Sul concetto di rivoluzione

(Seminario al Circolo Walter Benjamin di Tor Vergata, 22 04 2024)

[versione orale letta]

Considero un gesto prezioso (anzi dirò di più, necessario e urgente) parlare di rivoluzione.

Non ne parliamo mai, e da molti anni, e chi osa parlarne (è capitato a me con un libretto del 2002 che titolai “La rivoluzione”) viene nei casi migliori ignorato, se non deriso.

Sarebbe come se cristiani non parlassero mai di Cristo, o se i banchieri non parlassero mai di denaro.

Eppure la rivoluzione dovrebbe essere invece la nostra “ragione sociale”, e oggi meno che mai è possibile rinunciarvi, anzi proprio oggi di fronte alla crisi di sistema del capitalismo realizzato che sta conducendo l’umanità associata alla catastrofe (per via di guerra atomica, o per via di crisi ambientale irreversibili, o per via di crisi economiche e sociali epocali e irrimediabili, etc.). Come scrisse Benjamin, “la miccia è già accesa”, e si tratta solo di sapere se arriveremo prima noi a liberarci del capitalismo o arriverà prima il capitalismo a distruggere l’umanità associata.

C’è una spiegazione benevola di questo silenzio sul tema della rivoluzione (che ha dell’incredibile): si dice che Togliatti dicesse che alla rivoluzione bisogna pensarci sempre e non bisogna nominarla mai.

Io capisco questa frase, che era polemica contro il socialismo “scarlatto”, delle frasi roboanti, della demagogia (caratteristiche in verità più dei socialisti che dei comunisti e che è presente anche oggi in alcune frange “un sacco di sinistra” del movimento).

Ma se una cosa non la si nomina si finisce per non pensarla neppure più, specie se si tratta di rapporti di massa, di organismi di massa, come deve essere il partito o il movimento.

Dunque è necessario parlare della r., e ri-pensare la r.

Ripensare nei due significati del termine: ritornare a pensare e pensare di nuovo, cioè dalle fondamenta (a me piace molto il concetto di ri-fondare).

Il punto di partenza non può che essere concettuale – terminologico. Cosa intendiamo per r.?

Intanto la r. non è la rivolta; Marx scrive (mi sembra nelle Lotte di classe in Francia) che gli operai parigini non erano disponibili a una rivolta perché preparavano una rivoluzione.

Essere fra noi d’accordo su questo sarebbe già molto: quale è la differenza? Lo spiega bene Gramsci quando scrive che le masse possono subire l’egemonia dell’avversario di classe anche quando si rivoltano, perché quella rivolta, in quel momento, è ciò che l’avversario di classe vuole che loro facciano.

“I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria «permanente» spezza, e non immediatamente, la subordinazione.”[1]

La rivoluzione, ciò che Gramsci chiama “la vittoria «permanente»” è, al contrario, il punto massimo dell’autonomia politica del proletariato dalle classi dominanti. Direi che la r. rappresenta “l’autonomia integrale” (questa è una bella espressione gramsciana, che credo di potrebbe tradurre senz’altro con “comunismo”).

Tornando al concetto di rivolta (come diversa dalla r.): la storia, anche la nostra storia italiana, è piena di questo tipo di rivolte, spesso contadine, dette anche jacqueries, pensate alla novella di Verga Libertà (ma sono accadute jacqueries anche in paeselli vicino a Roma in cui insegnavo): le masse inferocite assaltano il Municipio (cioè lo Stato), danno fuoco ai documenti (di solito relativi al debito), magari impiccano qualcuno, e poi tutto finisce lì; il giorno dopo torna il potere di prima, magari con qualche carabiniere in più e qualche fucilazione o condanna in più. Nelle esperienze più contemporanee e anche molto vicine a noi questa situazione si è verificata, non necessariamente con il ricorso ad agenti provocatori (di cui peraltro il potere borghese e atlantico fa spesso e volentieri uso).

Circoscrivendo dunque il nostro ragionamento al concetto di rivoluzione in quanto distinto (o opposto) rispetto a quello di rivolta, si pone un bivio ancora più fondamentale: r. equivale oppure no a presa del potere statuale?

C’è un bel libro di John Holloway (che ho curato in collaborazione con Marco Calabria, un caro compagno che ci ha lasciato da poche settimane e che mi piace ricordare qui) intitolato, Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi, Napoli, Intra Moenia-Carta, 2004 (ediz. originale: Cambiar el mundo sin tomar el poder. El significado de la revoluciòn hoy, Buenos Aires, Universidad Autònoma de Puebla-Colecciòn Herramienta, 2002. Erano gli anni di porto Alegre, di Genova, del movimento dei movimenti, e quel libro ne è espressione.

Sulla base soprattutto delle esperienze non felicissime delle prese del potere statuale nell’est Europa e non solo (ma anche, in positivo, sulla base della rivoluzione zapatista), Holloway sostiene che rivoluzione presa del potere statuale non coincidono affatto (anzi che sono largamente incompatibili): si può prendere il potere senza fare alcuna rivoluzione, anzi dando vita a regimi controrivoluzionari, così come – secondo Holloway – si può e si deve cambiare il mondo senza porsi affatto il problema della conquista del potere statuale.

La questione è cruciale e complessa perché allude al problema dello Stato, cioè se la rivoluzione consista nella sua conquista oppure nella sua abolizione, sia pure progressiva. D’altra parte il problema è connesso a quello delle elites rivoluzionarie, cioè se sia possibile – oppure no – evitare che queste si trasformino in nuove orribili gerarchie burocratiche e controrivoluzionarie. Questo è un punto in cui il pensiero anarchico mi sembra contenga delle interne verità (sia pure parziali) di cui occorre tener conto, e con cui anche Marx dovette misurarsi.

Come declina questo problema Marx? Naturalmente, dati i limiti di questo mio intervento, la risposta a questa domanda non potrà essere che assai approssimativa, e di questo mi scuso in anticipo.

Forse qualcuno ne sarà sorpreso, ma nel Manifesto del partito comunista il problema della presa del potere praticamente non c’è. La parola “r.” vi compare in tutto sette volte (se non ho contato male: cfr. infra Appendice…), una sola sembra adattarsi a noi, quando Marx ed Engels sottolineano la differenza fra il proletariato e le altre classi:

“Tutte le classi finora ….Il suo dominio”.496-497

Ma di solito la parola r. è riferita alle rivoluzione del passato e soprattutto alle capacità rivoluzionarie del capitalismo e della borghesia, le splendide pagine che in parte

pp.488-489

E proprio a conclusione del capitolo ii del Manifesto sembra escludere una statualità proletaria:

p.506

Questo termine “associazione” compare anche nella Miseria della filosofia, ed è appunto intesa come il contrario dello Stato):

“la classe lavoratrice sostituirà nel corso del suo sviluppo all’antica società civile un’associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo. Non ci sarà più potere politico propriamente detto” (ed. Rinascita 1949, p. 140)

Ed Engels (in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato del 1884):

“Lo stato dunque non esiste dall’eternità (…) Le classi spariranno con la stessa inevitabilità con cui sorsero in passato. Con la sparizione delle classi sparirà inevitabilmente anche lo stato. (…) relegherà la macchina dello stato là dove sarà ormai il suo vero posto: nel museo della antichità, accanto al filatoio e all’ascia di bronzo”,

Sono posizioni marxiste come queste, che ritroviamo anche in Stato e rivoluzione di Lenin, e che configurano quasi come una contraddizione in termini l’espressione “stato socialista” (per non dire dell’espressione assurda “Stato comunista”!); esse costituiranno a lungo un grave problema per le dirigenze sovietiche, duramente impegnate nella costruzione e nella necessaria difesa dello Stato socialista.

Se in Marx non c’è il tema di come prendere il potere dello Stato, c’è però – ed è fondamentale – il tema della crisi, la crisi del capitalismo o l’analisi del capitalismo come crisi, insomma l’analisi della contraddizione ineliminabile che lo segna, un tema che è declinato nei suoi aspetti economici nel Capitale. Esso è riassunto in un passo della strepitosa Prefazione a Per la critica dell’economia politica che Marx stesso definisce come “il risultato generale” dei suoi studi e come “il filo conduttore” del suo pensiero:

p.5 Per la critica dell’economia politica:

Come vedete, qui l’elemento soggettivo della rivoluzione non solo è assai sullo sfondo (per non dire assente), cioè crisi e rivoluzione sostanzialmente coincidono, ma – soprattutto – la crisi del capitalismo, cioè l’esplodere della contraddizione insanabile che esso contiene fra i rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive – è visto come inevitabile.

“(…) con la stessa inevitabilità con cui alla notte segue il giorno” (come scriverà Stalin nel 1906, p. 59)

Faccio notare che questi germi (chiamiamoli così) di determinismo meccanicistico rappresentarono la vera base della socialdemocrazia (e, lo dico en passant, la critica filosofica al meccanicismo di marca positivista rappresentò la vera base della rottura di Gramsci con la socialdemocrazia).

Kautsky (ben prima di essere un rinnegato) era un autorevolissimo marxista, come lo era il grande partito socialdemocratico tedesco, erede recta via di Marx ed Engels e anche per questo (oltre che per la sua grande forza sindacale e parlamentare) dotato di enorme prestigio nel mov. operaio dell’inizio del secolo XX.

Seguiamo il ragionamento socialdemocratico, non privo (non scandalizzatevi) di matrici marxiste: se la rivoluzione consiste nell’esplosione inevitabile della contraddizione fra i rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive, ecco allora che diventa possibile assumere come compito dei marxisti spingere al massimo lo sviluppo delle forze produttive, un’attività che peraltro è del tutto coerente con la funzione sindacale (non a caso sempre preminente nelle socialdemocrazie), che consente un accumulo progressivo di forze e il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato (a cominciare dal salario), e che conduce ad un’alleanza riformista con la borghesia produttiva contro i residui precapitalistici feudali e parassitari. Diciamo, tanto per capirci, dare vita a una sorta di grande “alleanza giolittiana” in tutto l’Occidente capitalistico.

Fu però proprio questa linea che condusse alla storica bancarotta del 1914, cioè al voto per la guerra della socialdemocrazia.

Il punto dunque fu la guerra.

La guerra infatti dimostrava che lo sviluppo del capitalismo lungi dal portare progresso illimitato e miglioramento delle condizioni di vita delle masse conduceva, al contrario, alla morte di milioni di proletari, alla distruzione di ricchezze e conquiste sociali e, in ultima analisi, alla catastrofe dell’umanità associata.

La guerra era questo, la guerra è questo anche oggi, e molto più di ieri, data l’atomica.

Ma la guerra è un esito inevitabile del capitalismo perché è nella sua ferrea logica immanente aumentare a dismisura le aree geografiche dello sfruttamento delle materie prime e delle popolazioni (inducendo un inevitabile scontro interimperialistico) nonché il prevalere degli interessi dell’industria militare e dei mercanti di armi (che già Kant individuava come causa efficiente delle guerre), e d’altra parte la guerra risolve anche il problema politico del consenso interno perché alimenta lo sciovinismo, il nazionalismo, il razzismo, e – a sua volta – se ne alimenta.

Interviene qui, mi sembra, la grande innovazione di Lenin, che è al tempo stesso teorica e politica.

Con l’analisi dell’imperialismo Lenin coglie e descrive la traiettoria catastrofica del capitalismo, e – d’altra parte – coglie nella guerra l’occasione di trasformare la crisi in rivoluzione, e dunque egli sviluppa in modo estremo la centralità del momento soggettivo, cioè del partito (non a caso teorizzato nel Che fare? anche con evidenti aspetti di giacobinismo e soggettivismo).

Più studiamo l’Ottobre (per quello che effettivamente fu e non come mito autoconsolatorio delle masse) più ci sorprendiamo della genialità della innovazione leninista anche rispetto a Marx.

Pensate solo al fatto che fare una rivoluzione in un paese arretrato, praticamente privo di classe operai, era considerato dai marxisti un assurdo; e questo assurdo fu risolto con un mero rinvio: la formula adottata, “rompere la catena nel punto più debole” voleva però dire che alla rottura russa sarebbe seguita la rivoluzione in Occidente, in Germania e in Inghilterra, soprattutto, e questa fu a lungo la visione condivisa dai comunisti, come risulta evidente dai primi documenti dell’Internazionale. Ma tale rottura in Occidente non avvenne, e nel 1919-20 (dopo, la sconfitta militare dell’Armata rossa in Polonia e dopo la sanguinosa sconfitta della rivoluzione in Ungheria e in Germania, etc.) risultò chiaro che non sarebbe avvenuta, così che i comunisti si trovarono a dover gestire – per dir così – una rivoluzione impossibile.

Impossibile, e tuttavia necessaria: la rivoluzione impossibile andava difesa a tutti i costi perché la storia potesse proseguire (e infatti la presenza di uno Stato proletario consentì la sconfitta del nazifascismo e le rivoluzioni anticoloniali in tutto il mondo, e lo stesso welfare europeo).

Mi sembra che sia sottovalutato il fatto che senza l’Ottobre la I guerra mondiale non sarebbe mai finita, e questa conclusione fu parte essenziale del consenso immenso dell’Ottobre fra i proletari russi e del mondo intero, e, dall’altra parte, non a caso si appuntò su questa conclusione inopinata della guerra la critica fondativa del nazismo.

Lo schema marxiano non solo non veniva rispettato ma veniva, per molti aspetti, rovesciato. La rivoluzione non derivava affatto dall’esplosiva contraddizione fra forze produttive sviluppatissime e rapporti sociali di produzione capitalistico-borghesi ma si trovò – per sopravvivere – a doversi misurare addirittura con il problema dell’accumulazione originaria, a cui gli stati borghesi avevano provveduto nel corso di alcuni secoli. E furono i Piani quinquennali, e fu il rafforzamento inaudito dello Stato, e fu il cosiddetto stalinismo.

Un’innovazione quella leninista talmente grande che noi dobbiamo riuscire (ed è difficile farlo) a capirla e apprezzarla fino in fondo e, al tempo stesso, a non assumerla come modello da ripetere, essendo del tutto cambiate le condizioni storiche oggettive della lotta di classe.

Dirò di più: per ri-pensare davvero la rivoluzione oggi bisogna liberarsi dalla stupidissima idea di rifare l’Ottobre in Italia e in Occidente (un’idea che appariva già molto stupida a Gramsci). L’Ottobre deve passare, cento anni dopo, da essere modello a essere lezione, una grande lezione da capire e utilizzare e non un modello da imitare. La nostra storia va usata, non rimpianta. Tanto più che le cose possono cambiare di natura e rovesciare il loro significato nel tempo, e quel modello sovietico, che in passato ha rappresentato per le masse un formidabile fattore di speranza e di resistenza del proletariato, oggi è diventato invece agli occhi delle stesse masse uno dei più potenti ostacoli a dirsi comuniste, e dunque è diventato un tremendo fattore di conservazione. Non possiamo più permettercelo, se è vero che non abbiamo più tempo da perdere. Che qualcuno si scandalizzi deve essere dunque l’ultima delle nostre preoccupazioni. “Oportet ut scandala eveniant” (Matteo, xviii, 7), è necessario che avvengano degli scandali!

È questo originale ripensamento il cuore della grande operazione gramsciana, la via di ricerca di un nuovo concetto di rivoluzione che Antonio Gramsci ha inaugurato e proposto.

Sia chiaro: nessun revisionismo liquidatorio, nessun corrompimento opportunistico c’è mai in Gramsci, anzi si può dire che Gramsci sia prima leninista che marxista, cioè egli arriva al marxismo dall’idealismo proprio attraverso l’esperienza dell’Ottobre leninista e un fortissimo recupero del momento soggettivo della rivoluzione (come è evidente nel noto articolo La rivoluzione contro Il capitale).

Ma il concetto di rivoluzione di Gramsci, appunto, recupera e innova Lenin. A partire dalla differenza sostanziale fra ciò che lui chiama “Oriente” e ciò che chiama “Occidente”, pensando all’Italia: in Oriente (leggi in Russia) lo Stato era tutto e la società civile era debole e gelatinosa, così che la conquista dello Stato poteva risultare risolutiva, in Occidente al contrario, il potere borghese si articola in vitali e corpose strutture intermedie, non solo economiche, che si tratta dunque per il proletariato di conquistare sistematicamente, con un processo di democratizzazione integrale di cui le masse, le masse organizzate e i loro organismi, sono il vero soggetto collettivo.

Si articola qui il concetto di egemonia, la vera “invenzione” gramsciana, quello per cui Gramsci è studiato e utilizzato in tutto il mondo, in tutto il mondo meno che in Italia (e che non abbiamo certo modo di affrontare qui).

È l’egemonia (nella sua dialettica con il dominio) il grande tema fondamentale dei Quaderni, che sono il grandioso sforzo di analizzare le forme storico-ideologiche della crisi di egemonia della borghesia, e, al contempo, di mettere in grado il proletariato di esercitare la sua egemonia storicamente matura, di diventare «classe per sé», insomma capace di essere la nuova classe dirigente:

«Un gruppo sociale [una classe] può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere)»[2].

La mancanza, o il ritardo, di una simile capacità soggettiva del proletariato configura una

«situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica»[3],

cioè uno stallo a prospettiva catastrofica, in cui

«il vecchio muore e il nuovo non può nascere»[4]) che sfocia inevitabilmente nel «cesarismo regressivo» fascista, o in un “interregno – scrive Gramsci – [in cui] si verificano i fenomeni morbosi più svariati» (e non sono forse “fenomeni morbosi più svariati” quelli che viviamo oggi?)

Tuttavia mi sembra di poter dire che l’idea di r., la direzione di ricerca indicata e avviata da Gramsci non sia stata percorsa finora da nessuno. Resta questo il vostro compito, della generazione che vive la crisi catastrofica del capitalismo, della generazione sull’orlo della guerra.

Ciò significa che la r. resta più che mai necessaria, non inevitabile, non facile, ma solo necessaria: giacché l’alternativa ad essa non sono più le magnifiche sorti e progressive del capitalismo realizzato ma è semplicemente la barbarie, e – né più né meno – la fine del mondo.

Un tale impossibilità del capitalismo di proseguire il suo dominio configura, senza nessun facile ottimismo deterministico, una speranza.

Diciamo questa speranza, per concludere, con le parole di Marx. Dopo aver ricordato che le rivoluzioni borghesi sembravano – ma solo in apparenza – procedere trionfalmente di vittoria in vittoria, Marx nel Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, esamina il comportamento ben diverso delle rivoluzioni proletarie:

“Per contro, le rivoluzioni proletarie del secolo decimonono si demoliscono incessantemente, s’interrompono di continuo nel loro corso, tornano su ogni loro apparente successo per ritentarlo da capo, scherniscono crudelmente le imperfezioni, le debolezze e le futilità dei loro primi tentativi, sembra che rovescino i loro avversari solo perché questi riattingano energia dalla terra e risorgano giganti contro di esse, si ritraggono sistematicamente atterrite dinanzi alla indefinita mostruosità dei loro veri scopi, finché la situazione è creata, ogni ritorno è impossibile e le cose stesse gridano: ‘Hic Rhodus, hic salta!'”[5]

FINE

Appendice: la parola “rivoluzione” nel Manifesto del Partito comunista:

partito che scorge in una rivoluzione agraria le condizioni della liberazione nazionale, cioè il partito che fece la rivoluzione di Gracovia nel 1846. In…

nome di rivendicazioni a larga base, e di interessi universali. Per rivoluzione sociale non può, ai dì nostri, umanamente concepirsi che il rinnovamento..

.

dei costanti cambiamenti, delle continue trasformazioni storielle. La Rivoluzione francese abolisce la proprietà feudale in favore della proprietà borghese…Il Manifesto del Partito Comunista/I

la prima condizione di tutte le classi industriali precedenti. Questa rivoluzione continua dei sistemi di produzione, questo movimento costante di tutto…

furono chiamate a lanciare dei libelli contro la società borghese. Nella rivoluzione francese del 1830, nel movimento riformista inglese, esse soccombettero…

testo Noi non trattiamo qui della letteratura che, in tutte le grandi rivoluzioni moderne, formola le rivendicazioni del proletariato (gli scritti di Baboeuf…

  1. Q 25, p. 2283. Per «vittoria “permanente”» Gramsci intende qui la conquista dello Stato; lo stesso paragrafo, dedicato ai criteri metodologici per lo studio della storia delle classi subalterne (o, come Gramsci si esprime, «ai margini della storia»), si trovava già in Q 3, pp. 299-300.
  2. Q 19, p. 2010.
  3. Ivi, p. 1619.
  4. «Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più “dirigente”, ma unicamente “dominante”, detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano etc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati» (Q 3, p. 311; corsivi nostri).
  5. C. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte (1852), con Prefazione di Federico Engels, Roma, Edizioni dell’Asino, 1896 (reprint Feltrinelli), p. 15.

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