Alberto Asor Rosa, uomo di scuola

Raul Mordenti

Nel corso delle sue Dieci tesi, una densa messa a punto teorica e storica sull’italianistica e la critica letteraria[1], Alberto Asor Rosa scriveva nel 2004:

se la critica letteraria è ricerca della verità del testo, essa svolge (o continua a svolgere) una funzione demistificatoria, che è funzione lato sensu politica, in quanto si sforza di sottrarre il testo al velo ideologico-industriale che da molti punti di vista e direzioni diverse tende oggi ad avvolgerlo. Anche la ricerca scientifica è politica se non ubbidisce ai comandi delle forze dominanti.[2]

Non per caso, il saggio che stiamo citando si concludeva senza chiudersi, con un’apertura a successive riflessioni e ricerche, ancora e sempre a proposito del nesso fra letteratura e politica:

Sul perdurante senso “politico” della ricerca letteraria, e sui modi nuovi in cui questo si realizza attualmente anche nel campo della storia e della critica letteraria, interverrò, come ho detto, in altra occasione.[3]

Un problema, quindi che restava aperto, e restava centrale. Chi scrive non può dimenticare che su tale problema si svolse per decenni l’intenso suo dibattito con Asor Rosa[4], registrando consensi e dissensi, sempre come riscattati dall’amicizia e dall’affetto. Questo accadde a cominciare dalla mia prima decisiva discussione con lui (Asor Rosa era nella commissione della mia laurea, e difese con grande signorilità lo sconosciuto laureando che io ero, il quale osava criticare radicalmente il suo Scrittori e popolo) e fino agli ultimi incontri nostri prima della morte, in cui mi esplicitò (con una sinteticità inconsueta, in cui ora riconosco una certa necessitata fretta) che il suo dissenso con me si appuntava su un eccesso di immediatezza politica che egli ravvisava nel mio fare critica letteraria.

Ho parlato, con qualche obbligato tremore, dell’amicizia e dall’affetto, senza cui non credo si sarebbe potuto dare un dibattito così duraturo, e così produttivo per me. Ma credo di poter dire che al fondo c’era fra noi un punto di vero consenso, decisivo e operante anche se implicito: la centralità che per entrambi la scuola e la didattica assumevano per la letteratura.

La vasta produttività scientifica, l’originalità della critica letteraria di Asor Rosa e il suo ruolo di straordinario organizzatore di cultura (si pensi solo alla direzione della Letteratura italiana Einaudi) saranno certo fatti oggetto di esaustivi interventi in questo stesso fascicolo. Tuttavia a me sembra che tutto ciò rischi di far trascurare un tratto saliente che è appartenuto alla sua idea di letteratura non meno che alla sua personalità: Asor Rosa è stato sempre un uomo di scuola (e di quella sezione nobile della scuola che dovrebbe essere, per lui era, l’università) cioè un professore, nel senso più pieno e alto della parola.

Lo è stato – per dir così – biograficamente, e non ha mai disprezzato (come accade a tanti) i suoi anni di insegnamento al liceo, che anzi consigliava ai suoi allievi come una tappa essenziale per la formazione integrale di un italianista. E ancora in uno dei suoi romanzi ritornava senza alcuno snobismo a ricordare un insegnamento che aveva ricevuto (“Nell’autunno del 1943, in una prima media di una modesta scuola periferica di Roma”) da una non dimenticata “professoressa Spena” che lo ammoniva:

“Tra il presente e i tempi del passato i grammatici e gli scrittori antichi ponevano il ‘presente storico’: il tempo di ciò che, stato una volta, sarà per sempre”. Continuava la Spena: “Ragazzi, ricordatevelo bene, il ‘presente storico’ è il tempo della storia che non passa: serve a ricordare gli avvenimenti come se fossero ancora davanti ai nostri occhi. Cesare lo usa continuamente nel De bello gallico” (veramente, “veni, vidi, vici”, e allora? misteri e contraddizioni anche della più perfetta creazione intellettuale che ci sia, la logica scolastica).[5]

Ed è stato uomo di scuola all’università, anzitutto come docente, curando sempre, con priorità assoluta su tutto il resto, i corsi suoi e dei collaboratori della sua cattedra, ma anche come Direttore del Dipartimento di Italianistica della “Sapienza” (che aveva fondato), ad esemepio quando si impegnò nell’impresa[6] della “Fascia propedeutica”. Si trattava di un apparato didattico che coinvolgeva in un anno fino a 1.400 studenti e studentesse, con brevi corsi di base (ripetuti in orari diversi, dalle 8 alle 20, per consentire la frequenza), che impegnavano tutto il personale docente del Dipartimento (senza distinzione di ruolo accademico) e riguardavano “Strumenti bibliografici”, “Elementi di Linguistica”, “Elementi di metrica”, “Elementi di narratologia”[7]. Erano, come si vede, proprio quegli argomenti assolutamente necessari per gli studi di letteratura che tutti i docenti universitari vogliono che i propri studenti sappiano, ma che nessuno (prima di Asor Rosa) si peritava di insegnare loro.

Venendo poi al piano più propriamente critico non si può trascurare che nel secondo volume della sua Letteratura italiana Einaudi, quello dedicato di fatto a delineare i nuovi caratteri e confini di una letteratura italiana non più idealistico-storicista e desanctisiana[8], Asor Rosa, con un gesto assolutamente innovativo, abbia voluto ospitare un’intera, corposa e conclusiva, sezione dedicata a La scuola e la didattica. L’insegnamento dell’italiano[9].

Certo operavano in questa opzione di Asor Rosa profondi motivi teorici, riassumibili in un’intuizione benjaminiana:

Ma ciò che importa è forse meno un rinnovamento dell’insegnamento, della didattica da parte della ricerca, che quello della ricerca da parte della didattica. Poiché in diretto rapporto con la crisi della cultura e dell’educazione umanistica la storia della letteratura ha perso interamente di vista il suo compito più importante (per cui è nata come “bella scienza”) – e cioè quello didattico.[10]

E, naturalmente, pesava anche la partecipazione (personale, costante e convinta) di Asor Rosa al ’68, non certo al ’68 stravolto e deformato dalle ricostruzioni oggi prevalenti dei suoi nemici, ma semmai a quello che seppe leggere un altro grande studioso che il ’68 lo visse e lo fiancheggiò, Cesare Segre:

C’è però quest’idea, un’idea che mi è cara (…), che gli studenti fossero gli ultimi rappresentanti della civiltà e della cultura tradizionale. Loro devono avere intravisto questi sviluppi a cui poi noi abbiamo assistito: per esempio loro parlavano già molto di multinazionali e di giustizia di classe, molti degli slogan degli studenti mi pare che prevedessero certi sviluppi.[11]

Ma a me sembra che nell’attenzione per la scuola di Asor Rosa ci sia qualcosa in più. Questo “qualcosa” alcuni potrebbero farlo risalire a una declinazione originale del rapporto fra intellettuali e classe operaia[12], o alla categoria passe-partout dell'”operaismo”[13]. Io direi che questo “qualcosa” è – al tempo stesso – più personale e più profondo, non per caso da lui mai esplicitato: forse è la volontà del figlio del dipendente delle Ferrovie Alessandro Asor Rosa di non abbandonare la classe di suo padre, di non voltarle le spalle. Perché in fondo la scuola, da cui tanti come Alessandro furono esclusi, è il punto in cui la letteratura tocca terra, il luogo in cui tutti e tutte possono accedere alle opere letterarie, oppure venirne esclusi per sempre.

Confermano quest’attenzione costante per le didattica della letteratura i volumi che Asor Rosa ha dedicato nel corso di tutta la sua vita alla letteratura nella scuola, a cominciare da un libretto giovanile e umilmente strumentale (una guida per i temi scolastici), scritto con Carlo Muscetta nel 1964[14] (dunque prima di Scrittori e popolo). Ma è già all’opera un Asor Rosa didatta originale e maturo nella innovativa Storia e antologia della letteratura italiana per la Nuova Italia[15], e via via fino ai più recenti volumi einaudiani la Storia europea della letteratura italiana[16] e la Breve storia della letteratura italiana[17]. Non è questa la sede, e non ce ne sarebbe lo spazio, per riportare la ricca riflessione teorica asorrosiana in ordine alla storiografia letteraria. Rimandando (e non solo per questo) all’indispensabile Meridiano mondadoriano curato da Luca Marcozzi[18], basti citare il luogo in cui Asor Rosa nel 2014 ha fatto sintesi della sua lunga riflessione sul cruciale tema, anche ripercorrendo e rivedendo i suoi contributi precedenti[19].

A conclusione della prolusione nell’aula I di Lettere con cui dette addio all’insegnamento universitario per il pensionamento, Asor Rosa si paragonò a un animale preistorico in via di estinzione che faceva risuonare il rumore dei suoi “zamponi” in un mondo mutato e ostile. Se dovessimo riprendere ora quell’amara metafora, alcuni anni dopo, noi non potremmo che definire noi stessi come scheletri di una specie estinta difficili anche da ricostruire per i musei, essendosi ormai compiuta la distruzione capitalistica dell’università e della scuola che Asor Rosa vedeva delinearsi allora.

Può dunque rivestire un qualche interesse per i contemporanei più giovani la testimonianza di un estinto, piuttosto che di un sopravvissuto[20]: “C’era una volta…” o, per chi diffida delle fiabe, “Ci fu un tempo…”.

Negli anni Ottanta Asor Rosa volle pubblicare sul “Bollettino di Italianistica” (del Dipartimento di Italianistica della “Sapienza” che allora dirigeva) una Bibliografia sul dibattito in merito alla didattica della letteratura nel periodo ’82-’86[21]. Ricorderò sempre che un autorevole e coltissimo professore ordinario obiettò polemicamente a quella scelta con una frase divenuta per noi memorabile: “Esiste anche una didattica della letteratura?” (in realtà quella bibliografia ammontava già allora a ben 40 pagine fitte solo di titoli). Anche se quell’autorevolissimo professore ordinario non se ne era accorto, c’era in quegli anni un affollarsi di iniziativa e attenzione e di produzione culturale. E anche quella bibliografia sterminata rappresentava solo la punta di un iceberg.

In principio (come spesso accade per noi italiani) era la Francia: un memorabile colloque di Cerisy-la-Salle L’enseignement de la littérature (1969) e Roland Barthes, il quale disse – in modo definitivo – che l’espressione “insegnamento della letteratura” rappresenta in realtà una tautologia, perché la letteratura è ciò che si insegna. In Italia ricordo progetti di ricerca nazionali come DILIS (Didattica della Letteratura Italiana e Straniera) diretto da Giuliana Bertoni Del Guercio e articolato in gruppi di ricerca regionali[22], o RIDL (Ricerca e didattica della letteratura) diretto da Annalisa Goldoni[23], un cosiddetto PRIN (cioè Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale) finanziato dal Ministero; una vasta riflessione e sperimentazione sulle “150 ore” (che nessuno ricorda più cosa siano state: dirò allora che si trattava di un monte-ore retribuite per lo studio conquistate nei loro contratti da alcune categorie operaie) un’esperienza a cui parteciparono a Roma maestri come Armando Petrucci, Tullio De Mauro e, naturalmente, Alberto Asor Rosa; c’erano riviste dedicate come “Riforma della scuola”, “Insegnare”, “Scuolanotizie”, “Scuola e Città”, “Rossoscuola”, “École”, “EDA Educazione degli Adulti”, etc.; c’erano inoltre vitali strutture associative di docenti come il CIDI o il Centro Romano di Semiotica di Franca Mariani Ciampicacigli (ricordo un convegno alla Biblioteca nazionale di Roma con la partecipazione di un migliaio di insegnanti), il demauriano GISCEL (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica) e il sempre esemplare MCE; c’era una fitta serie di seminari permanenti all’Università con docenti della scuola, a cui Asor Rosa partecipava sempre; e tutto ciò non riguardava solo gli insegnanti di Lettere, anzi l’esempio per tutti noi fu il lavoro sulla Didattica della matematica che, inaugurato da Lucio Lombardo Radice, era al tempo diretto da Clotilde Pontecorvo; c’erano gli Uffici Scuola del partiti (non solo quelli di sinistra) e dei sindacati; per non dire della produzione di innovativi strumenti didattici e di manuali che impegnava allora i più importanti studiosi italiani, da Lidia De Federicis e Remo Ceserani ad Alberto Asor Rosa, da Cesare Segre a Lore Terracini, da Romano Luperini a Franco Fortini e tanti altri.

Certo, in tanto fare furono fatti anche tanti errori, ma tutti sempre vitali e correggibili nel dibattito, come quello contro i pericoli della “logotecnocrazia” segnalati da un memorabile intervento di Cesare Cases.

“Un altro mondo”, per usare un’espressione che Anna Angelucci utilizza nel suo importante libro[24] quando descrive l’avanzatissimo dibattito istituzionale sulla riforma dei programmi e dei curricula di quegli anni, culminato nei “Programmi Brocca” del 1988 (frutto di un ampio dibattito e del tutto definiti, ma – chissà perché? – mai messi in pratica).

Un altro mondo, rispetto al “pensiero unico” e banale che pensa e vuole la scuola al servizio della produzione capitalistica, come sua articolazione subalterna. Quell’unico pensiero fu preannunciato da Ruberti, formalmente inaugurato dall’ingegner Giancarlo Lombardi Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Dini (19951996)[25], poi proseguito, approfondito e messo in pratica dal suo degno successore Luigi Berlinguer (1996-2000), e dopo questi – senza mai alcuna differenza né di concezione né di linea operativa – da tutti i Ministri di destra o di centrosinistra che si sono succeduti. Questo fino all’apice, o piuttosto al pedice, rappresentato dalla ministra Maria Stella Gelmini, colei che si vantò del tunnel scavato dal CERN di Ginevra fino al Gran Sasso e che provvide al taglio di 8,5 miliardi di euro sulla scuola e di 1,3 miliardi sull’università (miliardi peraltro mai più restituiti dai Governi successivi). Forse fra le due cose, l’essere spaventosamente ignoranti e operare tagli mortali alla scuola e all’università, c’è qualche rapporto?

Mi correggo subito: in base alla regola che al peggio non c’è mai fine, ora il peggio è rappresentato dall’alternanza scuola-lavoro che arriva a uccidere i nostri ragazzi purché essi siano precocemente addestrati[26] a compiere gratis i lavori subordinati e senza diritti che li aspettano da adulti, oppure (si può scegliere) da un Ministro che – senza averne alcun potere, almeno finché vige l’art.33 primo comma della Costituzione – dètta a tutte le scuole un sillabo parafascista sulla storia nazionale che gli insegnanti dovrebbero trasmettere nelle loro lezioni e invoca la necessità che la scuola proceda alla “umiliazione” dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze.

Ma c’è di peggio (sì, c’è qualcosa di peggio anche del ministro Valditara) cioè il fatto che l’ambiente tecnologico e cognitivo, il sistema percettivo in cui siamo immersi (e i nostri ragazzi ancora molto più di noi) è quello del digitale, caratterizzato – per sua stessa natura – da immediatezza e rifiuto della mediazione interpersonale, dal primato dell’immagine sulla parola e della visione sull’ascolto, dal privilegiamento della superficie dell’informazione sulla profondità della conoscenza riflettuta e stratificata, dall’istante (l'”eterno presente” del capitalismo vittorioso) piuttosto che dal tempo lungo della storia e della tradizione. Tutto ciò si svolge in un’apparenza di libertà, ma in realtà usando piattaforme e programmi proprietari[27] (il cosiddetto GAFAM[28] che domina il mondo, e non solo per i profitti record a cui dà luogo); questi programmi a loro volta ci usano, traggono denaro da noi mentre li usiamo, e ci sorvegliano senza che noi neanche ce ne accorgiamo, con una totalitaria pervasività che nessuna dittatura del passato, nessun incubo orwelliano ha mai conosciuto.

Tutto ciò – vorrei essere del tutto chiaro su questo punto decisivo – coesiste con potenzialità meravigliose dell’informatica anche ai fini della didattica e della ricerca umanistica, e non ci deve appartenere in alcun modo un atteggiamento misoneista o luddista[29]: si tratta insomma, anche nel caso della digitalizzazione delle nostre vite, di cogliere e valorizzare ciò che c’è di buono e di contrastare con decisione ciò che c’è di cattivo o pericoloso.

Ma il problema nasce appunto dal fatto che le caratteristiche negative della digitalizzazione del mondo (diciamo il suo lato “cattivo e pericoloso”), si prestano particolarmente bene a una didattica della passività acritica e della mera esecutività, cioè alla “scuola delle competenze” e non delle conoscenze, dell’addestramento e non della formazione critica; si prestano particolarmente bene all’ignoranza, alla nuova ignoranza di massa, che la scuola come è non sa, anzi non vuole, contrastare. D’altronde la pubblicità, che domina e pervade l’intero mondo della comunicazione (politica compresa), attiva al massimo la funzione del linguaggio che, nel suo celebre schema, Jakobson definisce “conativa”, e dunque richiede per poter funzionare che sia soppressa o disattivata la funzione opposta, cioè quella “metalinguistica” della critica[30].

Insomma il pericolo, il terribile pericolo, deriva – per dir così – dal combinato disposto della digitalizzazione con la scuola di Confindustria, di Renzi e di Valditara, dalla micidiale tenaglia che fra queste due cose si verifica ai danni della libertà della scuola.

Non può certo appartenere a questa sede, dedicata alla rievocazionee e al ricordo, la possibilità di una pars costruens, peraltro assai difficile perfino da immaginare. Mi sia solo consentito, contro l’abisso in cui è stata precipitata la nostra scuola dal “pensiero unico” di accennare alla necessità, o alla speranza, di una “scuola del due“.

Due è un numero bellissimo, perché allude alla differenza non identitaria, a una diversità irriducibile, e “due” dà luogo a una collaborazione oppure a un conflitto (entrambe, collaborazione e conflitto, sono cose buone, giuste e necessarie). Il due è l’altro.

Allora il “due” da cui partire è anzitutto un “due” che allude alle classi, e alla lotta di classe. Assumere questo “due” è necessario al nostro sguardo. Senza tenere conto di questo, io credo che non si possa capire nulla della realtà del mondo e tantomeno si possa fare qualcosa di utile per cambiarlo.

La distruzione della scuola e dell’università (è ciò, né più né meno, che sta accadendo o è già accaduto sotto i nostri occhi) si spiega solo considerando questo “due” classista, perché tale distruzione è frutto della vittoriosa “lotta di classe dall’alto” e significa impedire qualsiasi vera mobilità verticale fra le classi[31].

Il fatto è che la borghesia italiana, questa classe terribile, miserabile e feroce, non ha alcun interesse a favorire, e neanche a consentire, che i figli e le figlie dei subalterni vengano in possesso della libertà vera; questa sta nel possesso della parola, la quale deriva anzitutto (consentitemi quest’affermazione che può suonare corporativa sulla bocca di un insegnante di letteratura) dallo studio, dalla conoscenza e dal godimento della letteratura.

La vera conoscenza, cioè la vera libertà, la parola, la borghesia la riserva a sé stessa e ai propri figli. La borghesia come classe non ha nessun bisogno della scuola o, più precisamente, non ha bisogno della Pubblica Istruzione[32]: i suoi figli, se non bastasse l’educazione familiare a distinguerli dal resto, frequentano sempre meno la scuola e l’università della Repubblica e sempre più le scuole e le università private (beninteso: finanziate dalla Repubblica, alla faccia dell’art.34 della Costituzione).

Senza contare la divisione capitalistica internazionale della conoscenza, per cui i figli della vera borghesia studiano all’estero, e i più bravi fra gli altri vanno comunque a finire all’estero, così che l’Italia è uno strano e infelice paese che esporta, gratuitamente, cervelli e importa, pagandoli, brevetti (si dice che l’Italia regali oltre 14.000 laureati all’anno, il 13% dei dottori di ricerca, una percentuale che arriva a oltre un terzo nelle materie scientifiche[33]).

“Un altro mondo è possibile” fu lo slogan, scandaloso e fondamentale, della grande mobilitazione soprattutto di giovani, che aprì questo secolo (e che a Genova ebbe la risposta “di macelleria sudamericana” che tutti sappiamo).

Ebbene un’altra scuola è possibile, e necessaria. Una scuola che deve essere capace anche di contrastare lo spirito del tempo, di portare riflessione umana dove c’è passività meccanica, approfondimento dove c’è superficialità, bellezza dove c’è abbrutimento, libertà dove c’è una nuova schiavitù dell’inconsapevolezza, la speranza contro la catastrofe (ambientale, sociale, atomica) a cui il capitalismo globale in crisi ci sta avviando. È accaduto in altre epoche della storia: una società, uno Stato (ammesso che in Italia esista uno Stato) può decidere di affidare a un suo organo dei compiti socialmente necessari, anche contro la spontaneità della situazione se tale spontaneità comporta la catastrofe. Anzi forse la scuola, la cultura (e il suo nucleo vitale che è la critica) ha operato sempre così, controcorrente.

I monaci medievali che conservavano e tramandavano la cultura antica erano certo controcorrente, contro la spontaneità della barbarie, ma in fondo hanno vinto loro. Come in fondo hanno vinto gli umanisti banditi dalla Controriforma, o gli Illuministi perseguitati dal potere.

Le università, compresa quella in cui Asor Rosa ha vissuto sempre sforzandosi di riformarla[34] – fino alle “riforme” capitalistiche di cui abbiamo parlato – hanno continuato nominalmente a vivere nella scia del modello cosiddetto “humboldtiano”[35]. Si fondò allora, per iniziativa dello Stato, un’università che coniugava ricerca e didattica (il nesso fondativo dell’università, ora mortificato e disperso) nel nome del progresso della nazione e il cui scopo era superare il sistema di formazione feudale vigente per trasformare i sudditi della Prussia ancien régime in nuovi cittadini.

Anche la scuola del ministro De Sanctis era esplicitamente controcorrente rispetto alla società italiana del suo tempo, fatta di analfabetismo e superstizione; pur se fra mille difficoltà e ritardi, in un certo senso quella scuola della nuova Italia unitaria vinse. E hanno vinto, in tempi più recenti, anche Gramsci o Primo Levi contro il fascismo.

In esplicita opposizione contro la spontaneità del suo tempo, il tempo della fine dell’impero romano e dell’incombente barbarie, Severino Boezio (475-525) concepì l’ambizioso progetto di tradurre in latino le opere di Platone e di Aristotele (che voleva anche dire aritmetica, geometria, astronomia, logica e soprattutto musica), e lo fece sotto il regno ostrogoto di Teodorico, che lo imprigionò e lo mise a morte. Ma le conseguenze della folle idea di Boezio furono incomparabili. Vinse Boezio.

Forse in questi tempi di “ritornata barbarie” anche noi dovremmo cominciare a pensare a tanti “collettivi Severino Boezio”, che procedano ostinati, controcorrente, a fare della nostra scuola una scuola, nonostante tutto.

In una Prefazione storica che nel 2011 apriva il volume Le armi della critica, Asor Rosa si voltava indietro, quasi per un bilancio di vita, spiegando che

per guardare al futuro, è dal passato, sempre, che si deve ricominciare (ed è esattamente quello che accadrà nei prossimi anni, quando si ricomincerà a guardare al futuro).[36]

In quella Prefazione (la cui importanza non mi sembra si possa trascurare), Asor Rosa descrive sé stesso come uno sconfitto:

Ciò che è accaduto per me (…) è una miriade di tentativi, politici e intellettuali, più falliti che riusciti, ma con alcuni approdi di sicurezza non trascurabili, il lungo insegnamento universitario, l’attività critico-storica letteraria, il polemismo politico non ancora del tutto ammutolito, il rapporto con una grande casa editrice “illuminata” come Einaudi. Qualcosa però sopravvive del vecchio antagonismo: io continuo a diffidare di questa società: non è la mia. E ne sono puntualmente contraccambiato: questa società diffida di me, nonostante la lunghissima frequentazione, e me lo dimostra in molti modi. Il decennio ’60-’70 si paga ed è giusto – desidero dirlo con molta sincerità e chiarezza – che sia così. Se fosse il contrario, vorrebbe dire che il decennio ’60-’70, con tutte le sue passioni, avventure e letture, non c’è stato, e questo mi costerebbe di più, anche in questo momento, di qualsiasi altro sacrificio intellettuale. (…) C’è un punto, però, che vorrei qui richiamare per concludere. Al centro di tutto il mio ragionamento, allora come oggi, c’è la persuasione che il conflitto costituisca ovunque e sempre la molla di una sana e dinamica dialettica sociale. Di più: dove non c’è conflitto, la politica deperisce, e persino le attività intellettuali smarriscono la strada della ricerca, che è anch’essa – in questo caso più indubitabilmente che altrove – conflittuale (la critica, infatti, non è che la forma di un conflitto)[37]

Questo di Asor Rosa è un bilancio biografico (e storico) che può sorprendere molti[38], ma chi l’ha conosciuto e gli ha voluto bene riconosce invece in quelle parole il suo volto.

(Roma, 28 giugno 2023)

Raul Mordenti

  1. A. Asor Rosa, Dieci tesi, un intermezzo e una conclusione sull’italianistica e la critica letteraria, in “Bollettino di italianistica. Rivista di critica, storia letteraria, filologia e linguistica”, n.s., a.I, n.1 , 2004, pp.14-31.
  2. Ivi, p. 26.
  3. Ivi, p. 31.
  4. Sia consentito il rinvio a: R. Mordenti, Discorrendo, ancora e sempre, di politica con il compagno Asor Rosa, in “Bollettino di italianistica. Rivista di critica, storia letteraria, filologia e linguistica”, n.s., a.X, n.2, 2013, Per Alberto Asor Rosa, pp.18-23; ed a A. Asor Rosa, Introduzione, in D. Fiormonte, P. Sordi, Letteratura e altre rivoluzioni. Scritti per Raul Mordenti, Bordeaux, Roma 2020, pp.7-13.
  5. A. Asor Rosa, Assunta e Alessandro. Storia di formiche, Einaudi, Torino 2020, p.7.
  6. Mi sembra giusto chiamarla così, anche per le resistenze e le ostilità che dovette superare fra i suoi colleghi del tempo.
  7. Dà conto di quell’esperienza l’opuscolo La fascia propedeutica: dati e considerazioni da un’inchiesta fra gli studenti, Dipartimento di Italianistica, Roma 1983.
  8. Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, volume secondo, Produzione e consumo, Einaudi, Torino 1983.
  9. Ivi, pp. 871-1014 (con saggi di Ricciardi, Berruto, Ossola, Bertinetto, Mordenti).
  10. W. Benjamin, Storia della letteratura e scienza della letteratura, in Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 19794 , pp.138-39.
  11. Intervista a Cesare Segre, in E. Jona, Essere altrove. Scritti sull’ebraismo, Neri Pozzi, Vicenza 2022, pp. 192-3.
  12. Cfr. A. Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia. Saggi sulle forme di uno storico conflitto e di una possibile alleanza, La Nuova Italia, Firenze 1973.
  13. Sembra a chi scrive che l’appartenenza di Asor Rosa all’operaismo (peraltro da lui mai negata e rinnegata) meriterebbe ben altro approfondimento, che non abbiamo né il tempo né la capacità di fare qui. In estrema sintesi, mi sembra che (oltre all’amicizia perenne con Mario Tronti) l’operaismo di Asor Rosa sia stato piuttosto la fedeltà a un marxismo non ortodosso, sempre aperto alla ricerca. Niente di più e niente di meno.
  14. C. Muscetta, A. Asor Rosa, Guida alla composizione. Schemi e consigli di ricerca per i temi di letteratura italiana, Feltrinelli, Milano 1964. Ognuna della 127 tracce è accompagnata da un’utile bibliografia essenziale per approfondimenti, pensata per essere praticabile a livello liceale.
  15. L’opera, uscita per la prima volta nel 1972 e destinata alle scuole superiori, si compone di un volume Sintesi di storia della letteratura italiana (La Nuova Italia) accompagnato da una trentina di volumetti antologici (affidati ad altri Autori) ciascuno corrispondente ad un capitolo della Sintesi. Anche la intenzionale maneggiabilità di quest’opera modulare (gli studenti potevano evitare di portare con sé la sempre voluminosissima e pesantissima antologia) fu pensata evidentemente per la scuola. Per l’esplicitazione delle intenzionalità di quest’opera si rimanda a:cfr. A. Asor Rosa, Volume Specimen, La Nuova Italia, Firenze 1972.
  16. Tre volumi, Einaudi, Torino, 2009.
  17. Due volumi, Einaudi, Torino, 2013.
  18. A. Asor Rosa, Scritture critiche e d’invenzione, a cura di Luca Marcozzi (con un saggio introduttivo di Corrado Bologna e uno scritto di Massimo Cacciari), Mondadori, Milano 2020.
  19. A. Asor Rosa, Sulla storia della letteratura, in Letteratura italiana. La storia, i classici, l’identità nazionale, Carocci, Roma 2014, pp.47-57. Il saggio era già uscito nel “Bollettino di italianistica. Rivista di critica, storia letteraria, filologia e linguistica”, n.s., n.1, 2009.
  20. Questa parte riprende parti di una mia relazione intitolata Le due educazioni. Riflessione sulla didattica della letteratura nel tempo della distruzione della scuola, presentata al Convegno “Le “due educazioni”: insegnare lingua e letteratura a scuola”, organizzato dal Comitato Nazionale “Per la scuola della Repubblica” (Roma, 27/1/23).
  21. Cfr. R. Mordenti, Il dibattito sulla didattica della letteratura in Italia (1982-1986), in “Bollettino di Italianistica”, a.III (1985), fasc.1/2, pp. 20-60.
  22. Cfr. Letteratura e aree disciplinari nella scuola dell’adolescente, Atti del Convegno “La letteratura nel curricolo: formazione di base e formazione specifica”, Villa Falconieri (Frascati), 24, 25, 26 settembre 1986, a cura di G. Bertoni Del Guercio, in “Quaderni di Villa Falconieri-CEDE”, n.11, 1987.
  23. cfr. Fare e sapere letterario: il teatro della didattica…, a cura di C. Bartoccioni, M. Camboni, S. Del Lungo Luzzi, A. Gnisci, A. Goldoni, R. Mordenti, 2 voll., Carucci, Roma 1986.
  24. Cfr. A. Angelucci, Le due educazioni, Fioriti, Roma 2022.
  25. Vicepresidente di Confindustria con delega all’Istruzione, nonché membro del Consiglio di Amministrazione del “Sole-24 Ore” e della Università privata LUISS.
  26. Il verbo “addestrare” è naturalmente decisivo, e quanto mai pertinente.
  27. Non posso fare a meno di annotare che per i meeting o per la didattica a distanza esistono programmi elaborati dal CNR (come Meet/Garr) offerti gratuitamente alle università, le quali però, per misteriosi motivi, preferiscono utilizzare i programmi, a pagamento, di GAFAM.
  28. L’acronimo sta per le principali aziende (tutte statunitensi) di questo sistema: Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft. La censura operata da GAFAM è sistematica e totalitaria quanto inavvertita: per ricevere la condanna ad essere “bannati”, senza alcuna spiegazione e senza alcun garantista processo, è suffciente ad esempio usare l’estensione “.cu” (per Cuba) oppure digitare il nome del leader kurdo Ochalan.
  29. Rinvio all’elaborazione filosofica di questo problema, scritta – con spirito che definirei profetico – molti anni or sono da G. Anders, L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Borighieri, Torino 2003
  30. La funzione “conativa” concentra il messaggio sul destinatario, quella “metalinguistica” sul messaggio stesso. Mi sia consentito per l’articolazione di questo ragionamento il rinvio a: R. Mordenti, L’altra critica. La nuova critica della letteratura tra studi culturali, didattica e informatica, Roma, Editori Riuniti University Press, 2013, pp.187-188.
  31. Come ha dichiarato uno dei leader etico-politici del regime attuale, Flavio Briatore: “I figli dei falegnami dovrebbero fare i falegnami, invece che andare a scuola”.
  32. Non a caso essa ha proceduto perfino al cambio del nome del Ministero, da cui è sparito il determinante aggettivo “pubblica”, sostituito da “merito”. Invece è evidente che solo il carattere “pubblico” può garantire il giusto riconoscimento del merito, sottraendolo ai condizionamenti negativi dei punti di partenza.
  33. Spiegò bene le ragioni di questo assurdo una storica frase dell’allora premier Silvio Berlusconi: “Perché dobbiamo pagare uno scienziato se facciamo le scarpe migliori del mondo?”. E nel 2012 uno degli spiriti-guida del capitalismo italiano Luigi Zingales precisò: “Ci sono un miliardo e quattro di cinesi e un miliardo di indiani che vogliono vedere Roma, Firenze e Venezia. (…) L’Italia non ha un futuro nelle biotecnologie perché purtroppo le nostre università non sono di livello, però ha un futuro enorme nel turismo”. La circostanza che alcuni miliardi di visitatori in più distruggerebbero ciò che resta di Roma, Firenze e Venezia non è contemplata dall’economista dell’università di Chicago, meno che mai sono da lui presi in esame i motivi (non certo naturali ma economico-politici) per cui “le nostre università non sono di livello”.
  34. Anche nella sua breve ma importante esperienza di parlamentare della Repubblica, dal 1979 al 1980 (quando si dimise da deputato, dopo aver conseguito la legge di riforma dell’università, cosiddetta “382”).
  35. Dal nome di Wilhelm von Humboldt, che da Ministro fondò (influenzato anche dal pensiero di Pestalozzi) l’Università di Berlino nel 1810.
  36. A. Asor Rosa, Le armi della critica. Scritti e saggi degli anni ruggenti (1960-1979), Einaudi, Torino 2011, p. x.
  37. Ivi, p. lxvii.
  38. Non chi abbia presente la sorda e diffusa ostilità che troppo spesso circondò Asor Rosa nell’accademia, e non solo. Si vedano (per limitarci ad un esempio) alcune recensioni cariche di autentico odio che accolsero la pubblicazione del Meridiano Mondadori dedicato al Nostro. Una coincidenza quanto mai significativa, perché una tale collocazione editoriale segnava invece il massimo di riconoscimento (se non vogliam dire di “glorificazione”), riservato a un intellettuale nel nostro sistema culturale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.