La scuola, ovvero il luogo della lotta di classe “dall’alto”

Relazione al Convegno nazionale “Appello per la Scuola pubblica”, organizzato dall’Associazione Nazionale per la Scuola della Repubblica, presso il Liceo “T.Tasso” di Roma, il 16-10-18

1. Warren Buffett il terzo, o il quarto, uomo più ricco al mondo, ha dichiarato: “La lotta di classe esiste, e la mia classe l’ha vinta.”               Scriveva, nel 2011, Domenico Mauceri (un italo-americano docente universitario in California) commentando questa affermazione:

“In America si crede al mito di una società senza classi ma in realtà esse esistono socialmente ma sono più visibili per quanto riguarda l’aspetto economico. Da notare soprattutto il divario finanziario creatosi negli ultimi decenni. Nel 1992 i 400 cittadini statunitensi con il reddito più alto guadagnavano una media di quaranta milioni all’anno. La cifra attuale è di 227 milioni. Durante questo periodo le tasse di questi ultraricchi sono diminuite dal 29 al 21 per cento.

Queste riduzioni delle tasse ai più abbienti coincidono con l’aumento della povertà negli Stati Uniti. Secondo dati pubblicati dal US Census, il censimento statunitense, il 15 % degli americani, ossia 46 milioni sono classificati come poveri.”[1]

A fronte di questa massa impressionante di poveri sempre più poveri (come costoro votano, ammesso che votino, è un altro discorso) esistono i ricchi sempre più ricchi.

L’uomo più ricco del mondo, secondo al rivista “Forbes” è Jeff Bezos di Amazon, con 91 miliardi di dollari; al secondo posto Bill Gates  con 89,7 miliardi di dollari, e così via.

Non sarà male ricordare che Jeff Brezos fa parte della “Defense Innovation Advisory Board” del Pentagono, come peraltro anche Eric Schmidt (capo di Alphabet, la holding che controlla Google), Marne Levine (di Instagram), Reid Hoffman (di LinkedIn), etc[2]. Si tratta evidentemente di una forma aggiornata di quel pericoloso e onnipervasivo “complesso militare-industriale” già denunciato da Eisenhower nel suo discorso di addio alla presidenza il 17 gennaio 1961.

Si calcola che quattro uomini al mondo posseggano da soli quanto possiede l’insieme degli Stati più poveri nel mondo. In Italia il record della ricchezza (fatti salvi l’evasione e l’elusione fiscali e l’enorme mole del capitale nero legato alla droga e alle mafie) è di Maria Franca Fossolo Ferrero (cioè della Nutella), che denuncia nel 2017 25,2 miliardi di dollari (ponendosi al numero 30 nel mondo), mentre Berlusconi  ha solo 7 miliardi di dollari all’anno, ed è solo il numero 188 nel mondo.

I dati sui cinque milioni di poveri in Italia sono noti a tutti: si tratta di 1,7 milioni di famiglie, pari al 6,9% del totale, e di oltre un milione di bambini e minori in situazione di “povertà assoluta”; per “povertà assoluta”, l’ISTAT intende (con il suo freddo linguaggio) “l’incapacità di acquisire i beni e i servizi, necessari a raggiungere uno standard di vita minimo accettabilenel contesto di appartenenza”, in altre parole significa non riuscire a mangiare, a vestirsi e ad avere una casa. Da notare che queste cifre sono in costante aumento, che nel 2017 (dopo i Governi Renzi e Gentiloni) hanno superato il record negativo stabilito nel 2005, e che ci pongono ora all’ultimo posto in Europa.

Facciamo qui un solo caso di alti stipendi per l’Italia: Giovanni Castellucci, l’amministratore delegato di Atlantia, la società dei Benetton che controlla Autostrade a cui si deve fra l’altro la tragedia del ponte Morandi, riceve (secondo il quotidiano “Il Fatto”) 400.000 euro al mese, e dal 2006, quando ha assunto il suo incarico, ha incassato (stavo per dire: guadagnato) quasi 40 milioni di euro. Come ricorderete, l’azienda dei Benetton è la stessa che spendeva 27.000 euro all’anno (a fronte dei milioni che spendeva la deprecata proprietà pubblica delle autostrade) per la manutenzione e la messa in sicurezza delle strade e dei ponti. Castellucci inoltre non è licenziabile a causa di un contratto che gli riserva, in caso di licenziamento e perfino in caso di una riduzione di potere, un risarcimento forfettario di 11 milioni di euro[3].

E domandiamoci: quanto altri Castellucci ci sono in Italia, con simili scandalosi stipendi,  nel privato, ma anche nel pubblico o nel semi-pubblico? Comunque il Governo propone ora la flat tax, cioè di ridurre le tasse ai più ricchi eliminando la progressività delle imposte prevista dalla Costituzione.

Bastino questi sparsi accenni per ricordarci che chiunque risponda alla necessità di spese per la scuola con il mantra “Certo, sarebbe giusto, ma purtroppo non ci sono i soldi” merita solo il nostro disprezzo.

Ancora Mauceri scrive a proposito della lotta di classe:

“Tagliare le pensioni della Social Security per  proteggere i più ricchi equivale infatti a lotta di classe. Ridurre il Medicare, la sanità governativa per gli anziani, e il Medicaid, l’assistenza sanitaria per i poveri, equivale anche a lotta di classe. Non chiedere a coloro che hanno beneficiato di più dell’attuale sistema economico e sociale il loro giusto contributo equivale a lotta di classe.”[4]

Tagliare i fondi della scuola pubblica e dell’università pubblica, distruggerle, metterle nell’impossibilità di funzionare, costringere i docenti a pratiche assurde, umilianti, distruttive, è lotta di classe dall’ “alto”, contro il “basso”.

  1. La scuola è al centro di questa lotta di classe dall’ “alto”, e credo che la sinistra sociale e politica[5]non se ne renda ancora conto.

Infatti colpendo la scuola non si colpisce solo un servizio pubblico (come accade nei trasporti o nella sanità) ma si fa molto di più: (a) si colpisce la possibilità delle masse popolari di avere strumenti di conoscenza, e dunque di autonomia e di lotta, e (b) si colpisce la loro stessa speranza, concentrata nel futuro dei loro figli e delle loro figlie.

Quanto al primo punto (la privazione sistematica di strumenti culturali, in modo tale da rendere il popolo servo), basti una citazione che mi è capitato di ricevere via WhatsApp da un mio compagno africano, un brano che sarebbe stato pronunciato da Lord Thomas Babington Macaulay (politico, intellettuale e funzionario britannico: 18001859) al Parlamento britannico il 2 febbraio 1835:

“Ho viaggiato in lungo e largo l’India e non ho visto un mendicante né un ladro. Ho visto in quel paese tali valori morali, persone di tale livello che penso che noi non avremmo mai conquistato questo paese, a meno di non spezzare la spina dorsale di questa nazione, cioè la sua spiritualità e il suo patrimonio culturale. Pertanto, propongo di sostituire il suo vecchio e antico sistema educativo, la sua cultura, così che quando gli Indiani penseranno che tutto ciò che viene dall’estero, e in particolare dall’Inghilterra, è migliore di quello in cui credevano, allora essi perderanno la loro autostima, la loro cultura nativa e diventeranno ciò che noi vogliamo diventino, cioè una nazione veramente asservita.”         Ebbene, questa citazione è troppo bella per essere vera, e infatti essa è falsa [6], è una fake news diffusa probabilmente dai nazionalisti indiani. Ho voluto proporvela ugualmente per ricordare a tutti noi che anche questo modo di comunicare fa parte del nostro tempo, anzi del tempo dei nostri studenti, e noi dobbiamo farci i conti, perché la necessarissima capacità di verificare la fondatezza di ciò che si legge rimanda con forza alla centralità del nostro problema, cioè della scuola. Tutti noi (e specialmente i nostri giovani) riceviamo sempre più notizie e siamo sempre meno in grado di verificarle. Leggere on line (nei siti web o sui nostri cellulari, etc.) è cento volte più facile che leggere in un libro o in una rivista o in una enciclopedia, ma verificare la fondatezza o l’attendibilità di ciò che si legge è nel caso della comunicazione on line mille volte più difficile che nel caso dei libri o delle riviste[7]. Qui c’è evidentemente un problema di prima grandezza che mette in discussione la stessa democrazia, perché un popolo disinformato, cioè non in grado di giudicare, non è un popolo veramente libero.                Come si può pensare di affrontare un simile problema (che è un problema cruciale della nostra epoca) togliendo scuola? Sembra quasi che quello che gli imperialisti inglesi hanno fatto contro i popoli delle colonie da loro dominati, venga oggi messo in atto, non si sa quanto consapevolmente, dalle nostre classi dominanti contro la “colonia interna” rappresentata per loro dalle masse popolari.

Domandiamoci: quanta scuola si toglie  ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze costringendoli al lavoro gratuito dell’ “alternanza scuola lavoro”? Quanta scuola si toglie  ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze con il precariato dei/delle docenti? Quanta scuola si toglie  ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze con i riti assurdi e dannosi della valutazione? Quanta scuola si toglie  ai nostri ragazzi e alle nostre ragazze risparmiando irresponsabilmente sugli insegnanti di sostegno e sul tempo pieno? E così via.

Quanto al secondo punto (la privazione della speranza) occorre essere consapevoli che la spinta popolare di massa verso l’istruzione (in parole più povere e più vere, la diffusa e accanita volontà di “mandare i figli all’Università” e, per la prima volta nella storia nazionale!, anche le figlie) è uno dei fatti più straordinari della lotta di classe, quella vera, “dal basso”.

Sa di che cosa parlo chiunque abbia visto, come capita di vedere a me, certe sedute di laurea degli studenti e delle studentesse della mia Università di “Tor Vergata”: personalmente, in base all’esperienza di tanti anni, sono giunto a formulare la seguente legge: “Il numero dei parenti presenti alla laurea è inversamente proporzionale al livello di reddito della famiglia del/la laureato/a” (insomma, tanto più la famiglia è povera, tanto più massiccia e partecipe è la presenza familiare alla seduta di laurea). Se alla seduta di laurea sono presenti, oltre ai genitori, anche nonni e nonne, zii preti e zie monache, cognati e cugine, nipotini e bambini lattanti, ex-balie e vicini di casa, allora questo significa che tutta intera quella comunità si è impegnata e sacrificata per ottenere quella laurea, per far sì che quel ragazzo o quella ragazza potesse stare per anni lontano da casa, senza produrre alcun reddito ma anzi costando parecchio in tasse, casa, viaggi, cibo, vestiti, trasporti, libri, etc. È più che probabile che ciascuno di quei numerosi parenti presenti alla laurea abbia messo del suo, una parte del suo salario o della sua pensione, un bel po’ di risparmi e di debiti, di straordinari e di lavoretti aggiuntivi, un prestito, un regalo, un sacrificio, o semplicemente un favore o una raccomandazione, una umiliazione, una goccia del suo sangue. Sono storie italiane, anzi le più italiane delle storie, come sono sempre quelle che hanno al centro la famiglia.

Personalmente – se posso dirlo senza scandalizzare le “anime belle” dell’ortodossia –, mi sembra che questa spinta popolare a far studiare i propri figli e le proprie figlie appartenga alla silenziosa epopea del nostro popolo, mi sembra che essa sia non solo eroica[8]e commovente ma anche fondamentale (politicamentefondamentale, intendo dire), e che sarebbe necessario e urgente entrare in connessione profonda con essa.

3. Qualche anno fa, in occasione del movimento contro la distruzione della scuola e dell’università firmata dalla Gelmini, mi capitò di produrre in un mio libro (R. Mordenti,  L’università struccata. Il movimento dell’Onda tra Marx, Toni Negri e il professor Perotti, Milano, Punto Rosso, 2010, pp. 14 e sgg.) una Tabella degli immatricolati, dei laureati e dei docenti, negli anni che vanno dal dopoguerra fino agli Ottanta.[9]             Quella Tabella, nel suo andamento prima lentamente crescente, poi impennato negli anni ’70 e infine decrescente, poteva essere letta come un eloquente riassunto della lotta di classe in Italia e delle sue alterne fortune: subito dopo la guerra si registra un certo aumento di iscritti all’Università e di laureati; ma dopo la sconfitta del 18 aprile ’48 segue il terribile immobilismo dell’Italietta democristiana degli anni Cinquanta, e il numero degli studenti universitari addirittura diminuisce in valore assoluto, scendendo  dai 190.799 del 1946 fino a toccare nel 1954 il punto più basso di sempre (solo 136.458 studenti universitari in tutta Italia!). Poi la lenta ma costante avanzata, corrispondente all’avanzata sindacale e politica del movimento operaio, che si accentua fortemente nel corso degli anni Sessanta.

A confermare il carattere assolutamente unitario del sistema dell’istruzione, dalla scuola dell’obbligo (anzi dalla materna) fino all’università, occorre riflettere al fatto che dietro questa spinta popolare all’istruzione universitaria che si esprime nel ‘68 c’è una circostanza decisiva: nel 1962-3, col primo Governo di centro-sinistra, si pose mano alla riforma della scuola media inferiore, che – fra gli alti e disperati lai della destra, che deplorava la fine della cultura italiana e della libertà – fu “unificata”. Fino ad allora, già dopo le elementari (cioè a 10 anni di età) si determinava un bivio: o l’avviamento al lavoro, senza  alcuna possibilità di proseguire più avanti negli studi, oppure la scuola media, con tanto di latino, che apriva la strada ai Licei (vi lascio indovinare quale classe si avviasse al lavoro e quale altra classe proseguisse invece gli studi). Ebbene sono esattamente cinque gli anni che separano quella riforma della scuola media unificata dal ’68, i cinque  anni della scuola secondaria superiore: insomma la generazione di matricole che arriva all’università alla fine degli anni Sessanta è la prima che ha potuto frequentare la scuola media unificata, e chissà quante brillanti intelligenze sarebbero state perdute per il Paese se fossero state escluse fin dalle medie. Per la prima volta nella storia d’Italia,si arrivò all’Università provenendo da settori sociali non borghesi, avendo alle spalle famiglie in cui quello studente o quella studentessa erano (come cantò un poeta) “della razza mia / il primo che ha studiato”[10].

È da notare che la spinta popolare verso l’Università di massa si esprime però soprattutto in termini di studenti iscritti, mentre il numero dei laureatinon aumenta affatto in misura corrispondente, anzi resta sostanzialmente inchiodato. Ancora più statico il numero dei professori, che resta pressoché stazionario: così il rapporto numerico professori/studenti passa da 1/28,6 nel 1955 a 1/40,4 nel 1965. Dell’aumento dei fondi per il diritto allo studio o dell’edilizia universitaria è meglio non parlarne (basti dire che si sarebbe dovuto almeno raddoppiaretali voci solo per conservare la quota di spesa pro capiteper studente dei primi anni Sessanta).

Questo quadro così contradditorio (molti studenti, pochissimi professori, pochi laureati) esplose dunque nella seconda metà degli anni Sessanta, quando il numero degli studenti praticamente raddoppiò in un solo quinquennio, passando dai 259.338 del 1964 ai 488.388 del 1969 (più 88% in un quinquennio![11]). Qualcosa, e qualcosa di importante, succedeva nel frattempo anche dentrol’Università, dopo il ’68 e grazie al ’68: ad esempio ora aumentava per la prima volta e significativamente anche il numero deilaureati, non solo quello degli iscritti. Considerando il numero dei laureati in rapporto con quello degli immatricolati di cinque anni prima (assumendo cioè un quinquennio come durata media di una laurea) si aveva una percentuale del 49% di laureati nel quinquennio per il 1960-65, ma questa percentuale salì al 55% nel quinquennio “del ’68”, cioè il 1965-70.

Si arrivò così al picco del numero di studenti nel 1978-79, che poi cominciare di nuovo a calare dopo la sconfitta del movimento e della classe operaia legata al post-’77.

Chi volesse sapere come va la lotta di classe in Italia potrebbe basarsi, oltre che sulla dinamica salariale, anche sull’andamento delle iscrizioni all’università.

                        Tabella 1: Andamento storico iscritti/laureati/docenti 1950-1982
  1. Ora, naturalmente, quella Tabella andrebbero aggiornata e interamente rifatta, soprattutto dopo la micidiale invenzione del “3+2”; ma alcuni dati statistici disponibili sono agghiaccianti.

Secondo il XVIII rapporto Almalaurea fra il 2003 e il 2015 l’università ha persoil 30% di studenti, pari a 70.000 unità in meno. L’OCSE rileva in Italia il 18% di laureati, contro il 41% della Svizzera, il 46% della Gran Bretagna e la media del 37% dei paesi OCSE (fa peggio dell’Italia solo il Messico)[12]. Siamo ultimi anche per la spesa per l’istruzione, al 7,1%, che è addirittura diminuitadel 9% rispetto al 2010; l’OCSE commenta che questa diminuzione “è l’indice di un cambiamento nella priorità delle autorità pubbliche piuttosto che di una contrazione generale di tutte le spese governative”, insomma – per chi non l’avesse capito – questo è il segno della sceltadei Governi che si sono succeduti in Italia di distruggere l’istruzione pubblica.

Nella classe d’età compresa fra i 30 e i 34 anni c’è nell’Italia del 2017 il 26,0% di laureati, contro la media europea del 39,1%. Il che non ha impedito all’ineffabile ministra Fedeli di vantarsi per il nostro numero di universitari, superiore a quelli di altri paesi europei: peccato che la poveretta si riferisse ai numeri assolutiinvece che alle percentuali e che il numero degli abitanti in Italia sia un po’ più cospicuo di quello degli abitanti dell’Olanda e del Lussemburgo: roba da matti.

Ciononostante, dal 2008 al 2014 (cioè dopo la cosiddetta crisi) gli studenti universitari in Italia sono diminuitiancora del 9%, mentre nello stesso periodo in Europa sono aumentatidel 7%, in Germania sono aumentatidel 35%; le tasse universitarie in Italia sono aumentate del 60% tra il 2005 e il 2015, e sono le più alte in Europa dopo l’Olanda e il Regno Unito; chissà se c’è qualche rapporto fra queste cifre e il fatto che solo il 53,6% dei diplomati si immatricoli all’università e solo il 10% degli studenti giunga alla Laurea magistrale?

Siamo il paese europeo che spende meno per l’università: l’1,2% del Prodotto Interno Lordo, contro il 2,8% della Germania, il 2,2% della Francia il 3,0% degli USA, il 2% della media europea. Per raggiungere quella media europea occorrerebbe dunque raddoppiare gli stanziamenti per l’università; invece dal 2003 al 2013 il finanziamento pubblico all’università è diminuitodel 22% mentre in Francia era aumentato del 3,9%, e in Germania è aumentato del 23%. Limitandoci agli anni della crisi, dal 2008 ad oggi, la spesa pubblica per l’università in Italia è diminuita dell’8%, in Germania, nello stesso periodo, è aumentata del 42%, proprio perché a fronte della crisi economica l’investimento nell’università e nella ricerca è un modo per fuoruscire dalla crisi. Altro che riduzione del cosiddetto “debito” con politiche economiche deflattive e di austerity! (cioè di riduzione della spesa pubblica).

È semplicemente incredibile la notizia che proprio in questi giorni pubblicano i giornali, con assoluta disinvoltura: in Italia già oggi mancano, e mancherannodrammaticamente nel prossimo futuro, decine di migliaia di medici; ebbene ciò è la diretta conseguenza del “numero chiuso” imposto, nel consenso generale[13], nelle Facoltà di Medicina, e ogni anno migliaia di aspiranti matricole sono mandate a casa sulla base di test tragicomici. In un paese normale si abolirebbe subito il numero chiuso e si interverrebbe con adeguati finanziamenti per garantire una formazione adeguata (le Scuole di specializzazione e il praticantato) agli aspiranti medici di cui abbiamo un evidente bisogno. Anzi in un paese serio qualcuno nel MIUR chiederebbe scusa per aver obbedito con tanta miopia alle pressioni delle potenti corporazione dei medici. Nulla di tutto questo accade da noi.

I professori universitari italiani sono passati dai 63.000 del 2008 ai 49.000 nel 2016, e i precari sono passati da 19.000 nel 2003 a 67.000 nel 2013: oggi il 48% dei docenti sono precari (nel frattempo è stato perfino abolito il ruolo dei ricercatori, cioè la “terza fascia” che funzionava come accesso alla docenza universitaria), negli ultimi dieci anni sono stati tagliati circa un quinto dei docenti e dei corsi.

Una intera generazione di giovani studiosi è così eliminata, con conseguenze terribili, e irreparabili, per il futuro della ricerca, dato che si interrompono linee e tradizioni di saperi che nessuno potrà mai più ricostruire.

5. Ma sarebbe un grave errore credere che la lotta di classe in cui la borghesia capitalistica si è impegnata, per ora vincendola, riguardi solo i redditi e i finanziamenti. Non saremmo gramsciani, se non capissimo che questa lotta fra le classi, come tutte le lotte, si svolge anche o soprattutto sul terreno ideologico, cioè si basa su una narrazione (oggi si dice: su uno storytelling) che il capitale produce e diffonde con molta cura e anche investendovi molto denaro. È la diffusione e la condivisione di questa narrazione ciò che ha reso senso comune delle masse il punto di vista ferocemente classista del capitalismo, lo ha reso insomma, in uno strano e mostruoso modo[14], egemonico.

Ce lo ricorda il compianto Luciano Gallino che, ad esordio di un suo libro-intervista del 2012, elenca una serie di colossali falsità e di micidiali sciocchezzeche governano il nostro senso comune egemonizzato dal capitalismo:

“(…) il maggiore problema dell’Unione europea è il debito pubblico. Abbiamo vissuto troppo a lungo al di sopra dei nostri mezzi. Sono le pensioni a scavare voragini nel bilancio dello Stato. Agevolare i licenziamenti crea occupazione. La funzione dei sindacati si è esaurita: sono residui ottocenteschi. I mercati provvedono a far affluire capitale e lavoro dove è massima la loro utilità collettiva. Il privato è più efficiente del pubblico in ogni settore: acqua, trasporti, scuola, previdenza, sanità. È la globalizzazione che impone la moderazione salariale. Infine le classi sociali non esistono più.”[15]

Non una di queste falsità e sciocchezze regge al ragionamento, all’analisi, alla documentazione (e infatti Gallino, come tanti economisti seri[16], le smonta una per una); è un elenco (come osservano Gallino e  Borgna) degno dei tragicomici personaggi flaubertiani Bouvard e Pécuchet, i campioni dell’idiozia del senso comune borghese. E, se non bastassero i libri degli economisti liberi e seri, sono i fatti a smentire quell’elenco di colossali falsità e di micidiali sciocchezze: in tutto il mondo, dall’Argentina alla Grecia, alla stessa Italia, più si obbedisce a quell’ideologia neoliberista e ai suoi diktat più l’economia peggiora, fino al disastro.            Eppure quelle falsità e quelle sciocchezze governano il mondo, e il nostro Paese.

Per questo non credere più alle bugie che l’avversario racconta è il primo e decisivo gesto di ogni liberazione.

Ricordo che preparare, e consentire, il ’68 fu decisivo un piccolo libretto di un prete fiorentino che distrusse l’idea (allora dominante) secondo cui la selezione era l’inevitabile e oggettivo risultato dell’impegno e del merito di ciascuno studente, e di niente altro. Io sono abbastanza vecchio da ricordare quanto quell’idea (non meno assurda di quelle elencate da Gallino) fosse al tempo dominante e condivisa, e determinasse nelle vittime della selezione scolastica non solo esclusione ma anche depressione, disistima e disprezzo rivolti contro se stessi. Chissà se quell’assurda idea è tornata oggi a essere dominante e condivisa.

No, ci spiegò una volta per tutte quel prete – in quel libretto scritto con l’aiuto dei suoi ragazzi contadini – la selezione è un fatto di classe, in cui intervengono in modo determinante, assai più di quanto gli interessati siano disposti ad ammettere, i “cromosomi del Dottore”, cioè la situazione familiare di classe di cui Pierino (il figlio del Dottore), ma non i suoi compagni, poteva disporre.

La selezione nella scuola non è altro che una forma della lotta di classe dall’”alto”: è l’esclusione dal sapere che la classe dominante opera contro la classe degli sfruttati e dei subalterni, alla faccia della Costituzione.

L’idea della cosiddetta “meritocrazia” gode ancora di buona stampa,  anzi è passata dalla destra estrema, a cui apparteneva in origine, all’intero centro-sinistra; tuttavia essa presenta (come dire?) qualche ammaccatura, ed ecco allora che è stato necessario mettere in campo un suo rafforzativo, cioè ammantarla di un’armatura che appaia incontestabile, fatta di cifre, di quantità, di test, e – ci sta sempre bene – di informatica.

E venne l’era della valutazione, dall’Invalsi all’ANVUR.

Per chi non lo sapesse, l’ANVUR (l’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca) fu istituita dal centro-sinistra, Ministro Fabio Mussi, nel 2006. L’ANVUR è di nomina governativa e dunque ora il Governo può valutare e controllare la ricerca, in spregio dell’autonomia dell’Università e della libertà della ricerca. Mi permetto di far notare che – nonostante il regime appena descritto di tagli e tagli e tagli – l’ANVUR ci costa moltissimo, ben 7.652.871 euro per il 2017, di cui 1.599.000 euro per gli organi dell’ente, 210.000 euro all’anno per il solo Presidente e 982.000 euro per i Consiglieri (che sono sei), etc.

In realtà (non c’è modo di sviluppare in questa sede il ragionamento[17]) la valutazione dell’istruzione che ci viene imposta non può neanche essere definita, in termini scientifici, una vera e propria valutazione[18], tali e tante sono le sue pecche e le sue contraddizioni. Ma non è questo che conta: quello che conta è sostenere e diffondere un nuovo principio ispiratore della nostra scuola e della nostra università, una nuova ideologia. La valutazione è essenzialmente tale ideologia, dogmatica come una religione, necessaria per legittimare e far accettare all’opinione pubblica la distruzione dell’istruzione pubblica.

Per l’università i giudizi dell’ANVUR e la cosiddetta VQR[19], servono infatti a finanziare, o definanziare, i Dipartimenti e le Università in base alle loro “virtù”[20], ed  essendo il totale del finanziamento pubblico costante o addirittura in diminuzione, ecco allora che quello che si dà a qualcuno si leva a qualcun altro, e vi lascio indovinare a quali zone del paese e a quali facoltà si tolga e a quali si dia. La Lombardia, da sola, ha più dipartimenti “virtuosi” (e cioè iperfinanziati) di tutto il Meridione d’Italia, isole comprese. Così essi almeno rispettano una frase del Vangelo (e una sola):“A chi ha, sarà dato, e sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha” (Matteo, XXV, 29).

Ma, si converrà: un conto è dire che si colpiscono le università povere o meridionali, e un altro conto è raccontare che si premiano quelle oggettivamente, anzi scienza della valutazione alla mano, “virtuose” a spese di quelle oggettivamente, anzi scienza della valutazione alla mano, “fannullone”.

D’altronde Renzi, che proprio per la sua patologia psichica almeno parla chiaro, lo disse senza tanti complimenti al Politecnico di Torino nel febbraio 2015: “Dobbiamo avere il coraggio di dire che questa storia per cui in Italia non si può affermare che ci siano diverse qualità fra le diverse università è ridicola. Già ci sono università di serie A e di serie B in Italia…”.

Già, ma il problema consiste appunto nel decidere se le università, e le zone del paese e le classi, più deboli debbano essere – per ipotesi – finanziate di più o semplicemente finanziate meglio, oppure al contrario debbano essere ulteriormente de-finanziate e fatte morire.

Il discorso si fa ancora più chiaro, e più drammatico, se consideriamo la valutazione nella scuola, con i famigerati test Invalsi. Di questo parleranno qui altri Colleghi molto meglio di me. Io mi limito a domandare: una maestra che riesce con il suo accanito lavoro a inserire un bambino svantaggiato o straniero deve essere valutata migliore o peggiore di una che – per ipotesi – abbia avuto in sorte una classe di bambini borghesi, e che magari abbia provveduto, con un’oculata politica di bocciature, a liberarsi dei bambini più deboli? E, non ci illudiamo, a partire dai test Invalsi tutta la didattica sarà sconvolta, giacché non piace a nessuno essere valutato oggettivamente, anzi scienza della valutazione alla mano, come un somaro, e dunque sarà inevitabile che l’attenzione e la cura didattica degli insegnanti si spostino progressivamente verso gli allievi migliori a spese dei più deboli.

Come si vede siamo qui di fronte a un vero e proprio rovesciamento di valori-guida, a una contro-rivoluzione anzitutto valoriale: per la Costituzione (art. 34: “la scuola è aperta a tutti”) vale, e deve valere, il principio democratico “Non uno di meno”. Il rozzo principio capitalistico del premio all’“eccellenza” (senza considerare, per ora in questa sede, se e come una tale eccellenza possa essere davvero misurata) si sostituisce invece a quello sacro della democrazia e dell’eguaglianza. Così si colpisce a morte il più prezioso strumento sociale di accoglienza, di inclusione, di promozione e di recupero dei più deboli, nessuno escluso, cioè la scuola pubblica, la scuola di tutti e per tutti.

Ma c’è della follia in questo metodo: tutto ciò accade proprio nel momento storico in cui il paese avrebbe più bisogno di scuola pubblica.

Infatti la scuola, e solo la scuola, può affrontare e aiutare a risolvere le vere emergenze storiche che sono di fronte a noi, dalla presenza benedetta di tanti nuovi ragazzi residenti non cittadini fino alle conseguenze della rivoluzione informatica, che sono ancora tutte da decifrare e da dirigere verso il meglio.

Dice la saggezza degli antichi (Euripide) che “Quos vult Iupiter perdere, dementat prius” (che significa “A quelli che vuole rovinare, Giove toglie prima la ragione”), il problema nostro è che questi privati di ragione, e di ragioni, che distruggono la nostra scuola, governano l’Italia e il mondo.

[1]D. Mauceri scrive su un giornale italiano pubblicato negli Stati Uniti: http://www.americaoggi.info/2011/10/10/27168-divario-sempre-crescente-buffett-la-lotta-di-classe-esiste-e-labbiamo-vinta-noi.

[2]Traggo le notizie su Brezos and Co. da un importante libro: D. Fiormonte, Per una critica del testo digitale. Letteratura, filologia e rete, Roma, Bulzoni, 2018, p. 14.

[3]Cfr. Castellucci non si può licenziare: ha una clausola da 11 milioni, in “Il Fatto Quotidiano”, 29 settembre 2018, p. 7; l’articolo cita anche una ricerca di M. Gabanelli comparsa sul “Corriere della Sera”.

[4]D. Mauceri, Op. cit.

[5]Dicendo “sinistra sociale e politica” non mi riferisco – è superfluo dirlo – alla liberal-democrazia piddina, espressione più o meno diretta del capitale finanziario italiano ed europeo, e comunque obbediente esecutrice di questo potere.

[6]Come un collega che insegna filosofia al “Tasso”, il professor Luigi De Luca, tanto più bravo di me con l’informatica, ha potuto verificare immediatamente, in tempo reale durante lo svolgimento del nostro Convegno.

[7]Basti riflettere al fatto che, nel caso della lettura on line, mancano completamente gli strumenti che, nella tradizionale lettura di libri o riviste, ci aiutavano immediatamente (senza che nemmeno fosse necessario pensarci troppo) a valutareciò che leggevamo: elementi come la firma dell’Autore, il prestigio della casa editrice o della rivista, la qualità della pubblicazione, la sua data etc., anzi spesso manca perfino il nome di chi ha scritto ciò che leggiamo, cioè la notizia è ora figlia di madre ignota, anonima, priva di qualsiasi responsabile(cioè di chi ne risponda).

[8]“Ai miei genitori, due eroi”: così dedicava la sua splendida tesi di laurea forse il migliore e il più dotato dei miei allievi, nel frattempo disperso (credo) nella disoccupazione e nel precariato.

[9]Mi sia consentito il rinvio a un libretto (credo introvabile in libreria, ma accessibile gratis on line) in cui articolo meglio questo ragionamento, dati alla mano: R. Mordenti,  L’università struccata. Il movimento dell’Onda tra Marx, Toni Negri e il professor Perotti, Milano, Punto Rosso, 2010, pp. 14 e sgg.

[10]“(…)va beh, lo ammetto chemi son sbagliato e accetto il crucifige e così sia, chiedo tempo, son della razza mia, per quanto grande sia, il primo che ha studiato” (F. Guccini, L’avvelenata).

[11]Si noti però che il numero dei professori restava quasi fermo: dai 7.018 del 1964 agli 8.045 del 1969: più 14% a fronte dell’88% di aumento degli studenti. Anche questa fu, a suo modo, una risposta delle classi dominanti italiane all’università di massa: ma non è questa la sede per argomentare questi ragionamenti, per i qual rimando al libretto citato.

[12]Cfr. l’articolo di S. Intravaia, in “Repubblica on line” del 12 settembre 2017.

[13]Mi sia consentito ricordare che la battaglia contro il numero chiuso, voluto al tempo dal Rettore della “Sapienza” Ruberti beniamino della sinistra, fu condotta da DP in assoluta solitudine.

[14]Infatti il capitalismo neoliberista e globalizzato non è, a rigore in termini gramsciani, propriamente egemonico, giacché esso non è affatto in grado di risolvere i problemi reali che sono all’ordine del giorno della storia; per questo ho parlato altrove (a proposito del berlusconismo) di una paradossale “egemonia senza egemonia” (ma sviluppare qui questo discorso ci poterebbe troppo lontano dal nostro tema).

[15]L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di Paola Borgna, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. v.

[16]Mi permetto fra i tanti possibili un solo un rinvio: U. Ceccoli, La guerra al lavoro e alla democrazia: trent’anni di globalizzazione, Firenze, Fondazione Ernesto Balducci, 2011. Si veda inoltre la produzione scientifica, sempre documentata e persuasiva, del prof. Luciano Vasapollo, largamente fruibile in rete.

[17]Sull’ANVUR è tutta da vedere la produzione, sempre documentata e accurata, del sito ROARS. Fondamentale anche  un numero monografico della rivista “Aut-aut” intitolato All’indice. Critica della cultura della valutazione, dell’ottobre-dicembre 2013. Chi scrive ha tentato di sviluppare questi argomenti in: I sensi del testo. Saggi di critica della letteratura, Roma, Bordeaux, 2017, pp. 290-320 (il capitolo “Valutare è finire”).

[18]Mi limito a citare un solo libro, fondamentale e ormai classico, nella sterminata bibliografia sul tema: J. Dewey, Teoria della valutazione, con un saggio introduttivo di Aldo Visalberghi, Firenze, La Nuova Italia, 1960.

[19]Valutazione della Qualità della Ricerca. Si noti che la Didattica, la quale costituisce e deve costituire esattamente la metà dell’attività universitaria (l’università è infatti didattica per la ricerca e ricerca per la didattica), viene così semplicemente soppressa.

[20]Costoro si esprimono così, parlando di Dipartimenti e di Università “virtuosi”. Si noti, non “promotori di eguaglianza”, non “promotori di cultura e ricerca”, non “ben funzionanti”, e neppure “efficienti”, no: “virtuosi” (o “di eccellenza”).

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