Una testimonianza sulla lezione di Giuseppe Prestipino

Una testimonianza sulla lezione di Giuseppe Prestipino

RAUL MORDENTI

Abstract: Si prende in esame il problema della sopravvivenza (distinta concettualmente dall’immortalità) a partire dall’esistenza di cospicui inediti di Prestipino. Si sostiene che il capitalismo realizzato proibisce, assieme al futuro, anche il passato, analizzando la crisi delle istituzioni addette alla sopravvivenza della cultura (università, biblioteche, libri, etc.) e soprattutto dei decisivi luoghi sociali della memoria collettiva. Il modo di essere comunista, che fu di Prestipino, viene additato come esempio e possibile via d’uscita.

Parole chiave: memoria, sopravvivenza, università, libri, rivoluzione.

Utilizzo il privilegio che mi deriva dal parlare dopo l’impagabile intervento dedicato all’originale gramscismo di Prestipino da Lelio La Porta, in cui traspariva lo stesso affetto con cui Lelio ha accompagnato gli ultimi anni di Giuseppe; dopo gli interventi di Guido Liguori, che ha ricostruito la personalità umana e filosofica di Prestipino, di Alberto Olivetti, che ha tracciato il ritratto di questo gran signore siciliano comunista, di Antonino Infranca che ha lumeggiato il cruciale rapporto filosofico Prestipino-Lukács (e anche altri interventi, tutti, dovrei qui citare).

Ma siamo in questa giornata nella serie delle testimonianze, e testimonianza significa essenzialmente ricordi, e i ricordi sono tanti, che si possono estendere o concentrare ad libitum: ne scelgo solo due.

Ricordo il primo incontro con Giuseppe presso la Fondazione Basso, per tramite di Domenico Jervolino (un altro compagno caro, e indimenticabile) che aveva letto, e utilizzato vastamente, le opere di Prestipino. E ricordo le ironie (a cui Giuseppe si prestava tanto volentieri) sui suoi trascorsi moscoviti di rappresentante del PCI (in quanto direttore di “Critica Marxista”) agli incontri mondiali indetti dai sovietici, e su una notte intera da lui trascorsa discutendo con Suslov per convincerlo che Mao Zedong non era trotzkista (e sembra che Giuseppe sia riuscito nell’impresa): erano quelli tempi – certo incredibili per i nostri compagni più giovani – in cui i massimi dirigenti comunisti internazionali passavano le notti a discutere di teoria e di politica.

L’altro ricordo riguarda gli ultimi tempi, quando Giuseppe recideva progressivamente e quasi dolcemente i suoi legami col mondo, rinunciando dunque anche a leggere cose nuove e limitandosi a ri-leggere i decisivi libri della sua vita. Io gli domandai stupidamente quale era secondo lui in assoluto il libro più grande. Giuseppe esitò un poco: prima accennò a rispondere Guerra e pace ma poi, decisissimo, scelse La montagna incantata.

Fu in quei tempi che Prestipino mi parlò di una pennetta per computer che, su sua disposizione, mi sarebbe stata consegnata dopo la sua morte. Conteneva suoi inediti, poesie e perfino disegni. Appartiene a questo cospicuo patrimonio di inediti il corposo e importante Frammenti di vita ingiusta, da non confondere con l’omonimo libretto assai ridotto che, in 100 copie numerate, ne traemmo per il suo compleanno nel 2012, ma il grande volume di cui parlo e ancora inedito. Segnalo l’uscita di un libretto postumo, Su Lukács. Frammenti di un discorso etico-politico, a cura di Lelio La Porta con una bella Appendice di Velio Abati (Roma, Editori Riuniti, 2020); e proprio in occasione di questo incontro odierno, il coraggioso editore Dario Cimaglia ha pubblicato un volumetto di Prestipino: Uguale e contrario. Ragionamento sulle mafie (Roma, Bordeaux, 2022), che si spera sia ordinato e comprato almeno da tutti noi.

Si pone insomma a tutti noi il problema della gestione di un tale patrimonio di inediti che – evidentemente – si scontra con la tragica situazione attuale dell’editoria italiana di cultura.

A ben vedere questo limitato problema editoriale è parte di un problema ben più grande che in realtà è al centro del nostro incontro: come far vivere oltre la morte questo nostro maestro. Alberto Olivetti ha ricordato le parole di Prestipino: «Forse, e non soltanto per i credenti nella vita ultraterrena, la morte non è la fine della vita. Anche per i non credenti, la persona cara che muore resta vicina e presente, in un ricordo struggente e dolce insieme, che attenua quella perdita, quella dipartita senza speranza di ritrovarsi, facendola invece apparire come un distacco non incolmabile da colui o da colei che resta in vita».

Io credo che il concetto di sopravvivenza alla morte non riguardi banalmente le persone, non consista insomma nella immortalità dell’individuo, ma – molto più profondamente – riguardi le azioni, i pensieri, gli affetti, insomma la lezione che ciascuno di noi (ciascuno e ciascuna: non solo gli intellettuali di mestiere) lascia dopo di sé.

Ora, il problema di «come l’uom s’etterna» ha molto a che fare – almeno per i marxisti – con il problema della rivoluzione.

Non affronto la possibile pars costruens utopica di un tale nesso fra la nostra eternità e la rivoluzione comunista, perché questo ci porterebbe in un’area teologica che non ci può appartenere.

Vorrei parlare invece di una pars destruens, cioè della terribile negatività che l’assenza o il ritardo della rivoluzione comporta anche a proposito della umana sopravvivenza.

A noi tocca vivere nell’epoca infelice in cui – per dirla con Gramsci – il vecchio è morto e il nuovo non può nascere, un’epoca in cui si verificano dunque “i fenomeni più morbosi”. Appartiene a questi fenomeni morbosi anche la guerra che il capitalismo realizzato ha dichiarato al tempo. Siccome l’assunto ideologico fondamentale è “There is no alternative” (in italiano: “Non c’è alternativa”, spesso contratto nell’acronimo T.I.N.A.) proclamato ex cathedra dalla Thatcher, ne consegue che deve essere cancellato dall’orizzonte qualsiasi cosa che non corrisponda all’ “oggi capitalistico”, all’eterno presente del capitale vittorioso.

Fra le tante cose che il capitalismo distrugge quando si avvicina loro c’è dunque anche il flusso del tempo. È stato detto giustamente che è più facile immaginare la fine del mondo che non la fine del capitalismo, ma ciò significa che il dogma thatcheriano ha vinto, cioè è diventato senso comune, praticamente incontrastato. Si noti che il relativo successo della fantascienza non contraddice affatto questa situazione, perché la fantascienza (tranne rarissime e pregevoli eccezioni) non è altro che la proiezione nel futuro del presente capitalistico, non per caso còlto e prolungato nelle sue forme più caratteristiche e orrende, a cominciare dalla guerra.

Questa cancellazione, questa vera e propria proibizione del futuro, ha bisogno per esistere di una simmetrica proibizione del passato: il passato ci parla infatti di una realtà diversa dall’oggi capitalistico, ma una realtà diversa vuol dire allora che una diversità, possibilmente alternativa, è possibile (se c’è stato ieri qualcosa di diverso dall’oggi, allora potrà essere diverso dall’oggi anche il domani), in violazione dunque del dogma thatcheriano; e ciò è tanto più vero da quando abbiamo smesso di credere all’ottimismo lineare del progressismo.

Dunque per affermare che non deve più esistere alcun futuro diverso dal presente è necessario anche affermare che non è mai esistito neppure un passato diverso dal presente, se non come incubazione e prodromo, secondo la più banale e stupida concezione evoluzionista della storia.

Credo che alla luce di questa motivazione ideologica del capitalismo, profonda e fondamentale, si spiegano alcuni fenomeni socio-politici che altrimenti suonerebbero semplicemente assurdi.

Mi riferisco per esempio all’abolizione del tema di storia dagli esami di maturità, alla polemica confindustriale (naturalmente fatta propria sia dalla destra che dal centro-sinistra) contro i Licei che andrebbero sostituiti da Istituti tecnici o, meglio ancora, professionali. Meno sanno della storia i nostri giovani e meglio è: raccontare al riguardo aneddoti agghiaccianti tratti dalla nostra esperienza di docenti somiglia troppo al gesto del vecchio professore reazionario perché io possa farlo qui tra voi. Mi limiterò a dire che recentemente un giornalista professionista, dotato di audience vastissima, non un quindicenne decerebrato, ha dichiarato pubblicamente che La corazzata Potëmkin era il noto film di… Paolo Villaggio (aggiungendo peraltro che vi si narrava di una rivolta contro i bolscevichi: l’anticomunismo condisce spesso l’ignoranza, e l’accompagna volentieri).

Mi riferisco soprattutto alla crisi (ma, per dirla più precisamente: alla distruzione capitalistica) dell’Università. Ma le Università, assieme alla Biblioteca, erano esattamente i dispositivi istituzionali a cui la Repubblica affidava la memoria, cioè la sopravvivenza della cultura oltre il succedersi delle generazioni. Basti a questo proposito citare un solo fatto, che accomuna in una medesima prospettiva catastrofica Università e libri: ora le Università rifiutano di accettare in dono per le loro biblioteche i libri, per “motivi di spazio”. È accaduto a molti di noi, compreso chi vi parla, è accaduto per i libri di Domenico Jervolino (in parte salvati, per un’ironia della storia che non vi sfugge, dalla biblioteca dei Gesuiti) e il problema, solo in parte risolto dal generoso impegno del «Centro per la Filosofia Italiana» diretto da Aldo Meccariello, si è posto anche per i libri di Prestipino. Ma se non sono le biblioteche universitarie a conservare nel tempo i libri, nemmeno quelli dei propri docenti, non si vede davvero chi possa e debba farlo. Si profila forse anche da noi l’orrore di cui si legge a proposito delle biblioteche americane, dove i libri, a cominciare dai classici, vengono soppressi dalle biblioteche (cioè uccisi per sempre) in base al numero scarso di richieste dei lettori? Tutto ciò che “non ha mercato” merita infatti di morire.

Ho parlato del binomio libri-Università come dei dispositivi istituzionali incaricati della sopravvivenza della cultura: in realtà esiste (esisteva) una costellazione di dispositivi non istituzionali, che erano probabilmente ciò che funzionava meglio. Mi riferisco ai luoghi collettivi di memoria, le famiglie, gli amici, i luoghi di lavoro, i momenti di lotta, le associazioni, i sindacati, i partiti. Credo che manchino al riguardo ricerche accurate, ma – così, a spanna – se penso alla mia esperienza personale, io a proposito della politica e della storia ho imparato molto di più in questi luoghi informali che non nei corsi universitari. Nell’ottica del nostro ragionamento, la distruzione sistematica di questi luoghi di memoria, informali ma decisivi, non sembra allora affatto casuale.

Se ne deve dedurre che senza partito (altrove si discuterà cosa intendere oggi con questa parola) non solo non c’è rivoluzione ma non c’è neanche memoria? E che fra queste due mancanze, quella del partito e quella della memoria, c’è forse un rapporto assai stretto, di reciproca causazione?

E siamo così tornati al nostro Giuseppe Prestipino, che fu comunista sempre. E lo fu come si deve esserlo, cioè sempre in base alla sua persuasione rinnovata, sempre in base a riflessione e ragionamento, a dubbio e a ricerca.

In questo suo essere comunista, il passato del movimento operaio e della filosofia marxista (un passato pure amato e conservato) non si chiudeva mai su sè stesso, ma era una porta sempre aperta sul presente, cioè sul futuro. È questa la lezione di cui, oggi come non mai, abbiamo bisogno.

RM

(Civitavecchia, 4 6 22-Roma, 30 11 22)

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