per “Transform Italia” 24 maggio 2025-05-22 VERSIONE PROVVISORIA LETTA
Seminario sul tema:
Intellettuali tra nostalgia occidentalista e movimento contro la guerra
Sinceri ringraziamenti a Transform/Italia non solo per l’invito oggi ma per tutto quello che ha fatto e fa, creando uno spazio di libertà, di unità e di dibattito mai come adesso prezioso.
1. Il tema che mi è stato proposto è gigantesco, e lo è ancora di più se lo riferiamo al contesto; e questo mi valga da scusante se il mio sarà un intervento un po’ tranchant, spero non superficiale, anche per stare nei tempi.
Il contesto in cui ci tocca vivere, e ragionare, credo si possa definire come il tempo dell’apocalissi, nel senso vero e duplice della parola apocalissi che è quello del dis/velamento (togliere il velo) e – al tempo stesso – quello di una fine.
Mi permetto di rinviare su questo tema a un prezioso libro uscito in questi giorni per Quodlibet a cura di Giancarlo Gaeta e Luca Lenzini, Apocalisse, ora. Fine della storia e coscienza escatologica.
Ma che cosa è che sta finendo e che, nella sua lunga agonia, rivela la sua vera natura? È l’assetto storico (ma dunque anche economico, ideale e culturale) caratterizzato dal dominio del capitalismo a direzione borghese, che mi sembra più preciso definire come “Occidente” (senza nessuna connotazione geografica, se è vero come è vero, che fanno parte della NATO anche il Giappone, la Bulgaria, la Turchia, la Svezia, etc….). “Occidente” è esattamente ciò a cui si riferisce Giorgia Meloni quando, in presenza del suo padrone e spirito guida Trump e mimando il suo slogan, ha detto “Facciamo l’Occidente grande di nuovo!”.
Quello che è in agonia, pericolosa e indefinita agonia, è dunque l’assetto dei 5 secoli che si fanno iniziare convenzionalmente dal 1492, cioè da quel crimine fondativo che fu la conquista dell’America;
e lo sterminio dei nativi americani, e la cacciata degli ebrei dalla Spagna, cioè la follia di un solo stato per una solo popolo, con un solo re, con una sola religione e gli stermini connessi a questa follia degli stati nazionali;
e poi il colonialismo e lo sterminio;
e poi l’industrializzazione e gli stermini per fame che l’accompagnarono;
e poi le guerre e gli stermini e poi l’imperialismo e gli stermini;
e poi le guerre interimperialistiche e mondiali del XX secolo con gli stermini di Auschwitz e Hiroshima;
e poi le guerre di sterminio seguite al crollo dell’URSS a cavallo fra i due millenni fino agli stermini in corso oggi, mentre parliamo.
2. Questo assetto non può reggere più e conduce alla catastrofe l’umanità associata: esso si fonda infatti sull’espansione indefinita della produzione di merci e sull’abuso capitalistico della natura, ma le risorse del pianeta sono limitate e in via di esaurimento;
si fonda sullo sfruttamento illimitato dei popoli, ma questi si stanno sottraendo al dominio in parti crescenti del mondo;
si fonda sulla finanziarizzazione del capitale e sull’uso privatistico e monopolistico della tecnologia, ma questo crea nuove contraddizioni e la riduzione della base produttiva con devastanti crisi occupazionali;
si fonda sulla guerra, ma la guerra è ormai atomica e segnerebbe la fine del mondo.
A questa crisi, ormai conclamata e clamorosa, non corrisponde per ora nessuna visibile e credibile alternativa, cioè tutto il mio ragionamento si svolge all’insegna della nota affermazione di Gramsci:
Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più «dirigente», ma unicamente «dominante», detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc.
“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. (A. Gramsci, Q3, § 34, p. 311)
E “i fenomeni morbosi più svariati” sono quelli che si stanno verificando sotto i nostri occhi.
3. La figura dell’intellettuale, che svolgeva un ruolo importante nell’assetto di cui parliamo, non poteva certo essere risparmiata da questa crisi.
Diciamo (molto sommariamente) che agli intellettuali veniva affidato un ruolo di addetti alla coscienza collettiva, e questo – per dir così – in due versanti: sia nel versante di apologeta e sostenitore dei poteri vigenti, di garante del consenso, o almeno della passività, delle masse (un ruolo svolto in passato soprattutto dalle religioni e dall’ignoranza e dalla scuola), ma sia anche nel versante della critica allo stato di cose presente (un ruolo svolto dalla stampa e dall’editoria di opposizione, da settori di scuola o università o anche da isolate figure di grandi intellettuali); faccio notare che questa seconda modalità, quella critica, non era meno preziosa della prima, perché garantiva la dinamicità del sistema e le sue possibilità di auto-correzione), e fu situazione preziosa quanto rara quella in cui tale coscienza critica degli intellettuali poteva congiungersi organicamente con le materiali opposizioni di massa al potere vigente, prima fra tutte la lotta di classe (e furono i partiti, comunisti in specie).
4. Ora a me sembra che questa figura di intellettuale, con le funzioni che le erano connesse, sia del tutto soppressa, perché è stata interamente sussunta nella mediaticità che ci domina, e questo – si noti – in entrambi i versanti che abbiamo citato, cioè anche in quello del consenso, non solo in quello dell’opposizione.
Il consenso, o almeno la passività delle masse, è affidato ora a meccanismi assai complessi ed efficaci, primi fra tutti i media televisivi o informatici, e non certo ai singoli intellettuali di destra (deriva da questo l’attuale obiettiva miseria intellettuale di questa categoria, una miseria francamente senza precedenti: da Croce, Gentile e Prezzolini si è passati al ministro Giuli, a Sgarbi o a Bocchino, tanto per fare dei nomi altamente simbolici).
La politica del capitalismo globale in crisi è interamente ridotta a mediaticità, a comunicazione senza informazione e senza verità[1], a spettacolo[2]. Anche (o soprattutto) su questo piano Berlusconi, la sua antropologia, ha vinto.
Sono aspetti fenomenici di questa fine della funzione intellettuale dei fatti apparentemente slegati:
mi riferisco alla distruzione capitalistica della scuola e dell’università, sempre più ridotte a mera formazione professionale asservita all’industria, con effetti autodistruttivi, anche dal punto di vista economico, nel medio-lungo periodo;
mi riferisco alla crisi. o alla fine, dell’editoria di cultura (recentemente certificata con cifre allarmanti dal salone di Torino);
mi riferisco alla crisi. o alla fine, della stampa d’opinione (pensare oggi a un “Corriere della sera” capace di ospitare scritti di Fortini o Pasolini fa solo ridere per non piangere: quel giornale ospita oggi le “liste di proscrizione” di intellettuali a cui va impedito di parlare – per non dire di “Repubblica” ridotto a bollettino di guerra della NATO e di Israele).
Aggiungerei ai fatti apparentemente slegati legati a questa fine della funzione intellettuale anche la fine della democrazia rappresentativa disegnata dalla Costituzione, ma questo ci porterebbe troppo lointano.
Certo è che tutto questo ha completamente destituito la figura dell’intellettuale[3] inteso come coscienza critica del potere, che aveva segnato il Novecento (diciamo il “modello Zola”, per intenderci) e che abbiamo ancora conosciuto in Italia fino a intellettuali come Fortini o Pasolini. Oggi, se costoro non andassero in televisione non avrebbero alcuna rilevanza, così che non si può escludere che dei Fortini o dei Pasolini esistano anche oggi, solo che, se esistessero, noi non sapremmo neppure della loro esistenza. D’altronde – come ripeto spesso – non si va in televisione perché si è un importante intellettuale ma si è un importante intellettuale perché si va in televisione.
5. Ma c’è qualcosa che destituisce ancora più radicalmente la critica, anzi di fatto la proibisce. Mi riferisco al fatto che la modalità comunicativa assolutamente dominante è la pubblicità (che, come è ben noto, ha risvolti assolutamente centrali di finanziamento dei media e del web). La pubblicità è la spinta coattiva al sovraconsumo improduttivo di massa, che a sua volta è centrale come controtendenza per la riduzione di consumi legata alla riduzione dei salari e del monte salari.
Stando al celebre schema della comunicazione di Roman Jakobson, esistono sei funzioni del linguaggio, corrispondenti ciascuna a uno dei sei elementi presenti in ogni comunicazione. Ebbene: la funzione comunicativa attivata dalla pubblicità è la Funzione conativa, o persuasiva, quella del convincimento e della retorica, che punta a influenzare il destinatario e a determinare le sue reazioni; ma tale funzione è, sia logicamente che pragmaticamente, opposta alla Funzione metalinguistica, quella della critica in merito al messaggio, legata dunque al codice, che implica analisi e giudizio del messaggio da parte del destinatario, insomma la sua capacità di riflettere sul messaggio e di sottoporlo a critica. Insomma perché la Funzione conativa, o persuasiva propria della pubblicità possa funzionare, la funzione opposta, la Funzione metalinguistica o critica, deve essere completamente disattivata, e d’altronde se non accadesse questo nessuno potrebbe credere che un dopobarba garantisca capacità seduttive, che il Mulino Bianco significhi genuinità e tradizione, che possedere un SUV renda un eroe nel deserto, e così via (o più semplicemente che le creme di Vanna Marchi facciano dimagrire).
Ma allora l’attacco alle capacità critiche delle masse è direttamente proporzionale alla quantità e alla qualità della pubblicità: la quantità è davvero immensa e pervasiva e riempie tutte le nostre ore e i nostri luoghi, ma non è da sottovalutare che anche la qualità è talvolta eccelsa perché risultato di massicci investimenti di forza-lavoro intellettuale.
Questo significa che a livello delle grandi masse la capacità critica non è solo emarginata ma è efficacemente contrastata e – direi – proibita. La società del consumi opera una quotidiana e pervasiva pedagogia dell’abbandono della capacità critica, e di ogni critica.
6. E tuttavia, all’interno della società dello spettacolo, esistono compiti residui affidati all’intellettualità, beninteso nella sua attuale e misera configurazione: primo compito fra tutti oggi è creare il consenso alla guerra che – in quanto fulcro e centro dell’Occidente in agonia – richiama tutte le energie anche intellettuali disponibili, grattando (per dir così) anche il fondo del barile.
È stato così nella Prima Guerra mondiale (che è il vero precedente storico della crisi attuale), in cui l'”interventismo” ha svolto un ruolo decisivo. Dietro le “radiose giornate di maggio” che forzarono la mano al Governo e a Giolitti e portarono l’Italia in guerra, c’erano la monarchia e le fabbriche di armi, ma non si può sottovalutare il ruolo degli intellettuali, come D’Annunzio, ma anche Marinetti (“la guerra sola igiene del mondo”), Papini, Prezzolini, ecc.
Né dobbiamo mai dimenticare che anche nel ’14-’18 è esistito (come esiste oggi) un interventismo democratico, primo fra tutti un grande intellettuale come Salvemini, ma anche Bissolati, Ernesto Rossi, Battisti, i repubblicani, ecc. (per non dire di Mussolini[4]), che sosteneva la “guerra giusta” a sostegno delle “democrazie” francese e britannica contro gli autoritari Imperi austro-tedeschi.
È l’estetizzazione della guerra, che è necessaria alla guerra non meno dei cannoni.
Oggi a sostenere le ragioni dell’Europa guerresca non potevano certo esserci scritti di intellettuali o comizi fatti di parole e idee, ma invece un talk show di personaggi, soprattutto televisivi, di attori/attrici, di cantanti, tanto meglio se apprezzati a sinistra e fra i pacifisti.
Questo talk show guerresco che, cambiate tutte le cose che sono da cambiare, corrisponde al 24 maggio del 1915 dell’interventismo, è stato la manifestazione indetta da “Repubblica” e da Michele Serra il 15 marzo a piazza del Popolo a Roma: l’arruolamento per la guerra degli intellettuali nella loro attuale forma.
Di quella manifestazione ci siamo già occupati, e sulle colonne di “Transform”, non mi ripeterò dunque qui.
Ribadisco solo il carattere niente affatto innocuo dell’appello di “Repubblica” firmato da Michele Serra, benché quell’appello sia stato definito “l’appello del nulla” per la sua assoluta vuotaggine e vaghezza («Una grande manifestazione di cittadini per l’Europa, la sua unità e la sua libertà. Con zero bandiere di partito, solo bandiere europee. Qualcosa che dica, con la sintesi a volte implacabile degli slogan: ‘Qui o si fa l’Europa o si muore’»).
Ma è del tutto evidente che chiamare a schierarsi “per l’Europa”, dopo la decisione di Von der Leyen e soci di stanziare 800 miliardi per le armi, e senza dire una sola parola né a sostegno delle prospettive di pace in Ucraina né di condanna del massacro in atto a Gaza (con armi europee e italiane) significa, né più né meno, che schierarsi per il riarmo e per la guerra. In questa operazione sono state mobilitate a fondo tutte le diverse articolazioni del potere politico[5] e del potere mediatico (che sono sempre più un unico potere), come accade – appunto – in una “mobilitazione generale”; e questo ci fa correre brividi nella schiena perché la “mobilitazione generale” è ciò che sempre precede una guerra.[6]
La storia giudicherà duramente questo silenzio, fatto di ipocrisia, ancora peggiore di quello di Pio XII, e condannerà chi si è girato da un’altra parte e ha fatto finta di non vedere il massacro.
7. Ciò su cui vorrei richiamare l’attenzione è il fatto che la guerra chiama sempre il nazionalismo, e viceversa, che il nazionalismo ha in sé la guerra; questa volta si tratta di nazionalismo europeo occidentale cioè dell’Occidente, nel senso richiamato con Trump da Giorgia Meloni: “All’armi! All’armi siam occidentisti!”.
Nel nazionalismo c’è, oggi come ieri, un insopportabile fondo di razzismo. Il razzismo è sempre la vera base di ogni nazionalismo, nel nostro caso si tratta di suprematismo bianco (su cui ci dirà cose importanti – come il suo libro – Alessandro Scassellati).
Il paradosso è che si tratta di un razzismo suprematista culturale, se si potessero coniugare in una stessa espressione razzismo e cultura
Per convincersene basta considerare cosa hanno detto fra gli applausi nella piazza del nulla di “Repubblica” due degli intellettuali di riferimento, Scurati e Vecchioni (ma altri interventi sono stati ancora peggiori).
Antonio Scurati si è lasciato andare a una contrapposizione fra “noi” (buoni) e “gli altri” (no) in un discorso definito «intervento perfetto» da un post di Enrico Mentana[7]. Quell’intervento lascia davvero basiti, perché francamente non ne azzecca una, cioè nessuna delle esclusive di “bontà” che Scurati attribuisce a noi europei buoni corrisponde a verità.
Vediamole una per una: «Non siamo gente che invade paesi confinanti, non siamo gente che rade al suolo le città»: Scurati scorda il bombardamento di Belgrado iniziato il 24 marzo del 1999 e durato 78 giorni (2.500 morti civili, di cui 89 bambini, 12.500 feriti, senza contare i morti per leucemie e altri tumori causati dall’uranio impoverito); a quel massacro, privo di qualsiasi legittimità ONU, partecipò il I Governo D’Alema con vice-presidente Mattarella[8].
Continua Scurati: «Non massacriamo e torturiamo i civili con gusto sadico»: forse non lo facciamo noi (e Genova Bolzaneto 2001? La Questura di Verona? Il carcere di S. Maria Capua Vetere? ecc.), ma di certo lo fanno per noi i libici (da Minniti in poi) noi paghiamo e armiamo proprio affinché blocchino con mezzi feroci i migranti diretti in Italia.
«Non deportiamo bambini per usarli come riscatto». Vedi punto precedente.
E ancora: «Non siamo gente che deporta clandestini in catene a favore di telecamera»: no, noi siamo gente che più semplicemente li fa morire in mare. In occasione del 3 ottobre 2024[9] la Fondazione ISMU ETS ha fatto presente che, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), si contavano a quella data almeno 1.452 morti nel Mediterraneo, con una proiezione a fine 2024 di poco inferiore a 2.000. Nel decennio dal 2014 al 2023 hanno perso la vita in questo modo almeno 29.000 persone. Una guerra, la più vile delle guerre contro i più poveri del mondo.
«Non tagliamo finanziamenti ad associazioni umanitarie»: no, facciamo di peggio, cioè mettiamo fuorilegge e perseguitiamo le associazioni umanitarie più attive per la salvezza dei migranti in mare.
«Non neghiamo la scienza»: ma definanziamo sistematicamente la Ricerca e l’Università pubblica, portandole al collasso, magari per destinare quei fondi al riarmo.
«Non umiliamo in mondovisione il leader di un paese che combatte per la propria sopravvivenza»: sarà, ma Milosevic è stato fatto morire in carcere senza condanna nel 2006, nel 2011 Gheddafi fu strangolato e – si dice – stuprato dopo l’intervento armato francese (complice l’Italia), nel 2013 Saddam Hussein fu impiccato dopo un processo-farsa, ecc.
«Non vogliamo essere così. Lo abbiamo fatto, fino a 80 anni fa, – conclude Scurati cioè grosso modo fino al 1944 – ma proprio per questo abbiamo smesso». Abbiamo smesso?
La domanda da porsi è la seguente: come può un fine intellettuale come Scurati (che io considero fra i massimi narratori italiani) bendarsi gli occhi di fronte agli orrori italiani e europei e affermare con tanta sicumera la superiorità morale dell’Italia e dell’Europa sul resto del mondo?
Scurati non è certo privo di laurea, come il Ministro della Cultura [sic!] Giuli, e non vanta una laurea farlocca, con esami in serie fatti la domenica, presso l’università telematica, come la Ministra del Lavoro Calderone. E allora? Perché arriva a dire ciò che ha detto?
C’è dunque una sola risposta possibile: esclusa in questo caso l’ignoranza[10], resta solo l’interiorizzazione del suprematismo “bianco”[11], di una differenza radicale, ontologica, fra “noi” e “loro”, a noi (europei, bianchi, dominanti) si perdona tutto, semplicemente perché loro non sono esseri umani. Si spiega solo così anche l’assordante silenzio degli oratori di piazza del Popolo sul massacro in atto a Gaza e in Palestina. Questo silenzio complice sarebbe impensabile se i palestinesi fossero “come noi”, cioè europei e “bianchi”. Già il presidente dell’ONU U-Thant disse a suo tempo che Hiroshima sarebbe stata impensabile se si fosse trattato di sganciare la bomba su una popolazione di bianchi.
Anche l’incredibile apologia del carattere “guerriero” che Scurati rimpiange fa parte di questa ideologia. Lamenta Scurati che siamo diventati imbelli, incapaci di mettere in gioco la nostra vita nella guerra come i veri uomini sapevano fare, insomma vigliacchi, un apparato concettuale ipermaschilista a conferma che il maschilismo è parte essenziale della guerra.
Peggio ancora Roberto Vecchioni, che ha detto in piazza del Popolo, senza arrossire di vergogna: «Ora chiudete gli occhi e ascoltate questi nomi: Socrate, Spinoza, Cartesio, Hegel, Marx, Shakespeare, Cervantes, Pirandello, Leopardi. Ma gli altri le hanno queste cose?».
E ancora, rivolto ai giovani: «Siate convinti che non esiste corrispondenza tra pace e pacifismo. Non si può accettare qualsiasi pace. Pacifisti siamo noi perché teniamo alla nostra cultura. La cultura dovrebbe finire qui perché la cultura dovrebbe essere nostra e basta, anzi, è nostra.» Ma la cultura è tale proprio perché appartiene a tutti e a tutte, non è affatto “nostra” né può esserlo mai, giacché essa nasce dalla critica, dall’incontro, dalla contaminazione e dallo scambio, ed è sempre stato così
Troppo facile criticare in questa sede elenco di Vecchioni, al tempo stesso protervo e infantile.
Come si può isolare dall’Oriente (anzi: contrapporre ad esso) la cultura greca, la matematica, la medicina, l’astronomia, la letteratura dell’Europa? Le piramidi non sono cultura? Tolomeo ha insegnato geografia e scienza per molti secoli al mondo compreso l’Occidente. Né la scrittura alfabetica né la numerazione decimale furono inventate a Parigi. La biblioteca di Alessandria non era in Piemonte, né la grande cultura ellenistica parlava inglese. I filosofi greci sono arrivati in Europa non recta via da Atene a Roma ma passando per i traduttori arabi, Aristotele sarebbe forse per noi sconosciuto senza Averroè, e basterebbe leggere l’elenco degli “spiriti magni” nel canto IV (vv.142-144) della Divina Commedia (che Vecchioni in quanto professore dovrebbe avere insegnato per anni): «Euclide geomètra e Tolomeo,/ Ipocràte, Avicenna e Galïeno,/ Averoìs che ’l gran comento feo.»
L’Umanesimo e il Rinascimento nascono sulla base dei saperi e delle persone che vennero da Bisanzio (cioè da Istanbul), dopo la caduta dell’Impero romano di Oriente nel 1453 (un impero, quello d’Oriente, che – non lo si dimentichi – durò per un millennio dopo la fine di quello d’Occidente).
Ed è un prodotto dell’Europa di Vecchioni il cristianesimo? Gesù di Nazareth non è nato in Brianza, e San Paolo, il vero fondatore del cristianesimo, era un ebreo fariseo nato a Tarso nell’Est dell’attuale Turchia. La cultura ebraica è riducibile all’Europa? Sant’Agostino era un africano, vescovo di Ippona (oggi Annaba in Algeria) e nato ancora più a Sud a Tagaste (dunque con ogni probabilità non era di carnagione rosea). Nell’elenco, un po’ fazioso e un po’ infantile, di Autori proposto da Vecchioni (tutti maschi, bianchi, morti) mancano Maometto e Maimonide, mancano Confucio e Gandhi, mancano Budda e Malcom X, ecc.
Per non dire della letteratura stricto sensu che Vecchioni ignora mancano, forse per la colpa di non essere europei, Borges, Garcia Marquez, Philip Roth, Emily Dickinson, Toni Morrison e Katherine Mansfield, e manca la giapponese Murasaki Shikibu l’autrice di quello che forse è il più antico romanzo del mondo Genji Monogatari (XI secolo). E mancano naturalmente Tolstoj e Dostoevskji, giacché (come si ricorderà) questi Autori russi sono stati proibiti anche da noi (come nell’Ucraina di Zelensky) assieme alle musiche russe e alla partecipazione dei gatti russi alle mostre feline internazionali.
All’elenco eurocentrico dei tanti che la pensano come Vecchioni manca il mondo, né più né meno, e sarebbe solo un possibile oggetto di satira, se non fosse che questo demenziale eurocentrismo suprematista si riflette nelle nuove direttive per l’insegnamento della storia del duo Valditara-Galli della Loggia per conformare alla guerra i nostri ragazzi.
Nella sua ministeriale ignoranza il Ministro Valditara ha dichiarato: «L’impero romano distrutto dagli immigrati…». Il poveretto non sospetta neanche che i migranti non hanno affatto distrutto l’impero di Roma ma, al contrario, l’hanno costruito e governato per secoli. A cominciare dal mitico fondatore Enea che era un profugo di guerra venuto dall’Asia (Minniti e Piantedosi l’avrebbero respinto in mare, Meloni l’avrebbe deportato in Albania).
L’elenco di imperatori e di papi non nati ai Parioli, e neppure in Brianza, sarebbe anche in questo caso troppo lungo per essere letto da Valditara e Galli della Loggia.
l’imperatore Claudio nacque a Lione (come nascerà a Lione Caracalla), Traiano nacque in Spagna come Adriano, Settimio Severo a Leptis Magna (Libia), Alessandro Severo in Libano, Massimino detto il Trace (la Tracia è fra la Bulgaria e la Grecia) sembra che non mise neanche mai piede a Roma, gli imperatori Gordiani venivano dalla Frigia (Anatolia), Marco Giulio Filippo imperatore con suo figlio dal 244 al 249 fu detto – chissà perché? – Filippo l’Arabo, Claudio II detto (chissà perché?) il Gotico veniva da Sirmia in Illiria, e la lunga serie degli imperatori Illiri arriva fino a Diocleziano (imperatore dal 284 al 311), Costantino veniva da Naissus, cioè oggi sarebbe un serbo, e la lista degli imperatori (e anche dei papi) non trasteverini è, con buona pace di Valditara, infinita.
Mi limito a consigliare a tutti/e un fondamentale libro di Josephine Quinn, che insegna Storia antica all’università di Oxford , intitolato Occidente. Un racconto lungo 4000 anni (Feltrinelli), che decostruisce completamente l’idea di civiltà autonome e separate, a “canne d’organo”, dimostrando invece la continua contaminazione e i reciproci rapporti. Ma anche il libro della Quinn è certo troppo lungo per poter essere letto da Valditara e Galli della Loggia.
Per sostenere la guerra è venuto dall’Europa anche l’invito a: CITO: «promuovere una comprensione più ampia fra i cittadini di minacce e rischi (…) con programmi educativi e di sensibilizzazione, in particolare per i giovani, volti a migliorare le conoscenze su sicurezza, difesa e importanza delle forze armate (…) a rafforzare la preparazione e la prontezza civile e militare ».
Insomma: educhiamoci, ed educhiamo in particolare i giovani, alla guerra.
Il cerchio della conformazione dei giovani alla guerra aspira a chiudersi con le nuove “Indicazioni Nazionali” per lo studio della storia nelle nostre scuole a cui ha provveduto il duo Valditara-Galli della Loggia. Oltre all’abolizione della cosiddetta “geo-storia”, si propone fra l’altro: CITO «La centralità della storia d’Italia e dell’Occidente, con approfondimenti sui popoli italici, la civiltà greca e romana e i primi secoli del Cristianesimo. Alle medie storia europea e degli Stati Uniti [sic!] per mettere bene in risalto le nostre origini»[12] [sic!], e siano messe al bando le pericolose «narrazioni globali», «meglio approfondire la nostra storia e quella delle aree con cui abbiamo avuto rapporti profondi, piuttosto che nozioni superficiali su Cina o India», non sia mai che le nostre classi, già colorate dalla presenza di bambini asiatici o africani, sappiano qualcosa del mondo da cui i neo-italiani provengono. E – si noti – tutto ciò si dovrà svolgere nella forma più trita cioè come “narrazione” (contraddicendo così tutta la storiografia contemporanea e decenni di riflessioni pedagogiche sullo studio della storia), anche se: «Particolare importanza sarà attribuita alla memorizzazione di poesie, cominciando con composizioni semplici come filastrocche e scioglilingua (…).»[13]
8. Si tratta, ancora una volta, della riproposizione servile di un comando americano, la linea didattica cosiddetta “from Plato to Nato”, già negli USA superata e sottoposta a critiche feroci quanto fondate: «I corsi sulla “Storia della civiltà occidentale” (ribattezzati colloquialmente “from Plato to Nato”) si diffusero nelle università americane nella seconda metà degli anni Cinquanta, in piena Guerra fredda, con il dichiarato intento di consolidare un’alleanza politica, culturale e militare tra le “nazioni libere” in contrapposizione all’Unione Sovietica e al movimento comunista. Tuttavia, la storia “from Plato to Nato” ha avuto vita breve, sostanzialmente quella di una generazione dal 1950 al 1970.» [14]
L’argomento propagandistico della destra (e non solo) contro la cosiddetta “sostituzione etnica” rivela fino in fondo il carattere razzista di cui parliamo: il concetto di “sostituzione etnica” riesce nell’impresa di unire in sé un massimo di stupidità e un massimo di razzismo. Quel concetto infatti presuppone che esista e sia da difendere una pura “etnia” italica, la quale però non esiste e non è mai esistita. E tuttavia mi sembra necessario e urgente aprire un serio fronte di battaglia culturale su questi tema, se vero ciò che mi sembra, cioè che il pericolo della “sostituzione etnica” è popolare fra le masse e forse domina addirittura il senso comune.
Solo il fascistissimo e criminale “Manifesto della razza” del 1938 (firmato, non dimentichiamolo mai, da centinaia di intellettuali, rettori, professori) poteva scrivere a proposito degli italiani le seguenti panzane: CITO: «Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola (…) Dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione (…) I quarantaquattro milioni d’Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l’Italia da almeno un millennio (…) Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome.»[15]
Leggendo queste parole, davvero non si sa se ridere o piangere.
La verità storica è il contrario di queste balle: gli Italiani sono da sempre il risultato di mescolanze di popolazioni, dovute agli scambi commerciali e all’emigrazione/immigrazione non meno che alle invasioni. Basta guardarci reciprocamente in faccia e interrogare i nostri cognomi per convincersene. L’Italia è questa mescolanza continua di popoli e culture a cui è legata – se posso dirlo – anche intelligenza e bellezza. E questa mescolanza benedetta che è l’Italia continuerà. Si rassegni il presidente lombardo, il legaiolo Attilio Fontana[16]: che ha dichiarato a Radio Padania Libera: «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate».
se il suo DNA non andrà naturalmente estinto (come, per difendere la sanità lombarda, alcuni malnati potrebbero auspicare) i suoi nipotini e le sue nipotine avranno la pelle, i capelli e la forma degli occhi diversi dai suoi (e certamente, non è difficile, saranno più belli/e e più intelligenti di lui).
Al contrario di quanto credono i nostri piccoli Goebbels, la gloria di Roma e dell’Italia, è consistita proprio nella capacità di assimilare, di accogliere e fare incontrare persone, corpi, intelligenze, saperi, di provenienza diversa, rendendo tutti e tutte da “stranieri” cittadini[17].
9. Questo progetto di vera e propria distruzione culturale voluta dal Governo (e non solo) ha un obiettivo: non è solo che le prossime generazioni di italiani/e condividano le sciocchezze della linea storiografica Vecchioni-Scurati che abbiamo poc’anzi citato; no, è molto peggio: il vero obiettivo è che i giovani non abbiano gli strumenti conoscitivi e critici necessari per rendersi conto che si tratta di sciocchezze.
Opporsi a questi progetti è dunque compito prioritario degli intellettuali, se esistono ancora.
FINE
- Per una trattazione più articolata di questi problemi, sia consentito il rinvio a: R. Mordenti Ontologia della menzogna (informazione e guerra), Trieste, Asterios, 2023. ↑
- Cfr. Guy Debord, La società dello spettacolo (1967), Milano, Baldini Castoldi Dalai editore, 2008, ↑
- Cfr. Enzo Traverso, Che fine hanno fatto gli intellettuali?, Verona, Ombre Corte 2014. ↑
- Alla cui conversione interventista – come è noto – contribuì il massiccio finanziamento francese per la fondazione del suo quotidiano “Il Popolo d’Italia”. ↑
- Fianco a fianco senza imbarazzo, espliciti e urlanti sostenitori della guerra, à la Calenda, insieme a incerti pacifisti del PD o di AVS, e anche a tante anime belle convinte di cambiare con la propria personale bandierina della pace il senso della manifestazione. ↑
- L’operazione politico-mediatica di piazza del Popolo del 15 marzo sembra sia costata ai contribuenti romani circa 300.000 euro. La cifra è cospicua per una città che manca di posti negli asili-nido comunali, di autobus e perfino di soldi per riparare le buche. (Cfr. V. Bisbiglia, La Procura di Roma indaga sulla manifestazione di Rep, “Il Fatto quotidiano”, 27 marzo 2025, p.11). ↑
- In un post in Facebook, il 15 marzo 2025, alle ore 20:05. ↑
- Nel seguente II Governo D’Alema (23/12/99-19/4/2000) l’attuale Presidente della Repubblica Sergio Mattarella fu anche Ministro della Difesa. Tuttavia quegli eventi bellici, di cui fu indubbio protagonista, hanno provocato in lui una sorta di dimenticanza, o rimozione, al punto da spingerlo a definire la guerra in Ucraina, come «la prima guerra in Europa» dopo la fine del secondo conflitto mondiale. ↑
- “Giornata della memoria e dell’accoglienza” nella quale si ricorda il naufragio al largo di Lampedusa che costò la vita a 368 migranti. ↑
- Scurati non è certo privo di laurea, come il Ministro della Cultura [sic!] Giuli, e non vanta una laurea farlocca, con esami in serie fatti la domenica, come la Ministra del Lavoro Calderone. ↑
- Cfr. Alessandro Scassellati, Suprematismo bianco, Roma, DeriveApprodi, 2023. ↑
- https://www.orizzontescuola.it/nuove-indicazioni-nazionali-galli-della-loggia-lossessione-per-il-presente-ha-danneggiato-la-pedagogia-studiare-storia-significa-immergersi-nel-passato-non-limitarsi-a-frammenti-superficiali/ (consultato il 4 maggio 2025). Si veda anche l’intervista di Pino Suriano a Galli della Loggia al “Riformista” del 21 gennaio 2025. ↑
- https://www.orizzontescuola.it/nuove-indicazioni-nazionali-latino-alle-medie-piu-storia-e-geografia-musica-e-arte-alla-primaria-sviluppo-delle-competenze-linguistiche. ↑
- Giuliano Garavini, Studiare l’occidente ma contro chi, in: “Officina dei Saperi” 25 marzo 2025: https://www.officinadeisaperi.it/agora/politica-e-cultura/studiare-loccidente-ma-contro-chi-da-il-fatto-e-il-manifesto/ ↑
- Da: Dodicesima diposizione. fascismo e neofascismo: conoscerli per combatterli, a cura del Dipartimento Antifascismo del PRC, Roma, Bordeaux, 2024, pp.57-58. ↑
- Il quale ha dichiarato a Radio Padania Libera: «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate». ↑
- Una importante traccia di questa vera gloria passata (la cittadinanza romana per tutti i residenti) c’è invece nella nostra Costituzione, che all’art.10 terzo comma recita: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.» Questo sarebbe dunque il vero criterio per decidere chi dobbiamo accogliere in Italia, e non la maggiore o minore ferocia degli Stati da cui provengono i migranti: è davvero deplorevole che questo chiarissimo articolo 10 della Costituzione non sia entrato, neppure “da sinistra”, nel dibattito sui criteri di accoglienza, riapertosi dopo l’invenzione “albanese” di Giorgia Meloni. ↑
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