzione in Occidente e anzi hanno impedito non solo di farla ma perfino di pensarla.

Perché se la rivoluzione comunista era quella cosa lì, se l’Ottobre era anzi l’esempio a cui ispirarci in tutto il mondo, se quello era il paradigma della rivoluzione, beh, allora ecco che la rivoluzione diventava davvero impossibile nelle nostre società, del tutto impensabile, anzi addirittura impronunciabile.

5. Non è stato così? Chi di noi osa pronunciare, senza accompagnarla almeno con un sorrisetto di scuse, la stessa parola “rivoluzione”?

Naturalmente qualcuno ha potuto pensare di uscire da questa impasse semplicemente attraverso l’abbandono o il rinnegamento di ogni idea di rivoluzione (faccio notare che, paradossalmente, anche chi compiva questa scelta identificava la rivoluzione comunista con il modello dell’Ottobre, come se non ce ne fossero altri, e dunque abbandonare l’Ottobre sovietico significava per loro abbandonare tout court ogni idea di rivoluzione e di comunismo). È la strada percorsa per primo, e con maggiore coerenza, da Achille Occhetto, ma da tanti e tanti e tanti dopo di lui.

L’esito vergognoso di queste reiterate esperienze (che non meritano neanche di essere contate), tutte inevitabilmente sfociate nel corrompimento opportunistico, dimostra che senza un progetto vivo e operante di rivoluzione non esiste, e non può esistere, una politica comunista degna di questo nome.

Dunque credo che per noi non sia possibile abbandonare, come se la cosa non ci riguardasse, la rivoluzione d’Ottobre, ma occorre invece ri-pensare la rivoluzione (dove “ripensare” significa due cose: tornare a pensarla, e pensarla da capo in modo del tutto nuovo). E per farlo occorre superare il paradigma immaginario dell’Ottobre di cui abbiamo finora parlato.

6. Noi comunisti italiani abbiamo (o piuttosto: avremmo) un vantaggio, cioè il pensiero di Gramsci, che allude a un’idea di rivoluzione del tutto originale, che delinea un paradigma fondato sul protagonismo delle masse, sulla democrazia proletaria, sulla partecipazione, sull’autogoverno, sull’egemonia da costruire diffusamente, articolatamente, processualmente.

Sembrerebbe questo quasi il contrario dell’Ottobre, in realtà è solo il contrario della narrazione sulla rivoluzione d’Ottobre che abbiamo poc’anzi descritto.

Dunque oggi è doveroso (ed è possibile) decostruire quell’immaginario e quella narrazione dell’Ottobre; e in questo lavoro la ricerca storica può aiutarci molto.

Da profano della storia, confesso di essere rimasto molto colpito da un libro di Alexander Rabinowitch[3] che Feltrinelli ha ripubblicato recentemente nella sua universale economica. Nella prefazione Rabinowitch afferma cose di grande interesse, cioè confessa di essere stato da sempre assai ostile alla rivoluzione, anche perché figlio di emigrati in fuga dal bolscevismo, e di aver quindi concepito a lungo la rivoluzione come un putsch violento e avanguardistico (insomma come corrispondente all’immaginario di cui abbiamo detto), ma di aver poi cambiato sostanzialmente idea studiando da storico i fatti e gli atti, soprattutto dopo aver avuto accesso diretto a fonti storiche decisive (come i verbali delle riunioni) rimaste a lungo inaccessibili.

La rivoluzione gli è apparsa così sempre più come un processo e, soprattutto, gli sono apparse decisive la “flessibilità” della struttura comunista “e la sua immediatezza nell’interpretare le rivendicazioni delle masse” (Op. cit., p.17), così come il partito gli è apparso dotato di “una struttura (…) decentrata, flessibile, democratica” e dotato di “uno stile operativo che nel 1917 tendeva a rendere gli organismi (…) del partito reattivi all’evoluzione dell’umore popolare” (ivi, p. v).

L’immagine della rivoluzione d’Ottobre cambiava completamente; faccio notare che se anche l’Ottobre era stato un processo, allora veniva messa in discussione anche la differenza sostanziale che avevamo per anni creduto di cogliere fra quella che ci appariva la concezione leninista della rivoluzione e quella gramsciana, per cui la prima sarebbe stata caratterizzata dall’immediatezza dell’atto rivoluzionario e solo la seconda da processualità democratica.

In quest’ottica cambiava completamente il ruolo del partito e della sua leadership. Altro che frutto istantaneo di un’avanguardia! Altro che Lenin demiurgo!

7. E infatti è sempre più chiaro che le cose non andarono affatto come la nostra narrazione (coincidente, come detto, con quella degli anticomunisti) ci aveva raccontato.

Mi limito a citare alcuni punti (con una sommarietà di cui mi scuso):

i) anzitutto, a proposito di processualità, la rivoluzione d’ottobre non è affatto isolata ma essa è dentro un processo che (se non vogliamo risalire al 1905) inizia almeno con la rivoluzione di febbraio (che sarebbe ora chiamare con il proprio nome: “la rivoluzione dell’8 marzo”, legata come fu a questa combattiva festa delle donne!). Sempre a proposito della processualità della rivoluzione (un concetto che appare decisivo) sarebbe bene parlare di rivoluzioni russe, al plurale, perché la effettiva direzione di Lenin al governo dell’URSS fu cosa assai diversa dal progetto di dittatura del proletariato e dalla distruzione dello Stato teorizzata in Stato e rivoluzione, e soprattutto la NEP fu davvero un’altra cosa, del tutto inedita e nuova. E poi l’industrializzazione forzata fu ancora tutta un’altra cosa rispetto alla NEP, e così via. Non per caso ognuno di questi passaggi (io direi di queste diverse rivoluzioni in successione) segna rotture drammatiche nel gruppo dirigente bolscevico, rotture che non si capiscono affatto se non si considera questo succedersi drammatico di diverse urgenti scelte. Anche il problema della democrazia è legato a tali scelte, giacché – per dire solo una cosa, ma fondamentale – una politica come l’industrializzazione forzata non si può fare (e in un paese di contadini!) senza un livello molto alto di coercizione, una coercizione che peraltro caratterizzò il processo d’industrializzazione, durato secoli anche, nell’Europa capitalista. Ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema di oggi.

ii) Anche limitandoci a considerare la rivoluzione nel periodo dal febbraio all’ottobre, è sempre più evidente che non vi fu nulla di lineare e quasi nulla di progettato dall’avanguardia illuminata e demiurgica nel succedersi di almeno quattro fasi: il compromesso del febbraio, la rivolta di luglio, il tentativo di Kornilov, l’Ottobre.

I soviet, lo sappiamo bene, non furono affatto un’invenzione dei bolscevichi e anzi questi si trovarono quasi sempre in minoranza. Ancora al I Congresso panrusso a giugno 1917 si contavano 533 menscevichi, 105 bolscevichi.

La parola d’ordine “Tutto il potere ai soviet!” è da Lenin prima accettata (accettata, non inventata), poi negata, poi difesa contro l’insurrezione di luglio che fa tutt’altro (a cui l’ “Organizzazione militare bolscevica” partecipa, – si noti – contro il parere di Lenin e del Comitato Centrale), poi è di nuovo assunta e praticata contro Kornilov, poi Lenin insiste invece sull’idea di una presa del potere dei soli bolscevichi, un’idea questa che sostiene fino in fondo, ma senza che il Partito lo segua. Infine la parola d’ordine “Tutto il potere ai soviet!” è messa in atto, ma assai contraddittoriamente, perché il potere è preso sì dal II Congresso panrusso dei Soviet di Pietrogrado e non dai bolscevichi, ma il primo Governo rivoluzionario è un monocolore bolscevico (nonostante che Lunaciarskij, a nome dei bolscevichi, avesse accettato l’idea di un Governo di coalizione a cui sono i menscevichi di Martov a dire di no).

iii) La prima cosa che nel fuoco di verità della lotta rivoluzionaria smentisce la teoria è – non a caso – il modello di partito descritto dal Che fare? In pochi mesi il teorizzato Partito ristretto, verticale e d’avanguardia prima passa da 2.000 iscritti a 6.000 e poi ha già 80.000 iscritti alla Conferenza d’Aprile, infine a settembre si contano 32.000 iscritti solo a Pietrogrado (dunque il partito ha aspetti di un vero partito di massa); fra i neo-iscritti c’è anche un certo Trotzkj che diviene membro del Comitato Centrale a maggio non seguendo certo la trafila prevista dal Che fare?

Ma c’è di più: dei dissensi e della disobbedienza dell’ “Organizzazione militare bolscevica” a luglio si è detto, ma Kamenev e Zinoviev restano fino all’ultimo contrari alla presa del potere, votano contro e anzi rivelano il progetto alla stampa. Lenin ne chiede l’espulsione, del tutto invano. Kamenev anzi viene eletto a presiedere il nuovo Comitato esecutivo del Soviet. Lo stesso vale per Zinoviev, che sarà successivamente nominato addirittura segretario dell’Internazionale Comunista.

Per non dire del programma del Partito: la cruciale questione delle terre è risolta da Lenin con la semplice accettazione del programma dei social-rivoluzionari (assai diversa da quella dei bolscevichi) ed è una scelta (geniale) che Lenin compie, per dire così, direttamente in assemblea. Ma se parliamo di programma del Partito non possiamo nasconderci che esso era e restò quello di una rivoluzione che avrebbe dovuto svolgersi, sia pure a cominciare dalla Russia, in tutta Europa, cioè in Germania (per questo i bolscevichi continuano a guardare, sopravalutando enormemente i fatti, a una rivolta in Finlandia, a un reggimento che si ribella in Germania, a uno sciopero in Inghilterra, etc.). Quello che poi successe davvero non solo non era affatto parte del programma dei bolscevichi, ma anzi non era da loro neanche lontanamente previsto.

iv) Il ruolo di Lenin è certamente decisivo, prima dell’Ottobre e direi più ancora dopo l’Ottobre, nei primi strepitosi passi che il Governo deve compiere. Ma nelle giornate dell’Ottobre propriamente dette Lenin praticamente non c’è. Arriva alla fine di settembre dalla Finlandia, e poi resta assolutamente clandestino. Scrive ripetutamente al Comitato Centrale sostenendo con forza la necessità di un’insurrezione dei soli bolscevichi che preceda la riunione del II Congresso pan-russo dei Soviet, ma il partito non gli dà retta (per fortuna, direi) e anzi brucia le sue lettere, pubblicando suoi testi precedenti, di quando egli era a favore della parola d’ordine “Tutto il potere ai soviet!”. Resta per me – ripeto: profano – come un’illuminazione folgorante l’immagine di Lenin che la sera del 24 ottobre – contro la decisione del Comitato Centrale – se ne va dalla casa dove era nascosto, lasciando un biglietto sul tavolo della cucina (“Vado dove non mi vogliono”) e in tram, con la parrucca e senza barba, raggiunge lo Smolny, dove ha molte difficoltà a entrare, e dove dormicchia in una stanza su alcune coperte (attesta Trotzkj) mentre nel salone succede di tutto, ma senza di lui.

v) Quanto alla violenza rivoluzionaria: l’assalto al palazzo d’inverno praticamente non ci fu: Kerensky era già scappato su una macchina (americana), gli altri si arresero senza combattere; e in totale in quella giornata i morti furono 6 (meno dei morti di lavoro in Italia in due giorni). La forza militare dei rivoluzionari fu certo decisiva ma fu dai bolscevichi più esibita che usata, come sempre accade quando la forza è vera, ed essa derivava per intero dalle precedenti rivoluzioni dei marinai e dei soldati (di nuovo: il carattere decisivo della processualità). La vera forza, come sempre, era politica: “Basta con la guerra!” “Pace senza indennizzi e senza annessioni!”, “Terra ai contadini!”, “Tutto il potere ai soviet!”; era davvero difficile per il potere trovare chi sparasse contro un simile programma.

8. Non voglio banalizzare, con questi sporadici esempi, e tantomeno negare la straordinarietà di quel primo assalto al cielo, dopo il quale nulla resta nel mondo uguale a prima.

Ma il problema è: in cosa consiste per noi, oggi, la lezione dell’Ottobre?

Io credo che la rivoluzione d’Ottobre segna in modo irreversibile un’epoca e la definizione di questa epoca è tutta nella frase di Gramsci: “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere”.

I critici dell’Ottobre, e in generale gli apologeti del capitalismo, dimenticano il vero contesto che spiega la rivoluzione e la sua incredibile vittoria, e questo contesto è la guerra, la guerra mondiale, la guerra interimperialista, la guerra di tutti contro tutti, la guerra infinita; la guerra descritta da Lenin nella sua opera l’Imperialismo, come fase suprema, e finale, del capitalismo. E poi la guerra delle potenze capitaliste che accolse subito, aggredendola, la Russia rivoluzionaria. Un piccolo particolare che le ricostruzioni borghesi di questi giorni (chissà perché?) dimenticano del tutto, e che invece spiega molte cose dei successivi sviluppi della rivoluzione.

Il punto centrale è che capitalismo non è assolutamente in grado di porre fine alla guerra, e infatti dal 1914 in poi la ripropone di continuo dal suo stesso seno, ma la guerra è tale da porre fine all’umanità. Deriva da qui il bivio storico: o socialismo o barbarie.

È solo la rivoluzione in Russia che pone fine ai massacri della I guerra mondiale, che altrimenti sarebbe proseguita chissà fino a quando; e il nazismo può anche essere letto storicamente come il prezzo che l’umanità ha pagato per la sconfitta della rivoluzione in Germania (analogo ragionamento si può fare per il fascismo e l’Italia); ed è solo l’URSS che permette la sconfitta del nazismo nella II guerra mondiale.

Anche oggi è solo il socialismo del XXI secolo l’alternativa alla catastrofe a cui il capitalismo va incontro, a forza di guerre, di crisi ambientali di crisi umanitarie di crisi economiche e sociali, etc. Il fatto è che solo con la guerra il capitalismo può distruggere capitale, ma senza intaccare il proprio potere, e così può prolungare la crisi (al tempo stesso di sovra-produzione e di sotto-consumo) che caratterizza la sua lunga agonia.

La guerra, che è solo un nome del carattere catastrofico del capitalismo, è dunque non solo il contesto storico della rivoluzione ma la dimostrazione della sua necessità e della sua attualità, nel senso del suo essere all’ordine del giorno oggi e qui, storicamente necessaria.

9. Faccio notare che se usciamo dalla narrazione deformante di cui ho detto, la prima conseguenza che ne deriva è che si rovescia il ritornello sulle cosiddette “condizioni oggettive” e “soggettive” della rivoluzione che ha paralizzato per decenni i comunisti. Ci è stato detto per decenni che le condizioni oggettive impedivano di fare la rivoluzione (ma in realtà le condizioni oggettive impedivano solo di fare come in Russia). Però se la rivoluzione può e deve essere diversa da quella narrazione della rivoluzione russa, ecco che quell’argomento si rovescia: le condizioni oggettive sono per noi più che mature e favorevoli, sono invece le condizioni soggettive a segnare un drammatico ritardo.

Provo a dirla così: ciò che l’Ottobre dimostra non è affatto che un’avanguardia proletaria cosciente e organizzata può conquistare uno Stato e poi distruggerlo, perché questo – semplicemente – non è vero (non so se sia mai stato vero, di certo non è vero oggi e qui, in Occidente e nelle società complesse del capitalismo maturo).

L’Ottobre dimostra invece una volta per tutte un’altra cosa, che ci riguarda direttamente e che riguarda l’oggi, e cioè che il potere capitalistico-borghese è tale da condurre l’umanità associata alla catastrofe, e che esso è eminentemente instabile e fragile (che grande lezione è il fatto che nessuno difenda il potere dello zar o di Kerensky!) e che nella crisi si frantumano e spariscono i margini di consenso e di egemonia del potere (basti citare i nomi di Trump o di Renzi in Italia per capire questo totale esaurimento, anzi questa rinuncia a qualsiasi egemonia da parte del capitalismo, che in altri tempi si dimostrò invece capace di egemonia).

Ciò significa anche che le masse veramente non ne possono più, a tal punto che esse ovunque, anche in Occidente, si rivolgono ormai in modo convulso a chiunque si presenti come alternativa allo stato di cose presente (compresa dunque – in mancanza di meglio – la destra fascistoide e razzista); ma allora è anche possibile che esse si spostino anche rapidamente e massicciamente su una proposta credibile di vera fuoruscita dalla crisi, come fu appunto quella dei comunisti nel ’17, se noi solo fossimo in grado di formularla, invece di inseguire al centro il suicidio della socialdemocrazia.

10. Dunque l’esempio che emerge da una riflessione sull’Ottobre, la sua lezione per noi è essenzialmente la soggettività rivoluzionaria del proletariato.

A questo riguardo la lezione dell’Ottobre è ricchissima e attualissima: essa dimostra che la soggettività rivoluzionaria deve essere necessariamente fatta di due cose, due non una.

a) una serie di organismi democratici, in cui le masse possano organizzarsi stabilmente (sia questo verbo che questo avverbio sono fondamentali), esprimersi, praticare la partecipazione e l’autogoverno, riprendersi il protagonismo, uscire dalla terribile passività a cui il capitalismo le condanna.

Senza organismi di massa organizzati (i Soviet nell’Ottobre: i movimenti ora) non c’è rivoluzione.

b) Un punto di vista (chiamiamolo per ora così) strategico e tattico organizzato, che sia ideologicamente e culturalmente ed eticamente del tutto autonomo dal capitalismo, cioè un luogo collettivo capace di vedere lontano e di agire nell’immediato, di analizzare in termini sistemici la situazione e di capire dove siamo e perché, ma capace anche – o soprattutto – di percepire momento per momento, con la sensibilità di un sismografo, gli orientamenti, i pensieri, i bisogni, gli stati d’animo delle masse e di rispondervi, facendo di tutto ciò la bussola della propria tattica (in questa capacità di capire sempre e momento per momento gli orientamenti delle masse, lo si nota troppo poco, la direzione di Lenin è stata semplicemente meravigliosa). Vogliamo chiamare una simile entità ancora “partito”? Perché no?

Certo senza un simile punto di vista organizzato, o partito che dir si voglia, non c’è rivoluzione.

Fra le lezioni dell’Ottobre ce n’è infine una che oggi appare particolarmente confortante per noi: i rapporti di forza fra le classi sono eminentemente instabili, e tanto più in periodi di crisi. Ciò che oggi può apparire una forza invincibile può precipitare già domani in una debolezza assoluta, e viceversa i subalterni, gli sconfitti, gli oppressi, possono celare dentro di sé una grande forza e rivelarsi capaci di creare la storia del mondo.

Non è forse successo così cento anni or sono nell’Ottobre del 1917 a Pietrogrado?

FINE R.M.

28-9-2017/3-11-2017

  1. Quest’intervento è stato largamente utilizzato anche per una relazione al Seminario del PRC “Rivoluzione russa, rivoluzione oggi”, svoltosi presso l’ARCI di Firenze il 4 e 5 novembre 2017.
  2. La parola “anche” allude evidentemente a Eugenio Scalfari, che in alcune recenti omelie domenicali ha sinceramente teorizzato che la democrazia non esiste e che il paese deve essere governato dalle élites.
  3. Alexander Rabinowitch, 1917. I bolscevichi al potere, trad. di B. Amato e G. Ravaioli, Milano, Feltrinelli, 2017.

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