“Usare la nostra storia per scrivere la nuova storia”

Forum della Rete dei Comunisti

“Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere” (Roma, 17-18 dicembre 2016)

“Usare la nostra storia per scrivere la nuova storia” 2

di Raul Mordenti 2

1. “(…) non esiste il crollo del capitalismo, in quanto possibilità di crescita per il capitale possono sussistere anche in condizioni difficili”. 2

1.1. Ciò che rende per noi necessario, oggi, essere comunisti 3

1.2. La priorità: pensare la nostra rivoluzione oggi e qui 4

2. “(…) quel livello di sviluppo delle F[orze] P[roduttive] aveva in sé le potenzialità di transizione al socialismo?” 4

3. Chi è il vecchio che muore? 6

4. Chi è il nuovo che non può nascere? 7

4.1. Cominciamo da un po’ di numeri sui risultati del referendum 7

Tabella 1: Votanti: numeri e percentuali 7

Tabella 2: Confronto fra il voto alle elezioni europee del 2014 e i voti del referendum 2016 9

4.2. Un popolo senza partiti, partiti senza popolo 10

4.3. Un’area organizzata dei comunisti e delle comuniste: alcune proposte concrete 11

4.4. Un sistema concentrico di alleanze 12

5. Riprenderci la nostra storia, ricostruire la nostra narrazione 13

“Usare la nostra storia per scrivere la nuova storia”

di Raul Mordenti

Un ringraziamento sincero alla Rete dei Comunisti per questo invito, che interpreto non solo come prova di amicizia ma anche di grande apertura politica.

Parto dalla condivisione di due punti del Documento di convocazione di questo Forum che mi sembrano di grande utilità per la ricerca e il ragionamento a cui siamo chiamati.

1. “(…) non esiste il crollo del capitalismo, in quanto possibilità di crescita per il capitale possono sussistere anche in condizioni difficili”.

Il primo punto è l’affermazione seguente:

“(…) non esiste il crollo del capitalismo, in quanto possibilità di crescita per il capitale possono sussistere anche in condizioni difficili”.

Anche se io non parlerei di “possibilità di crescita” bensì di tenuta, di ristagno, di feroci sforzi di sopravvivenza del capitale: ma è importante capire che (come la storia ci insegna) una formazione sociale non finisce quando esaurisce la sua spinta propulsiva ma solo quando viene sostituita da un’altra diversa e più avanzata.

Così succede che una formazione sociale, un sistema economico-ideale-sociale (nel nostro caso ciò che chiamiamo capitalismo) possa – per così dire – sopravvivere a se stessa, cioè durare oltre ogni positività della sua esistenza, durare oltre ogni sua capacità di risolvere i problemi all’ordine del giorno dell’umanità associata, e – per dirla gramscianamente – possa durare oltre la propria storica egemonia. Il sistema feudale, per esempio, è sopravvissuto per secoli a sé stesso, prima che il capitalismo e la borghesia lo spazzassero via. Ora proprio queste fasi di tenuta antistorica, di ristagno, di sopravvivenza del potere oltre sé stesso determinano le congiunture storiche più pericolose, cioè configurano una situazione che si può definire di stallo a prospettive catastrofiche. Che è quella che noi oggi viviamo.

Faccio notare che – per paradosso – lo stesso sviluppo delle forze produttive (in questo caso di quelle di guerra, cioè la bomba atomica) rende la prospettiva della catastrofe definitiva assai più presente e attuale di quanto sia mai stata nella storia dell’umanità. È quest’ultimo un fatto a cui pensiamo troppo poco e che invece – a me sembra – dovrebbe orientare ogni nostro pensiero e ossessionarci. Come scriveva Walter Benjamin “la miccia è già accesa” ed è solo questione di tempo: si tratta ora di vedere se noi riusciamo a liberare il mondo dal capitalismo in crisi prima che il capitalismo in crisi distrugga il mondo.

Perché mi sembra importante questa critica del “crollismo” meccanicistico e oggettivistico contenuta nella frase del vostro documento che ho citato? Perché ci riconsegna per intero la lezione leninista in ordine alla necessità del momento soggettivo, cioè del compito che consiste nel trasformare la crisi in rivoluzione. La crisi può talvolta (talvolta, non sempre: non c’è meccanicismo neppure in questo punto) rappresentare la condizione migliore per la rivoluzione, ma crisi e rivoluzione restano due cose diverse e fra queste due cose diverse c’è in mezzo il problema per noi cruciale che è quello della soggettività rivoluzionaria, il cui compito è – appunto – risolvere storicamente la crisi, risolverla (per dir così) davvero, cioè trasformare la crisi in rivoluzione.

1.1. Ciò che rende per noi necessario, oggi, essere comunisti

È tutto qui – se ci pensiamo – ciò che rende per noi necessario dirci comunisti (che è facile) ed essere comunisti (che è un po’ più difficile).

I comunisti non sono quelli “un po’ più a sinistra” di tutti (gli anarchici e i neo-anarchici sono più a sinistra dei comunisti); i comunisti non sono quelli che sono “più incazzati” di tutti (gli estremisti sono sempre più incazzati dei comunisti); i comunisti non sono quelli che vogliono un po’ di redistribuzione della ricchezza (i socialdemocratici sono, o piuttosto erano, più bravi dei comunisti a redistribuire un po’ di ricchezza). I comunisti sono semplicemente quelli che – come scrivono Marx ed Engels nel “Manifesto” – hanno fra tutti i proletari “un vantaggio” e questo vantaggio consiste nel fatto che solo loro sono coscienti della necessità della rivoluzione e solo loro sono in grado di pensarla, di organizzarla, di realizzarla.

Ed è per fare questo, la rivoluzione (non per altro), che i comunisti sono quelli più a sinistra di tutti, quelli più incazzati di tutti, quelli più impegnati di tutti a battersi per un po’ di redistribuzione della ricchezza e per migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle masse.

Questa dunque è la nostra “ragione sociale”, il comunismo e la rivoluzione, e oggi meno che mai è possibile rinunciarvi; anzi proprio oggi di fronte alla crisi di sistema del capitalismo realizzato è il momento di farla ridiventare attuale, se vogliamo che la nostra politica abbia un senso.

Fra l’altro, se ci pensiamo, consiste proprio in questa idea pratica della rivoluzione la nostra più vera forza, anche nei rapporti di massa. Solo il farci portatori dell’idea pratica della rivoluzione, della possibilità di farla finita veramente con lo stato di cose presente, è ciò che può permetterci di entrare in relazione con il grande dolore sociale che è il nostro Paese, di parlare alla profonda infelicità delle masse (dei giovani in particolare che sono abbandonati al silenzio e a una specie di depressione di massa), di dare speranza ai senza speranza. Ma i comunisti, nella misura in cui hanno abbandonato la loro bussola rivoluzionaria, queste cose non le dicono e non le pensano più. E invece dobbiamo cominciare a dire (e anzitutto a dirci) che questo momento storico ci impone non tanto di restare comunisti quanto di diventare comunisti.

Forse ancora pochi anni fa le cose non stavano così e poteva avere senso anche una posizione che si definiva comunista e che abbandonava nella soffitta delle buone intenzioni il problema della rivoluzione; ma oggi le cose non stanno più così, oggi ridiventa attuale la frase di Marx: “Hic Rhodus, hic salta!”.

Dopo aver ricordato che le rivoluzioni borghesi sembravano – ma solo in apparenza – procedere trionfalmente di vittoria in vittoria, Marx esamina il comportamento ben diverso delle rivoluzioni proletarie:

“Per contro, le rivoluzioni proletarie del secolo decimonono si demoliscono incessantemente, s’interrompono di continuo nel loro corso, tornano su ogni loro apparente successo per ritentarlo da capo, scherniscono crudelmente le imperfezioni, le debolezze e le futilità dei loro primi tentativi, sembra che rovescino i loro avversari solo perché questi riattingano energia dalla terra e risorgano giganti contro di esse, si ritraggono sistematicamente atterrite dinanzi alla indefinita mostruosità dei loro veri scopi, finché la situazione è creata, ogni ritorno è impossibile e le cose stesse gridano: ‘Hic Rhodus, hic salta!'”[1]

È talmente grande questa ragione fondamentale che ci spinge ad essere comunisti che di fronte ad essa impallidisce perfino l’altra ragione che viene dall’esperienza e dal buon senso, cioè il fatto che tutti coloro che – per una ragione o per l’altra – hanno scelto di non essere più comunisti, sempre motivando all’inizio tale loro scelta con la necessità di essere “più a sinistra”, sono poi finiti tutti, tutti senza eccezione – da Occhetto da Vendola a mille e mille altri fino a … Gennaro Migliore – nel gorgo del servizio al potere. Ma, ripeto, questa seconda ragione resta tuttavia minore rispetto alla prima e di fondo che ho poc’anzi enunciata.

Per questo, dirci comunisti e cercare di essere comunisti non è per noi oggetto di trattativa. Comunque su questo problema tornerò, brevemente, in conclusione.

1.2. La priorità: pensare la nostra rivoluzione oggi e qui

Ma allora questo significa che ridiventa oggi necessario, e direi urgente, pensare la rivoluzione. Intendo dire: pensarla non come idealità futura di élites o come rimpianto passato di un pugno di nostalgici ma pensarla come problema aperto, attuale, all’ordine del giorno, pensarla come progetto politico capace di interessare e appassionare e impegnare grandi masse. Oggi, non domani. Qui, non altrove.

A me questo compito di pensare oggi e qui la nostra rivoluzione necessaria[2] appare talmente prioritario e talmente urgente che non ci deve interessare più di tanto il pericolo di scandalizzare qualche “anima bella” dell’ortodossia pensando la nostra rivoluzione in modo diverso da ciò che fu la rivoluzione d’Ottobre.

Per pensare la rivoluzione oggi bisogna infatti liberarsi dalla stupidissima idea di rifare l’Ottobre in Italia e in Occidente (un’idea che appariva già molto stupida a Gramsci). L’Ottobre deve passare, cento anni dopo, da essere modello a essere lezione, una grande lezione da capire e utilizzare e non un modello da imitare. La nostra storia va usata, non rimpianta. Marx ce lo insegna: le cose possono cambiare di natura e rovesciare il loro significato nel tempo; così ostinarsi in quel pensiero, che in passato ha rappresentato un formidabile fattore di resistenza del proletariato, oggi è diventato invece uno dei più potenti ostacoli a pensare la rivoluzione, e dunque è diventato un tremendo fattore di conservazione. Non possiamo più permettercelo, se è vero che non abbiamo più tempo da perdere. Che qualcuno si scandalizzi deve essere dunque l’ultima delle nostre preoccupazioni. “Oportet ut scandala eveniant” (Matteo, xviii, 7), è necessario che avvengano degli scandali!

2. “(…) quel livello di sviluppo delle F[orze] P[roduttive] aveva in sé le potenzialità di transizione al socialismo?”

Ecco allora in che senso mi appare condivisibile una seconda affermazione del vostro Documento, un secondo spunto che mi sembra molto importante e dialettico:

“Un’ultima questione da affrontare è quella di una valutazione sul movimento comunista del ‘900 con una chiave di lettura che indica la sua crisi nel mancato sfondamento nel 1919 della rivoluzione nei paesi a capitalismo avanzato nell’Europa Occidentale. Questa è indubbiamente una chiave di lettura alla quale pensiamo va aggiunta un’altra valutazione, ovvero quel livello di sviluppo delle F[orze] P[roduttive] aveva in sé le potenzialità di transizione al socialismo?”

Qui si pone una questione tanto decisiva quanto trascurata nelle nostre riflessioni storico-politiche, cioè si chiama in causa quella che definirei la follia dell’Ottobre, necessitata e grandiosa ma follia! Essa consistette nel fatto che il proletariato sovietico (per giunta numericamente scarso e geograficamente poco diffuso) si dovette far carico in prima persona anzitutto dello sviluppo delle forze produttive: non – si noti – dello s-catenamento[3] delle forze produttive dai lacci dei rapporti sociali di produzione borghesi, e neppure di una qualche forma di immediata redistribuzione della ricchezza (e qui la follia di quella rivoluzione ci appare davvero straordinaria, miracolosa e quasi incredibile!), ma si dovette far carico in prima persona proprio dello sviluppo delle FP, anzi dell’affrettato e dunque rigoroso sviluppo delle FP, facendo cioè (e per necessità) in pochi anni l’industrializzazione forzata (e fu forzata davvero!) e quell’accumulazione primitiva che rappresenta una fase imprescindibile dello sviluppo del capitale e che la borghesia in Occidente aveva impiegato secoli e secoli a compiere.

Il tutto (ricordiamocelo sempre) dovette essere compiuto – fra l’altro – in mezzo alla guerra, all’aggressione militare delle potenze europee, alle secessioni e alla guerra civile dei Bianchi, al sabotaggio, alle rivolte contadine e alle carestie, e poi alla minaccia del nazismo alle frontiere che rendeva urgente e prioritaria l’industria di guerra, etc.

Dobbiamo riflettere su quella situazione che caratterizzò (e ostacolò) il primo assalto al cielo della nostra classe, una situazione storicamente inedita (e inoltre teoricamente del tutto imprevista dalla teoria politica marxista!) e dobbiamo considerare quanto diverso sia il livello di sviluppo delle forze produttive con cui abbiamo a che fare noi; fare questo mi sembra decisamente più utile per capire qualcosa piuttosto che non ripeterci lo sciocco mantra della personale cattiveria di Giuseppe Stalin in contrapposizione alla grande bontà di Leone Trotzki o similari sciocchezze.

Questa differenza fondamentale fra le due situazioni delle forze produttive è davvero fondamentale. Non a caso la crisi si manifesta questa volta nel cuore stesso del capitalismo e non nelle sue periferie. Non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro per segnare la differenza abissale fra le due situazioni.

Potrebbe darsi che il solco che separa noi comunisti di oggi dalla generazione gloriosa dei comunisti dell’Ottobre e della III Interazionale (un solco che rende oggi grottesco il recupero acritico e la citazione) sia rappresentato proprio da quella differenza; non solo noi oggi non abbiamo il compito di provvedere all’accumulazione primitiva e all’industrializzazione forzata e accelerata, non solo per noi oggi non è affatto all’ordine del giorno la repressione dei kulaki (anche se vedendo lo schieramento della Federconsorzi con Renzi qualche cattivo pensiero potrebbe venire in mente), ma forse siamo perfino in grado di dare vita ad un processo inverso, non banalmente di redistribuzione della ricchezza sociale ma proprio di progressiva distruzione del capitale.

Distruzione del capitale non vuole dire ovviamente distruzione delle macchine o delle merci ma vuol dire fuoruscita dal ciclo irrazionale D-M-D’, della produzione di merci finalizzata all’accumulazione privatistica del capitale che a sua volta è fine a se stessa.

Distruggere questo ciclo distruttivo del capitale è in effetti il problema all’ordine del giorno nell’epoca della crisi di sovrapproduzione del capitale (e di sottoconsumo).

Avanzo un’ipotesi: che mentre la borghesia si è rivelata storicamente superiore al proletariato nell’accumulazione del capitale, il proletariato possa essere superiore alla borghesia nella distruzione del capitale così intesa; infatti l’unica forma della (necessarissima!) distruzione di capitale che la borghesia riesce a concepire per uscire dalla sua crisi è la guerra, mentre potrebbe darsi che la nostra classe sia in grado di immaginare e costruire un’organizzazione della società in cui il lavoro e le altre forze produttive, liberate dai rapporti sociali di produzione capitalistici, siano finalizzate non all’accumulazione privatistica ma al soddisfacimento dei bisogni sociali, a cominciare da quelli fondamentali (il lavoro, l’ambiente, la messa in sicurezza del territorio, la salute, le energie alternative, la ricerca, lo sviluppo della conoscenza, e così via).

Forse proprio questo vuol dire attualità del comunismo e sua necessità storica, cioè la scelta aperta di fronte a noi fra socialismo e barbarie.

Ecco un fondamentale compito di ricerca ed elaborazione per i nostri compagni economisti, a cominciare da Luciano Vasapollo. Avete davvero un gran lavoro da fare, cari compagni, e di questo lavoro ne abbiamo urgente bisogno tutti. È una serie di temi di ricerca che ci porterebbe troppo lontano, ma (ancora una volta) mi sembra assai importante lo stimolo che deriva dal vostro Documento, dove (al punto 1) si parla con grande coraggio anti-dogmatico della differenza tra capitalismo e Modo di Produzione Capitalista.

Ci sono fasi in cui è più importante porsi le domande giuste che non fornire delle risposte affrettate, e sbagliate: e questa è una di quelle fasi. Che siano le domande giuste mi sembra dimostrato dalla seguente circostanza: che senza porci domande come queste non è possibile riproporre il tema della rivoluzione, se non in termini mistici e mitici; e noi – come abbiamo visto – abbiamo invece bisogno, un urgente e assoluto bisogno, di porre il tema della rivoluzione come una proposta attuale di questa fase, della fase attuale, e non di una fase futura.

3. Chi è il vecchio che muore?

Allora per dare concretezza al nostro discorso è necessario capire chi è il vecchio che muore e chi è il nuovo a cui viene impedito di nascere.

A questo riguardo la lettura del referendum ci aiuta. Lo schieramento del Sì rappresenta, né più né meno, il potere capitalistico in Italia, che naturalmente ha mille e mille vincoli con l’imperialismo americano e con il sub-imperialismo europeo e ne rappresenta in effetti solo una faccia italiana; un tale potere si è presentato per il Sì tutto unito e tutto allo scoperto, con una evidenza plastica che forse mai si era verificata in passato.

Proviamo ad elencare: la Confindustria tutta schierata in quanto tale (Mediaset in testa), Marchionne, gli Agnelli e la ex industria di Stato, la Banca, in obbedienza a JP Morgan ma anche alla BCE di Draghi, l’ambasciata americana (e anzi Obama in persona…), “Repubblica” e i giornaloni, la Rai al completo come non mai, da Bruno Vespa a Michele Santoro, tutto il vertice europeo (Merkel e Juncker) e tutto personale politico di obbedienza “europea”, cioè massonico-bancaria, da Napolitano a Prodi (e di questo dovremo ricordarci!) fino allo stesso Mattarella (si spiega anche così lo scandalo del quesito truffaldino stampato sulla scheda), e poi tutto intero il sindacalismo collaborazionista a cominciare da CISL e UIL, la Federconsorzi, CL, le ACLI, la Lega delle cooperative, la mafia e la camorra delle “grandi opere”. E – non certo ultimo in questo elenco – il Governo in quanto tale (cosa mai successa in un referendum, se non ricordo male), ciò che ha significato anche la messa a disposizione del PD delle ambasciate italiane per far votare Sì gli italiani all’estero, oltre che una spesa spropositata, (si parla di almeno 10 milioni di euro: presi da dove?) fra cui i 500.000 euro dati dal PD al guru americano della campagna elettorale di Obama e poi del reazionario Macri in Argentina. Visti i risultati, questi per il guru americano delle campagne elettorali sono stati soldi ben spesi: facciamo una colletta perché rimanga in Italia.

L’adesione al Sì del mondo dello spettacolo e degli “intellettuali” meriterebbe un discorso a parte che non abbiamo il tempo di fare qui: mi limiterò a dire che in quell’elenco di firme di nominati e di beneficati, di raccomandati e di parenti, di presidenti e di rettori, di funzionari e di premiati, di candidati e di clienti, di “gente del giro”, non solo si può leggere (forse per la prima volta) tutta la massoneria italiana venuta allo scoperto con nome e cognome ma si vede anche un concentrato impressionante di opportunismo, di viltà, di interessi privati, di culto cinico del proprio “particulare” guicciardiniano; Travaglio ha testimoniato, ad esempio, che molti uomini e donne del cinema e della Tv avevano aderito alla manifestazione per il No e poi hanno ritirato l’adesione per paura di rappresaglie, e lo stesso è accaduto a noi all’Università. E sono paure fondate: questo potere è cattivo, del tutto privo di regole e di pudore, e si vanta – come essi dicono – di “non fare prigionieri”. Riflettiamoci, conserviamo con cura e studiamo bene l’elenco delle firme per il Sì (che gli interessati vorrebbero far sparire dal web).

Insomma quell’elenco di firme per il Sì non somiglia neppure al manifesto degli intellettuali fascisti promosso da Gentile nel 1925, somiglia piuttosto al giuramento di fedeltà al regime prestato dai professori nel 1931, al quale seppero resistere solo 12 professori.

Evidentemente il potere italiano, il potere del Sì, si sentiva talmente forte (complice anche la megalomania narcisistica del pinocchietto di Rignano d’Arno) da credere di poter operare uno sfondamento definitivo, cioè di liberarsi della Costituzione antifascista, e – per ora, almeno – si sono scornati.

Ma ci riproveranno, dobbiamo esserne coscienti: costoro non sono in grado, se anche lo volessero, di cambiare linea, la loro egemonia è finita da tempo e resta loro da percorrere solo la strada del dominio, sempre più esclusivistico e aggressivo. Il provocatorio e oltraggioso Governo Renzibis senza Renzi (ma con Boschi promossa, Lotti, Madia, Alfano, Poletti etc.) lo dimostra. D’altra parte costoro hanno ormai un piccolo problema: ogni volta che si vota essi pèrdono; dunque o debbono impedire il voto (la linea praticata da Napolitano) oppure debbono costringerci a votare con sistemi truffaldini, col maggioritario, con premi di maggioranza o altre truffe.

Il punto di fondo è che le politiche che la borghesia europea ha deciso, e che è costretta a fare, non si possono fare con la democrazia, dunque non tollerano la democrazia, e il “patto democratico” (chiamiamolo così) che era stato stilato tacitamente nel dopoguerra dal proletariato italiano con le forze capitalistico-borghesi (noi non tentiamo una presa dl potere armata, voi ci garantite uno spazio di agibilità democratica e sindacale) è stato disdettato unilateralmente dal potere borghese e non sarà riproposto in alcun modo.

Una riprova sarà il tentativo di impedire in ogni modo il referendum contro il jobs act e un’altra riprova sarà la resistenza della maggioranza a concedere una legge elettorale proporzionale e non truffaldina: ecco dunque due fronti di lotta decisivi immediatamente aperti davanti a noi.

Questo significa che il nesso fra la lotta di classe e la lotta per la democrazia non è un episodio ma è, e sarà, una caratteristica della fase, come ha compreso bene il “No sociale”, a cominciare dall’importantissimo sciopero generale contro il referendum di Renzi.

4. Chi è il nuovo che non può nascere?

Naturalmente questa è la domanda che deve interessarci di più, e anche per rispondere ad essa ci può aiutare una lettura dei risultati del referendum.

4.1. Cominciamo da un po’ di numeri sui risultati del referendum

Cominciamo da un po’ di numeri sui risultati del referendum, non quelli giornalistici delle percentuali ma i soli che contano davvero, quelli in valore assoluto dei votanti. Confrontiamo dunque i votanti delle ultime elezioni, quelle europee del 2014, con quelli del referendum sulla Costituzione del 4 dicembre:

Tabella 1: Votanti: numeri e percentuali

Dunque il dato vero, e clamoroso, è l’aumento dei votanti e il crollo degli astensionisti (11%!), cioè cinque milioni e mezzo di elettori che non votavano più questa volta sono andati a votare.

E sono loro, non altri, che fanno vincere il No.

Infatti, se confrontiamo i voti riportati dai partiti schierati per il Sì, vediamo che sostanzialmente essi conservano i voti del 2014, anzi li aumentano un poco grazie all’aumento dei votanti; ma la somma dei voti riportati nel 2014 dai partiti che hanno sostenuto il No è nettamente inferiore ai voti del No nel 2016 (14 milioni contro 19 milioni) e questo incremento, pari al 7,29 % dell’elettorato corrisponde evidentemente al voto degli ex-astenuti che infatti (secondo l’analisi dei flussi elettorali) ha votato No facendo la differenza fra i due schieramenti. E 5.209.111 voti (l’incremento dei voti del No al referendum rispetto ai voti dei partiti schierati per il No) corrisponde quasi perfettamente alla cifra degli elettori che hanno abbandonato l’astensionismo e si sono recati a votare (5.402.809).

Tabella 2: Confronto fra il voto alle elezioni europee del 2014 e i voti del referendum 2016

Si noti che la realtà è ancora più netta di queste cifre, perché nella Tabella 2 noi non abbiamo considerato che i partiti di destra (ad eccezione della Lega) sono in forte calo rispetto al 2014, e soprattutto ipotizziamo che tutti gli elettori di quei partiti abbiano votato No. Non è affatto così: secondo l’analisi dei flussi elettorali (cfr. “Corriere della Sera”, 6 dicembre 2016, p.12) il 23,8%, degli elettori di “Forza Italia” (pari a oltre un 1.100.000 voti) ha votato Sì[4].

La propaganda piddina sul No come vittoria di Brunetta, Salvini e fasci varii è dunque una colossale bugia: se anche sommassimo tutti i voti della destra del 2014 e li attribuissimo tutti al No (e come abbiamo visto, non è stato affatto così) avremmo solo 7.309.074 voti che, sul totale dei 19 milioni e mezzo di voti del No, rappresentano appena un terzo.

Ma, oltre a smentire le bugie del PD, cosa naturalmente sempre utile, questi dati ci debbono servire per capire che essi danno il quadro drammatico di un popolo senza partito.

4.2. Un popolo senza partiti, partiti senza popolo

E credo che proprio questo sia il problema politico principale per noi.

Sarebbe infantile e auto-consolatorio credere che, oltre ai voti già di opposizione di sinistra, i 5 milioni e mezzo di non-più-astenuti (chiamiamoli così) siano tutta “roba nostra”: essi rappresentano piuttosto la nostra sfida, il nostro compito, il terreno del nostro lavoro.

Credo che oggi si tratti di compiere su quel terreno un lavoro durissimo di aratura e di semina, e solo poi, un giorno, forse, sarà anche di raccolto.

Anche, e soprattutto, nel problema della costruzione del partito è necessario rifuggire da ogni meccanicismo soggettivistico. Insomma niente somiglia di meno alla costruzione del partito che la sua proclamazione e – lo dico senza offesa per nessuno – non c’è oggi niente di più tragicamente ridicolo, di tragi-comico nel senso più letterale della parola.

La costruzione del partito è infatti un processo, complicatissimo e di lunga durata come tutti i processi storici reali, un processo eminentemente dialettico, il cui il ruolo delle avanguardie e quello delle masse debbono interagire di continuo, insegnando e imparando, unendo e separando, promuovendo e creando nuovi quadri e nuovi gruppi dirigenti, e questo impegnerà tutti per una lunga fase.

Non ho l’ambizione di affrontare un tale problema nel poco spazio che mi resta. Sarebbe necessario dedicare un intero convegno solo a questo problema, che – ripeto – oggi mi sembra il problema, perché sta lì la differenza fra una fase di mera resistenza dei comunisti e un’iniziativa politica vera e propria. Vorrei solo enunciare alcuni temi per la discussione.

Metto al primo posto il problema dell’unità, e i motivi sono auto-evidenti.

Dirò di più: il percorso a cui dobbiamo pensare non può escludere di porsi anche il problema della proiezione istituzionale ed elettorale. L’assenza dei comunisti dalle istituzioni rappresenta infatti oggi un elemento determinante della passivizzazione e della demoralizzazione politica della grandi masse: “i comunisti non ci sono più, quindi..”, quindi non è possibile lottare e opporsi, quindi tanto vale astenersi o cercare addirittura a destra lo spazio per lo sfogo della propria rabbia. Faccio peraltro notare che, non a caso, tale assenza dei comunisti dalle istituzioni è stata perseguita con grande e spietata determinazione, come obiettivo principale dei processi piduistici di ridisegno della nostra democrazia. Ed è un obiettivo che, al momento, loro hanno conseguito, complici evidentemente molti errori nostri

Dunque ricominciamo dall’unità e diciamo subito cosa la via dell’unità non può essere. La via dell’unità non può essere la via della rana di Esopo (una rana che si gonfia e si gonfia fino a diventare un bue) e non può essere neanche la via del cannibalismo (una rana che si mangia tutte le altre rane fino a diventare in tal modo un bue). No, cari compagni, l’unità non funziona così.

Né si può pensare che la via dell’unità passi oggi per lo scioglimento di quel po’ di organizzazioni che resistono: noi sappiamo per esperienza che ogni scioglimento rappresenta una perdita di impegno, di speranza, di coesione, di fiducia insomma una perdita delle cose di cui abbiamo più bisogno e che siamo chiamati a sviluppare. No, davvero per perseguire la via dell’unità non si deve sciogliere niente, neppure sciogliersi silenziosamente e nei fatti senza dirlo.

Credo invece che si debba pensare a un processo di tendenziale unificazione di realtà differenti, un processo che dunque parta dal rispetto di tali differenze, le quali però accettano di non essere più indifferenti le une alle altre. Un rapporto fra differenze reciprocamente non indifferenti. E questo in base all’idea che ogni differenza dell’altro è preziosa perché ci aiuta, aggiunge al processo comune qualcosa di cui noi non siamo in possesso.

Infatti, se viste materialisticamente, le nostre differenze non sono altro se non il riflesso dello stato attuale del proletariato; la nostra classe che non è unificata, che è dispersa (anzitutto dall’organizzazione capitalistica del lavoro), che è divisa e frantumata al suo interno (fra i diversi comparti produttivi, fra indigeni e migranti, fra vecchi e giovani, fra lavoratori del Nord e del Sud, etc.). Se guardiamo da vicino le organizzazioni della sinistra di classe in Italia verifichiamo che le cose in effetti stanno proprio così, che ciascuno rappresenta una diversa parzialità (e che alcune di queste parzialità sono peraltro preziose), ciascuno di noi porta un pezzo, un pezzo di lotta, un pezzo di organizzazione, un pezzo di idee, un pezzo di storia.

Dunque il concetto di rete: una rete è fatta di molti nodi, una rete è priva di centro e di vertice e – per dirla elegante – una rete è rizomatica e non arborescente. Il concetto di rete è talmente necessario e utile che mi dispiace quasi che questo termine di rete lo abbiate già usato voi! Troviamone un altro equivalente, ad esempio quello di area: un’area organizzata dei comunisti e delle comuniste che sceglie di muoversi verso l’unità.

4.3. Un’area organizzata dei comunisti e delle comuniste: alcune proposte concrete

Un’area ha naturalmente dei confini, i confini possono essere mobili ma non possono essere aperti a tutti. Ci sono naturalmente dei confini ideologici: il classismo, l’internazionalismo e la pace, l’antifascismo e l’antirazzismo, la democrazia e la Costituzione del ‘48[5].

Poi ci sono i confini politici più immediati, e credo che questi confini siano solo due: non possono fare parte dell’area quelli che guardano ancora al PD (per l’ottimo motivo che il PD si è rivelato essere l’agente politico più organico del potere capitalistico oggi) e dunque dovremo a malincuore rinunciare a Pisapia e alla Boldrini; e non possono fare parte dell’area i matti e i poliziotti, due categorie che talvolta coincidono perché spesso i poliziotti amano travestirsi da matti.

Così delimitata l’area dei comunisti e delle comuniste, mi permetto anche di avanzare alcune proposte di cose che si potrebbero fare subito[6], e chiedo che mi sia perdonato se in ciò che segue mi permetterò di avanzare proposte concrete, ma lo farò per cercare di dare concretezza al ragionamento e dimostrare che la proposta a cui penso è del tutto possibile (oltre che necessaria). È solo questione di volontà politica.

Ad esempio si potrebbe cercare di eliminare i doppioni o almeno di mettere in rapporto costante fra loro le iniziative analoghe, come le riviste teoriche di dibattito, o i giornali, o lo studio e la formazione quadri, o un centro studi, o una casa editrice, o certo associazionismo a tema (come la solidarietà internazionalista) o altro. Si potrebbe, e si dovrebbe, mettere mano insieme ad una vera inchiesta sulle forme attuali della produzione capitalistica e sulle condizioni attuali del lavoro, dunque sull’attuale composizione di classe, una inchiesta di cui abbiamo un estremo bisogno e che mi sembra una necessità teorica prioritaria.

Ma la prima cosa a cui l’area organizzata dei comunisti e delle comuniste dovrà mettere mano politicamente mi sembra debba essere il Programma, un programma minimo di fase in pochi punti cruciali e dirimenti (il lavoro, l’Europa, la pace, i migranti, la scuola, i diritti), un programma alla cui bozza potrebbe lavorare un gruppo di lavoro centrale qualificato, arricchendosi poi dei contributi di tutti e tutte in una serie di assemblee e consultazioni popolari da svolgersi ovunque in giro per l’Italia. Un programma dunque che ci aiuti a parlare ma anche ad ascoltare e che – per questa via – incrementi la nostra unità.

Non dunque una struttura federale a “canne d’organo” separate dalla base fino ai vertici[7], ma una struttura fluida e organizzata al tempo stesso, a cui si aderisca con nome e cognome, o collettivamente attraverso la propria organizzazione aderente o anche direttamente in maniera individuale.

Ma poter disporre di un elenco nominativo delle adesioni è un fatto assolutamente fondamentale perché solo attraverso un tale elenco si può pensare di poter prendere le decisioni (e sarà necessario prenderle) in forme democratiche vere e non plebiscitarie e mediatiche come le primarie piddine.

A questo proposito (ho già detto che non temo lo scandalo) credo che abbiamo da imparare qualcosa perfino da Grillo: mi riferisco alla struttura originale dei “5 Stelle” costituita da un centro di “garanti” che resta esterno alle istituzioni e da una base organizzata sulla base di adesioni nominative che designa gli incarichi istituzionali. Per noi – evidentemente – il centro garante non sarà il guru ma – per ipotesi – un ristretto comitato di compagni e compagne autorevoli e sottratti a qualsiasi velleità istituzionale, e la base degli aderenti non saranno i clic dei like ma un sistema organizzato e certificato di voti in assemblee popolari[8].

I compagni che sorridono pensando al modello-Grillo, si ricordino un attimo del modo con cui abbiamo designato i candidati e gli eletti nelle ultime esperienze unitarie a sinistra, e forse sorrideranno un po’ meno.

4.4. Un sistema concentrico di alleanze

Ma il processo di unificazione tendenziale dei comunisti e delle comuniste non esaurisce affatto il grande tema dell’unità, meno che mai sul terreno elettorale.

Attorno a una tale area unificata dei comunisti si deve e si può costruire un ulteriore sistema di alleanze: penso insomma a una serie di unità concentriche e diverse fra loro per grado di omogeneità. Ci sono compagne e compagni che ritroviamo nelle lotte, nelle mobilitazioni, nei conflitti su singoli temi, nei movimenti etc. e con i quali va costruita una stabile rete di rapporti unitari. Gli esempi possibili sono mille, e sarebbe inutile ricordarli tutti a voi: il movimento NoTav non è un nucleo di comunisti ma è impegnato in una battaglia che riveste un valore politico oggettivamente avanzatissimo perché mette in questione le scelte del comando capitalistico europeo calate dall’alto; lo stesso si può dire dei movimenti antimafia e anticamorra o di alcuni segnali di ribellione che vengono dai giovani e dagli studenti, delle lotte per il diritto ad abitare o degli sforzi di (auto-)organizzazione dei lavoratori migranti, dei democratici conseguenti che si sono espressi nei Comitati per il No a Renzi o della solidarietà internazionalista, del pacifismo radicale o dell’ambientalismo anticapitalista, e così via.

Se costituisce un errore attribuire un’automatica valenza rivoluzionaria a ogni mobilitazione puntuale e settoriale, sarebbe però un errore altrettanto grave trascurare, o peggio disprezzare, queste mobilitazioni per la loro parzialità: alla complessità della coscienza di classe si può arrivare solo attraverso la concretezza conflittuale di tali parzialità, e chi crede il contrario è solo un idealista anti-marxista che pensa che i comunisti possano nascere belli e fatti, completi di coscienza di classe, dalla testa di Giove, come la dea Minerva.

Solo su un tale terreno si può costruire anche la casa dei comunisti, ma tale terreno non è già dato, e a noi oggi tocca lavorare a ricostruire sia la casa che il terreno.

Tuttiavia la rigorosa distinzione fra le due cose è fondamentale: non si può confondere l’unità più vasta (nei termini classici e un po’ scolastici della nostra teoria: il fronte) con l’unità più stretta (nei termini classici e un po’ scolastici della nostra teoria: il processo di costruzione del partito); operare una simile confusione sarebbe fonte delle peggiori conseguenze e prefigurerebbe un ennesimo sbocco occhettian-vendoliano (cioè viziato in radice dall’anticomunismo) del processo unitario.

Qui, mi rendo ben conto, esiste un problema davvero formidabile: dobbiamo fare contemporaneamente due cose che sembrano contraddittorie, come cambiarsi le scarpe mentre si corre.

Che intendo dire? Che dobbiamo assolutamente organizzare un fronte unitario molto ampio, ma questa operazione ci ripropone spesso anche una nomenclatura a volte davvero insopportabile, un piccolo ceto politico, che è solo il detrito di alcuni decenni di errori e sconfitte e che non ha alcuna intenzione di trarsi da parte. Sarà dunque assai duro condurre questo processo di unificazione, ma non c’è altra strada che tentarlo, non dimenticando nulla ma perdonandoci l’un l’altro – per dir così – molte e molte cose del passato, per guardare in avanti.

5. Riprenderci la nostra storia, ricostruire la nostra narrazione

Ho detto “non dimenticando nulla”, e questo della memoria è un punto cruciale di tutto il ragionamento.

Il pensiero debole e post-moderno che ha egemonizzato il mondo sulle ali degli anni di Reagan e Thatcher, pretende e determina un popolo condannato all’ “eterno presente” capitalistico, un popolo senza memoria, senza una propria cultura politica, senza una propria tradizione di lotte, senza identità classista, senza storia. Se ci riflettiamo, il terribile effetto congiunto dei mass media onnipresenti e onnipervasivi e della distruzione capitalistica della scuola e dell’Università mira a questo obiettivo: creare un popolo senza storia, un proletariato ridotto a “gente”, a plebe, ridotto cioè a quello che era prima del movimento operaio. E non a caso somigliano all’Ottocento, più che al Novecento, molte delle lotte di classe a cui siamo costretti (a cominciare dalla rivendicazione del contratto nazionale di lavoro e delle libertà sindacali più elementari).

Decenni di sconfitte politico-sindacali, ma soprattutto di continui cedimenti ideologico-culturali hanno effettivamente devastato: c’è ormai una generazione che non sa nulla (posso testimoniarlo personalmente guardando alla coscienza storico-politica dei miei studenti), che non ha mai incontrato alcuna narrazione comunista, che non solo ignora tutto dell’Ottobre o del Vietnam o di Cuba ma non ha mai sentito parlare neppure della Resistenza. Non ci ingannino i livelli formali di scolarità: un contadino comunista semi-analfabeta degli anni Cinquanta sapeva infinitamente più cose di un ventenne di oggi cresciuto a merendine e videogiochi.

Hanno fatto un deserto culturale e lo hanno chiamato pace sociale.

Non nascondiamocelo: questo obiettivo ferocemente classista di azzeramento della memoria proletaria è stato in gran parte raggiunto in questi anni dal potere borghese, e ciò rappresenta oggi per i comunisti forse il più impervio dei problemi; un popolo senza storia non è in grado di riconoscere i suoi nemici, se la prende con il suo compagno di lavoro migrante, è capace solo di odiare indifferenziatamente “i politici che rubano” ma mai i propri sfruttatori.

Le classi dominanti non sottovalutano affatto il compito di privare di storia, e di una propria autonoma narrazione, le classi subalterne (che anche per questo sono subalterne!), anzi dedicano a questo obiettivo grande attenzione e notevoli energie, intellettuali e anche economiche. Ad esempio, in Italia non si spiega altrimenti l’accanimento con cui un giornale come “Il Corriere della Sera” si scaglia da anni contro la Resistenza, né si capirebbe la mascalzonesca campagna su Gramsci, che mira a dipingerlo come una vittima del PCI e di Togliatti protetto però paternamente da …Mussolini, per non dire degli assalti mediatici sistematici contro le esperienze di rivoluzione e di liberazione nazionale in America latina (di cui abbiamo visto esempi particolarmente disgustosi sulla stampa borghese in occasione della morte del compagno Fidel).

Il fatto è che la borghesia ha capito bene il valore della lotta di classe sul terreno dell’ideologia, dell’immaginario, delle narrazioni. Sembra a volte che costoro abbiano letto Gramsci più di noi, che lo abbiamo letto poco e male, e lo abbiamo spesso dimenticato.

La borghesia sa bene che convincere il proprio avversario della sua inesistenza come soggetto autonomo costituisce uno strumento formidabile per poter ridurre l’avversario in schiavitù. Si potrebbe dire, in questo senso, che la borghesia italiana ha trattato il proletariato esattamente come il colonialismo ha sempre trattato i popoli che opprimeva. È esattamente quello che la borghesia ha fatto in tutti questi anni: distruggere la nostra storia e impedire ogni autonoma narrazione del movimento operaio italiano, non essendo sufficientemente contrastata in questo sporco lavoro dai nostri gruppi dirigenti o addirittura venendo sostenuta da alcuni.

Nuotando come non mai controcorrente, spetta alla generazione di comunisti sconfitti che noi siamo consegnare alla generazione che ora si affaccia alla lotta un grande messaggio: che un popolo senza storia non esiste, che la nostra storia è grande, che le abbiamo prese ma le abbiamo anche date (e tante), che veniamo da lontano e andiamo lontano.

Raul Mordenti

(17/12-21/12 2016)

  1. C. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte (1852), con Prefazione di Federico Engels, Roma, Edizioni dell’Asino, 1896 (reprint Feltrinelli), p. 15.
  2. Mi sia permesso il rinvio a: R. Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria, Roma, Editori Riuniti, 2011, e Id. la rivoluzione, Milano, Marco Tropea, 2002 (entrambi i volumi sono largamente disponibili anche alla lettura gratuita on line).
  3. S-catenamento alla lettera, cioè liberazione dalle catene
  4. Un certo discostamento dalle indicazioni di voto del partito di riferimento si verifica anche per gli altri partiti, ma il dato relativo a “FI” (uno su quattro ha votato Sì) è di certo il più rilevante.
  5. La specificazione “del ’48” non è superflua perché – ad esempio – l’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio è contraddittorio con l’impianto della Costituzione antifascista e andrà denunciato e rimosso.
  6. L’elemento-tempo è decisivo, se sono fondate le considerazioni che abbiamo sviluppato all’inizio: non c’è più tempo da perdere, domani potrebbe essere troppo tardi.
  7. Fu questo il principale errore della “Federazione della Sinistra”, che attribuiva di fatto potere di veto ai vertici delle organizzazioni contraenti, i quali erano per lo più – per motivi diversi – molto poco interessati all’unità. Personalmente trovo imperdonabile la fine di quella esperienza operata dai vertici della “FdS” senza alcun coinvolgimento democratico della base militante e senza neppure preoccuparsi di definire motivi e responsabilità politiche di quella eutanasia.
  8. Non sarebbe difficile, in epoca di informatizzazione diffusa, registrare i partecipanti alle assemblee popolari e attribuire loro dei veri poteri decisionali, ad esempio in ordine alla nomina dei portavoce, alle candidature istituzionali o ad alcune scelte politiche dirimenti (evitando così anche ogni possibilità di “doppio voto”).

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