Dopo le elezioni 9-6-19 (intervento impedito all’assemblea della Sinistra)

Intervento (mancato) di Raul Mordenti

(Roma, Teatro dei Servi, 9 giugno 2019)

Ho molto apprezzato che la quasi totalità degli interventi che mi hanno preceduto abbiano cercato di ragionare sulle ragioni profonde, e anche lontane, della sconfitta che abbiamo subìto alle elezioni europee.

E ancora di più ho apprezzato che non sia comparsa in nessun intervento la proposta di alzare bandiera bianca raggiungendo gli Smeriglio e i Calenda nelle fila dei liberal-socialisti, che sono fra i principali responsabili della situazione gravissima in cui versano la democrazia italiana e il nostro Paese; così che anche la proposta del cosiddetto “fronte” col PD mi sembra sia apparsa alla totalità degli interventi la sciocchezza strumentale che effettivamente è. Anche perché non si saprebbe da quale parte del “fronte” mettere Minniti se parliamo di diritti dei migranti, o Renzi se parliamo dei lavoratori o della scuola, o Zanda se parliamo della difesa della democrazia dai servizi segreti, o Zingaretti se parliamo della lotta alla privatizzazione della sanità (e, a Roma, di palazzo Nardini), o Chiamparino se parliamo della lotta al TAV, o Mogherini se parliamo della lotta contro le scelte imperialiste e di guerra della UE, e così via.

Tutti costoro stanno effettivamente e chiaramente da una parte del fronte, solo che la loro parte è opposta alla nostra parte. I fatti, che hanno la testa dura, si sono incaricati di risolvere la tradizionale questione che ci ha divisi in passato, cioè se la sinistra debba subordinarsi al centro-sinistra o scommettere invece sulla propria autonomia. Oggi la nostra autonomia è una necessità storica evidente, quali che siano i nostri attuali e gravissimi limiti.

Forse qualcuno farà ancora, nonostante i fatti, una scelta di resa ai liberal-socialisti,  ma – francamente – la difesa del posto di lavoro di qualcuno nelle istituzioni deve essere l’unica difesa del posto di lavoro a non interessarci. Abbiamo  infatti ben altre cose, più serie, di cui preoccuparci.

Starò nei tempi, perché mi è capitato di affrontare le questioni di cui parliamo in un documento a cui mi permetto di rinviare  (“La catastrofe e il che fare”:

http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=38453).

In quell’intervento avanzo l’ipotesi che sia ormai in questione la democrazia stessa, non per la vittoria del bau bau fascista Salvini e neppure per gli attacchi ricorrenti all’impianto della Costituzione (ora all’autonomia e all’indipendenza della Magistratura), ma perché mi sembra che siano venute meno le condizioni che storicamente hanno consentito la democrazia politica, cioè l’esistenza del movimento operaio e quella dei partiti; questi due elementi (strettamente connessi) costituivano il complesso e delicato sistema che – per così dire – metteva in connessione l’essere sociale e la coscienza, che insomma rendeva la “gente” masse popolari o proletariato. Soppresse queste due cose (e come ciò sia avvenuto esula dai limiti di questo intervento) restano ora solo due cose: resta la “pancia” della gente, cioè gli istinti più facili e spesso più beceri, e resta lo strapotere assoluto dei media.

Questo problema è già emerso in qualche intervento, ma mi sembra davvero cruciale. Se i maggiori quotidiani italiani presentano l’elenco di tutte le liste elettorali, tutte meno una; se in un servizio sull’afferenza delle liste italiane ai gruppi nel Parlamento europeo se ne “dimentica” una soltanto, quella che afferisce al GUE; se le tv ci hanno cancellato in modo totale e sistematico (invitando ripetutamente… Marco Rizzo); se perfino in un’intervista a Castellina si riesce a nascondere l’afferenza della compagna alla Sinistra; se la notizia (insisto: la notizia) della varietà e dell’importanza delle firme all’appello di Rossanda non è stata data da nessun giornale; e se perfino ai presenti, tutti lettori del “Manifesto”, è stato tenuto nascosto l’appello per il voto a La Sinistra dell’ambasciatore Calamai, l’eroe del salvataggio dei desaparecidos (e tanti altri esempi ciascuno di noi potrebbe fare), ebbene, allora è in gioco qualcosa di più della discutibile onestà professionale dei giornalisti, è in gioco un pilastro della democrazia.

Tutto ciò fa sì che a noi tocca oggi ricostruire non solo la casa ma il terreno.

Costruire la casa prima di avere il terreno è difficile, anche perché le case hanno il brutto difetto di dover essere costruite dalle fondamenta e non dal tetto.

Se invece si comincia dal tetto cioè (fuor di metafora) se si comincia da una lista elettorale, allora che cosa si propone in realtà? Ne siamo o no coscienti, si propone in realtà alle masse, agli elettori, di affidarsi, di farsi dirigere da gruppi dirigenti precostituiti che non sono frutto di nessunissimo processo democratico dal basso, di scegliere un segmento di ceto politico (cioè noi) che si offre loro per marciare alla loro testa, in concorrenza con altri segmenti di ceto politico.

Come sorprendersi che – stando così le cose – prevalgano i meccanismi tutti capitalistici del marketing (cioè che si scelga chi investe più in pubblicità, chi ha il marchio più noto e consolidato, chi ha maggiore accesso ai mass-media, chi ha l’immagine più suadente, e così via)? Se la politica è ridotta a marketing (e in mancanza di un’organizzazione di massa lo è) i voti che abbiamo preso sono anche troppi. In mancanza del nesso stabile e democratico rappresentato dall’organizzazione politica di massa, Chiara Ferragni prenderebbe certo più voti di Antonio Gramsci (o di Eleonora Forenza).

Né possiamo dimenticare che – se le cose stanno così – diventa prevalente l’aspetto della credibilità politica della lista e la nostra (spero di non offendere nessuno/a) non era poi altissima.

Il punto politico più forte della nostra proposta era certamente la nuova unità della sinistra di opposizione e di alternativa; e credo, l’abbiamo verificato tutti/e facendo campagna elettorale, che questa dell’unità è un’esigenza vera del nostro popolo, che non ne può più delle nostre divisioni. Ebbene, – dobbiamo domandarci –  eravamo noi credibili su questo terreno agli occhi degli elettori?

Quando si riunì la Consulta fu calcolato che i/le costituenti comunisti/e avevano scontato (se non ricordo male) 8 anni di carcere fascista – in media – ciascuno. Ebbene, se facessimo un analogo calcolo fra i compagni e le compagne presenti oggi qui in questa sala, e calcolassimo quante scissioni ciascuno/a ha operato, credo che la cifra totale sarebbe altrettanto impressionante (anche se meno gloriosa). Ripeto, non vorrei offendere nessun compagno e nessuna compagna, perché gli errori si possono e si devono correggere e ciascuno/a di noi è prezioso e deve essere recuperato alla lotta comune (è questo uno dei motivi per cui siamo del tutto contrari al taglio delle teste). E tuttavia non sarebbe onesto nascondere che il ceto politico che noi complessivamente siamo rappresenta un problema, e non la soluzione del problema.

Di fronte a tutto ciò esiste fra i nostri compagni una tendenza a dire “I dirigenti tutti a casa!”, mentre altri suggeriscono addirittura “Sciogliamo tutto! Azzeriamo tutto!”. Io credo che questi sarebbero errori gravissimi, che non possiamo permetterci: mai come adesso occorre assolutamente mantenere organizzato tutto ciò che è organizzato, impedire che anche una sola sede si chiuda, che anche un solo collettivo si sciolga, che anche un solo comitato vada a casa.

Quello che ci serve è l’esatto contrario di scioglimenti è, invece, una riconversione assai profonda delle nostre organizzazioni. Riconvertirle significa spostare il loro baricentro dall’alto verso il basso, dal dentro verso il fuori e, soprattutto, dalla tentazione inerziale dell’autosufficienza settaria a una forte spinta unitaria, basata sul rispetto reciproco delle differenze.

L’immagine che penso è quella di una rete, direi di una rete rossa, in cui ogni nodo abbia pari dignità e autonomia e sia però collegato orizzontalmente con tutti gli altri. Se c’è una lotta sosteniamola tutti/e (sembra ovvio, ma attualmente ciò non succede affatto), ma anche se c’è una rivista o una casa editrice, usiamole tutti/e, se c’è un giornale on line rafforziamolo collegandolo ad altri giornali on line della rete, se c’è un collettivo diamogli tutti/e visibilità e spazio, se c’è una inchiesta o una ricerca facciamone patrimonio comune, se c’è un’esperienza di lavoro di massa che funziona studiamola e generalizziamola, se c’è una campagna da fare (penso al tema centralissimo del razzismo o – per fare un solo esempio tra i tanti possibili – alla lotta contro l’autonomia differenziale che è stata evocata qui con tanta forza dalla compagna Boscaino) facciamola insieme ovunque ci troviamo, e così via.

La rete (rossa) è un qualcosa che è sempre in via di costruzione, ma soprattutto essa ha il pregio (decisivo pregio in questa fase!) di non avere vertice né gerarchia, non ha “tavoli politici” separati e necessariamente lottizzati, non ha funzionari né portavoce né leader, non ha cariche per cui combattere fra noi, non ha compagni più uguali degli altri.

La rete, infine, è delimitata e aperta; delimitata, perché essa non può né vuole comprendere chi è schierato contro i pochi ma decisivi punti del programma, non avrà né sostenitori della guerra né omofobi, né cultori dei respingimenti dei migranti né i fan dell’autonomia differenziata, o dell’austerity e della BCE, etc.; e naturalmente (non c’è quasi bisogno di dirlo) della rete rossa non faranno parte provocatori o poliziotti (quelli che i miei compagni più giovani chiamano “guardie”) più o meno mascherati.

Ma la rete è soprattutto aperta, e avere votato La Sinistra il 26 maggio 2019 non costituisce un confine. Là fuori – per così dire – c’è un sacco di roba buona con cui dobbiamo e vogliamo entrare in contatto: comitati di lotta, collettivi studenteschi, scuole popolari, centri studi, riviste, associazioni, anche partiti più o meno grandi, sindacalismo di classe, singoli/e compagni/e. Perché, per cominciare, non ci impegniamo in un grande auto-censimento dal basso?

Fare qui l’elenco dei compagni e delle compagne che aspetto sarebbe lungo e forse anche sciocco, ma mi limito a due compagni che sono stati qui stamattina con noi, il compagno Turigliatto di Sinistra anticapitalista e il compagno Bernocchi dei Cobas: non militiamo nello stesso partito, ma oggi questo non è l’importante; l’importante sarebbe invece discutere con loro se è possibile fare insieme, nella reciproca autonomia di tutti, un pezzo di strada, camminare domandando, ma intanto camminare insieme.

Raul Mordenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.