L’apocalisse e noi

di Raul Mordenti

I. Dell’apocalisse, non si può parlare che al futuro, giacché essa configura la situazione della fine di tutto, in cui nessun presente sarà più dicibile. Per questo l’apocalisse è così strettamente legata alla escatologia e alla profezia.

Eppure c’è un momento liminare il cui l’apocalisse si fa presente, un momento paradossale, come quello (breve e altamente drammatico) che nella esperienza umana si definisce “punto di morte”. In verità ciò che rende presente l’apocalisse non è l’evento della fine in quanto tale ma sono solo i suoi segni, segni premonitori, segni ambigui, segni nascosti, che si tratta, appunto, di s-velare; è questo il vero senso della parola, dal greco apo-kálypsis (ἀποκάλυψις), che significa levare ciò che copre, dunque, letteralmente scoperta o disvelamento, rivelazione. In questo senso il profeta apocalittico è l’ermeneuta del presente, che egli sa interpretare superando lo sguardo miope del quotidiano senso comune (cioè del con-senso). I segni del presente che interessano il discorso apocalittico sono i segni della fine che è contenuta e preparata dall’oggi, esattamente come un ventre gravido contiene e prepara il suo frutto.

E ci sono momenti di crisi (una parola che andrebbe sempre presupposta a completare il trinomio già emerso: apocalisse-escatologia-profezia) in cui la fine che il presente contiene e prepara si intravede più chiara, anzi si impone alla sguardo ermeneutico di chi non rifiuta di guardare la verità nascosta del mondo

II. È l’operazione compiuta da Asor Rosa, in un libro singolare e sorprendente,[1] che mette a tema l’apocalisse, non per caso dialogando, come in contrappunto, con il discorso apocalittico più celebre e diffuso della nostra cultura, quello dell’Apocalisse attribuita a Giovanni, che la tradizione cristiana ha posto (non certo per caso) alla fine del Vangelo.

Nel libro i capitoli si alternano, quelli dispari dedicati alla «parte contemporanea», quelli pari dedicati alla «parte fuori dalla storia», cioè all’Apocalisse giovannea. L’Agostino del De civitate Dei è come un testimone partecipe di questo dialogo.

Fuori dall’Occidente è datato editorialmente al 1992, ma forse – come vedremo – si può essere più precisi sulla data della sua stesura, a partire da ciò che già in esordio l’Autore scrive:

La prima ispirazione di questa ‘scrittura’ mi è venuta nei giorni tragici della fine culminante e decisiva della guerra del Golfo. Mi sembrava incredibile che potesse restare senza risposta sia l’immanità dell’evento sia l’immanità della rimozione, che subito dopo ne fu compiuta.[2]

Mi sembra significativo l’utilizzo da parte dell’Autore di questo termine genericissimo, «scrittura», per autodefinire il suo testo, che non è definibile altrimenti in quanto del tutto privo di specificazioni e di precedenti. Questa prosa non è infatti un saggio, meno che mai un saggio critico-letterario o storico, e nemmeno somiglia alla produzione più direttamente teorica e politica di Asor Rosa comparsa nelle riviste, che si può ritrovare nel volume dei “Meridiani” Mondadori[3] dedicato a lui.

Se non temessi di forzare indebitamente il testo, direi che questa è la scrittura più «fortiniana» di Asor Rosa, in cui la passione etico-politica emerge con tutta la sua forza da un periodo di passaggio,[4] si alimenta di filosofia e di teologia, dialoga con grandi testi della tradizione utilizzandoli spregiudicatamente e rende tutto ciò – appunto – una mera inedita «scrittura», priva di qualsiasi appartenenza «di genere».

Forse però si può essere più precisi sulla data di questa «scrittura»: Asor Rosa dichiara di aver scritto i capitoli dispari «prima della fine del maggio ’91», mentre i capitoli pari sono stata scritti nei mesi seguenti e completati «entro i primi giorni di ottobre». Nel testo è citata le vicenda della fine dell’URSS (gli «avvenimenti sovietici della scorsa estate») come non ancora conclusa (l’URSS fu sciolta il 26 dicembre 1991), tuttavia si cita anche «il clamoroso successo del fondamentalismo in Algeria»,[5] cioè le elezioni parlamentari per il rinnovo dell’Assemblea popolare nazionale che si tennero il 26 dicembre, e dunque credo che la stesura sia da collocare dopo quella data, direi all’inizio del 1992, dunque non a ridosso ma quasi un anno dopo la Guerra del Golfo. Questa tempistica – se non mi sbaglio – rende questa «scrittura» più meditata, più fondamentale di quanto sarebbe un testo tutto derivato dall’attualità e dalla sua emozione.

Tanto è fondata l’affermazione (poc’anzi evocata dall’Autore) in ordine alla immane rimozione di quella guerra, che è necessario per i lettori contemporanei ricordare che si tratta della cosiddetta «prima guerra del Golfo»,[6] la quale si svolse dal 18 gennaio al 28 febbraio 1991,[7] provocando 294 morti americani (di cui 124 in battaglia) e un numero di morti iracheni oscillante fra i 100.000 e i 200.000, a cui sono da aggiungere circa 50.000 vittime civili.[8] Colpisce non solo l’abissale differenza fra queste cifre ma, più ancora, l’indeterminatezza del numero dei morti iracheni, a fronte dell’assoluta precisione del computo delle vittime americane; fra “uomini e no”, solo i morti uomini, cioè gli occidentali, meritano di essere contati, gli altri sono appunto solo “altri”, residui, tutt’al più “danni collaterali”, non esseri umani.

III. Questo introduce un tema cruciale della riflessione di Asor Rosa, cioè l’assoluto squilibrio fra i contendenti, che dovrebbe rendere del tutto impossibile l’utilizzazione del termine di “guerra”. Guerra presuppone un confronto in cui si uccide e si viene uccisi, ma quando si uccide senza praticamente rischiare di venire uccisi non siamo più di fronte a una guerra ma semplicemente a un massacro:

Quando la disparità raggiunge queste vette, non si può più parlare di guerra in senso tradizionale. Viene a mancare, anche sul terreno puramente militare, il carattere di disfida , di conflitto, appunto, che ogni guerra, fino al Vietnam (nonostante tutto) ha avuto. […] Non è stata combattuta nessuna vera battaglia. È stata inflitta, piuttosto, una punizione […].[9]

Anche mentre scrivo (primavera del 2024) è in corso a Gaza la punizione collettiva di un popolo.[10] quello palestinese, privato di cibo, di acqua, di elettricità, bombardato dal cielo e dalla terra senza nessuna difesa possibile, e senza riguardo alcuno per gli ospedali, i luoghi di culto, le ambulanze, gli osservatori dell’ONU o i giornalisti, con agghiaccianti percentuali di morti fra i bambini, compresi quelli ancora nelle incubatrici. Anche questo massacro è ora definito ipocritamente “guerra”, e già questa definizione falsa configura la complicità dell’Occidente (se non bastasse la costante fornitura di armi, mai revocata in dubbio, a Israele). La guerra è ridotta a semplice massacro, anzi a genocidio, il quale appunto consiste (secondo la definizione tecnica e giuridica del termine) nell’uccidere o cercare di uccidere un popolo in quanto tale, poiché lo si considera colpevole di una responsabilità collettiva.

Scrive Asor Rosa, facendo riferimento ai misteriosi “libri” sigillati di cui parla l’Apocalissi:[11]

Anche oggi ‘nemo dignus inventus est aperire librum nec videre eum‘ [nessuno è stato trovato degno di aprire il libro né di vederlo]. Il libro, anzi i nostri libri, anche quelli del passato, si sono tutti richiusi. Il processo è andato così avanti, che non abbiamo più ‘cultura’ per leggerlo ed interpretarlo. L’apocalissi ci scorre sotto gli occhi ogni giorno, – e non ce ne avvediamo. Tutto, in fondo, è così semplicemente e sovranamente chiaro, – e tutto è così indecifrabile ed oscuro. Siamo di fronte al caso veramente straordinario di una ‘rivelazione non rivelata’. Per questo i massacri sono sotto i nostri occhi, – e noi non li scorgiamo.[12]

Questo tipo di ex-guerra divenuta ora massacro e genocidio, e neppure vista da noi, ha la sua fondazione nella Guerra del Golfo del 1991, l’inaugurazione di un atroce “modello” che ha avuto dopo di allora numerose riedizioni. Anche in questo la guerra del 1991 è fondativa: le attuali guerre, con i droni, possono essere combattute stando a migliaia di chilometri di distanza, al sicuro in una stanza, pigiando un bottone. La guerra atomica sarà combattuta così.

IV. Non a caso quella guerra del 1991 è stata definita “costituente”, perché essa ha soppresso la precedente costituzione implicita (chiamiamola così) del mondo, quella emersa dalla Seconda guerra mondiale, culminata nell’ONU e poi immobilizzata nella “guerra fredda”; quell’ordine mondiale emerso dalla vittoriosa alleanza antifascista accettava, sia pure a malincuore, l’esistenza legittima di differenze, ma ora si instaura un nuovo ordine, che non tollera più alcuna opposizione interna e nemmeno residui di autonomia esterna:

La ‘pace’ coincide con l’accettazione di questo nuovo ordine. D’ora in poi, infatti, coloro che rifiuteranno di sottostare al ‘nuovo ordine’ non potranno neppure aspirare a passare per rappresentanti di un ‘altro ordine’, essi saranno, puramente e semplicemente, i ‘nemici della pace’ […][13]

Ciò che rende quella guerra unica e diversa da tutte le altre è anzitutto il fatto che in essa:

[…] per la prima volta nella storia, tutto l’Occidente è compatto, – da Seattle a Vladivostock – e tende sempre più a coincidere con il mondo. La direzione di marcia degli ultimi cinque secoli, dal 1492 ad oggi, si rivela: il simbolo, l’elemento espansivo presente embrionalmente nel processo fin dall’inizio, ha ormai un corpo intero, diviene la realtà. Cinquecento anni di stragi, di guerre e di nefandezze, perché il seme attecchisse, diventasse messe folta e continua. Unum imperium, unus rex.[14]

Il vero soggetto di questa guerra è l’Occidente, un soggetto al tempo stesso antico e del tutto nuovo, nel senso che la guerra porta a compimento una terribile tendenza profonda presente da secoli ma finora incompiuta, arrestata, contrastata e adesso divenuta sfrenata, letteralmente assoluta, senza più vincoli o limiti. L’Occidente dichiara la guerra al mondo e, a partire dal 1991, rivendica apertamente il diritto di farlo, semplicemente perché ha la forza per farlo, dato che esso aspira a dominare, anzi a incorporare, il mondo intero.

La categoria di “Occidente” non ha più nulla a che fare con la geografia, basterebbe a dimostrarlo, che i trentacinque stati coalizzati sotto la guida americana nel 1991 erano anche paesi asiatici e africani, così come l’Alleanza del Trattato del Nord Atlantico-NATO, conserva il suo vecchio nome ma comprende oggi il Giappone e la Bulgaria, l’Australia e la Finlandia, etc.

Definire ciò che chiamo “Occidente” richiederebbe a sua volta un pensiero totalizzante (se non anche totalitario) che riassuma e ricolleghi tutto: economia e politica, modi di vita e organizzazione militare, sistemi di produzione, di incremento e distribuzione delle ricchezze e modelli di consumo, cultura e comunicazione, ideologie e valori (anzi residui e fantasmi valoriali, dato che i valori in quanto tali sono del tutto soppressi).

I motivi geopolitici, e in ultima analisi come sempre economici, di questa guerra esulano evidentemente dai limiti di queste righe. D’altra parte la rimozione sistematica delle cause della guerra (una rimozione generalizzata e insuperabile, garantita dal monopolio dei mass media) fa parte integrante dell’assetto che ci domina:

[…] ormai l’esercizio della vita in Occidente poggia sulla rimozione sistematica e di massa delle cause […][15]

E se una cosa non ha cause umane allora essa è un fatto di natura come un temporale o un terremoto, e a cose come i temporali o i terremoti non ha senso opporsi né ha senso cercare di sbarazzarsi di chi le ha provocate.

La guerra è stata naturalizzata, ciò che garantisce l’impossibilità di qualsiasi opposizione ad essa.

V. Sul piano etico-politico questa situazione segna il trionfo di ciò che Asor Rosa chiama «il principio di indifferenza»:

C’è una svolta evidente nella morale, anche in quella comune. Il tessuto sociale non è più tenuto insieme da una trama di valori ancorché precari e discutibili, ma da un insieme di convenienze, sulle quali persone definite per bene e delinquenti possono incontrarsi e ragionare insieme senza produrre scandalo alcuno. […] Per dirla in breve, io sostengo che chi fra gli occidentali non si è ‘vergognato’ almeno una volta della guerra del Golfo, potrebbe rubare ad un suo vicino, o più probabilmente lo ha già fatto.[16]

Occidente è in realtà un nome che sta per capitalismo globalizzato e trionfante. Difficile dire cosa venga prima fra la globalizzazione capitalistica e la guerra dichiarata al mondo dall’Occidente, certo è che le due cose si tengono l’una con l’altra e probabilmente sono due facce della stessa medaglia.

La vera nuova Santa Alleanza, che abbiamo visto trionfante nella prima Guerra del Golfo del 1991, non è certo quella fra i trentacinque stati impegnati contro l’Iraq (d’altra parte sarebbe improprio definire alleanza una situazione in cui un solo stato comanda e tutti gli altri obbediscono) ma una ben più determinante alleanza, quella fra tecnologia e mercato, il vero Deus absconditus [Dio nascosto] che può giudicare tutto e che nessuno può giudicare.

D’altra parte la tecnologia rappresenta il chiodo piantato sulla bara della critica. La tecnologia infatti

è contraddistinta da questa perdita progressiva sempre più accentuata di senso.[17]

Nessuna teologia mentale può far fronte a quella teologia incarnata, che è la tecnologia.[18]

l’unica fede veramente ancora attiva a livello di massa è tecnologica […].[19]

In questo assetto neo-beluino della «totale devalorizzazione»,[20] la comunicazione (non la cultura, e meno che mai l’informazione) svolge un ruolo centrale di regolazione e garanzia del consenso, o piuttosto della passività.[21]

VI. Al contrario di quanto accadrebbe in un saggio critico-letterario o teorico, una «scrittura» profetica sull’apocalisse come quella di Asor Rosa deve contenere invece anche la capacità di delineare un’evoluzione futura, deve parlare della fine.

L’Autore non si sottrae a questo dovere, e il futuro che la sua «scrittura» delinea è quello di una catastrofe:

Il ‘nuovo ordine’ sarà tempestoso e terribile. È completamente sbagliato pensare che l’Unum imperium, unus rex fondi un principio di pace. L’unicità essenziale del potere su scala mondiale è destinata, al contrario, a sconvolgere tutti i già fragili equilibri del mondo. […] Scorreranno fiumi di sangue, non si avrà pietà per nessuno. la guerra, come si è visto, sarà un elemento fondante e continuo, pre-supposto, del nuovo ordine.[22]

Alla catastrofe dell’umanità ridotta a bellum omnium contra omnes [guerra di tutti contro tutti] mancherà però – secondo Asor Rosa – anche la gloria dell’evento traumatico, trattandosi piuttosto di un progressivo e inavvertito scivolamento nel nulla, in una sorta di «palude uniforme e coatta»[23]:

L’umanità viene dal nulla e non va in nessun luogo. Questa è la più bella conquista del pensiero del nichilismo occidentale. ed è anche il disvelamento della sua propria storia e del suo senso, che l’Occidente ha compiuto […][24]

[…] il nichilismo è l’autentica Apocalissi dell’Occidente. Che l’uomo sia destinato dalla sua medesima conformazione biologica e cerebrale[25] a vivere schiacciato fra gli orrori della storia, che lui stesso produce, e la matta bestialità naturale, di cui egli il più delle volte è o vittima o complice, non è certo una scoperta di oggi. Ma la novità, […] è che oggi la progressiva naturalizzazione dell’intero processo annulla le procedure di salvaguardia ed incivilimento e pone fine per sempre alle dinamiche (individuali e collettive), con le quali si è fatto fronte di volta in volta alla violenza e alla sopraffazione.[26]

Sono infatti scomparsi i «principi regolatori», i «capisaldi» di un ordine artificiale ma efficace (variamente costituito)[27] con cui nei secoli l’umanità associata ha cercato di costruire argini al caos.[28]

Ciò che rende la catastrofe dell’Occidente inevitabile, e probabilmente prossima, è – paradossalmente – la sua stessa vittoria, cioè la cancellazione di una qualsiasi alternativa, sia pure meramente ideale, allo stato di cose vigente.

Il proprio del nostro tempo, infatti, […] è la caduta di quello spirito critico, che si ricollegava in un modo o nell’altro alla presenza, all’interno dell’Occidente, di un qualche principio oppositivo e, di conseguenza, di una contraddizione effettivamente operante (situazione che, per intenderci, è durata circa duemila anni).[29]

L’insopportabile ritornello della cosiddetta “crisi delle ideologie” (una sorta di inno al qualunquismo filosofico, e dunque anche politico) è in realtà solo il corrispettivo della soppressione del conflitto di classe, una soppressione sempre perseguita dal potere, da tutti i poteri, e ora apparentemente conseguita, mentre – sul piano della contraddizione globale fra stati, nazioni, culture e opzioni diverse – proprio il 1991 sembrava aver risolto per sempre la questione.

E la crisi, apocalittica e finale, dell’Occidente riguarda, e non può non riguardare, anche la sfera delle idee e della cultura:

È un caso che in questo straordinario, trionfante mondo imperiale tutte le forme di pensiero siano in decadenza? Che non ci siano più né letteratura né arti né filosofia né pensiero giuridico né riflessione religiosa, e che persino il cuore del sistema, – l’economia, – non alimenti un pensiero capace di guidare gli avvenimenti invece di limitarsi e seguirli? […] In questa zona un sentore di morte si sprigiona dappertutto. Si sprigiona dai volti degli amici e dai volti dei nemici. Dalla mortificazione delle masse e dall’arroganza dei potenti. Dalla disperata sottomissione dei deboli e dalla spropositata opulenza dei ricchi. Dalla patetica impotenza di chi resiste e dalla rassegnata malinconia di chi s’è lasciato andare.[30]

Come è accaduto per altri imperi (che si credevano eterni) è invece proprio la compattezza, l’univocità, la mancanza di avversari esterni e perfino di conflitti interni, ciò che costituisce un fattore estremo, e irreparabile, di debolezza dell’impero capitalistico, perché priva il sistema di qualsivoglia elemento dinamico, lo immobilizza in una situazione di mero statico dominio che pretende sé stesso come eterno. Credo che derivi da qui l’insistenza di Asor Rosa, fin dal titolo del suo libro, sul concetto di «fuori»:

la situazione è molto diversa rispetto al passato. Le alternative, – sia interne che esterne, – si sono […] estinte o radicalmente attenuate. Poiché non ci collochiamo più in un punto fuori dall’Occidente, né abbiamo la possibilità di farlo, tutta la storia dell’Occidente si deposita sulle spalle di ciascuno di noi. […] Auschwitz e Hiroshima sono entrate a far parte della nostra storia, – della storia intendo, di ciascuno di noi.

Come se senza un «fuori» non fosse possibile poggiare da qualche parte la leva del cambiamento, o almeno della speranza.

È stato detto che è più facile immaginare le fine del mondo che non la fine del capitalismo, ma a ben vedere nessuna affermazione è – per il capitalismo stesso! – più mortifera di questa.

VII. Oltre trent’anni sono passati dalla «scrittura» profetica asorosiana, e questo cambia necessariamente la prospettiva del nostro sguardo di lettori.

Noi oggi viviamo sulle sponde di un altro mare, anzi in un altro mondo, che assiste impotente alla Terza guerra mondiale in atto, sia pure “a pezzi” (ci sono cinquantanove conflitti armati nel mondo mentre scrivo), e almeno due conflitti in corso, quello ucraino-russo e quello israelo-palestinese, hanno tutte le premesse per trasformarsi in guerra globale, cioè atomica, cioè davvero finale per l’umanità associata.

L’apocalisse di cui dobbiamo occuparci e preoccuparci è dunque assai diversa da quella del libro di Asor Rosa. Colpisce molto, rileggendo oggi quel testo di trentatre anni or sono, che le prospettive di fondo siano individuate con assoluta (profetica?) chiarezza, ma che, al tempo stesso, non siano mai neppure nominate le due forme concrete in cui l’apocalisse si sta verificando sotto i nostri occhi, cioè la guerra atomica (di cui ormai le potenze in guerra parlano apertamente[31]) e l’esplodere già in atto della contraddizione fra l’economia capitalistica senza limiti e le limitate risorse della terra, da cui derivano, anzi sono già in atto, crisi ambientali irreversibili. Meno che mai è nominata (né poteva al tempo esserlo) quella che rischia di essere un’altra emergenza catastrofica del mondo, cioè l’avvento, incontrollato e privatistico, della cosiddetta Intelligenza Artificiale.

Sotto i nostri occhi tuttavia è anche l’implosione politico-economica dell’impero, certo impensabile all’inizio degli anni Novanta. Al gruppo dei cosiddetti BRICS (creato nel 2011 da Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) si sono aggiunti altri stati che rappresentano ormai la maggioranza della popolazione umana del mondo, il 27% della ricchezza, il 42% della produzione petrolifera, etc. Può reggere ancora, e fino a quando, un dominio unipolare in un pianeta così evidentemente multi-polare? Eppure basterebbe la cosiddetta “de-dollarizzazione”, cioè che i popoli si tolgano dal collo il guinzaglio, perché la crisi del capitale finanziario che governa il mondo si manifesti in modo dirompente.

Insomma la crisi che è di fronte a noi è, al tempo stesso, più concreta e più vicina in confronto all’apocalisse su cui Asor Rosa ragionava; ma ricordiamoci che esiste sempre una risposta possibile alla crisi, quella messa in atto tradizionalmente dai dominanti.

Quest’alternativa è la guerra. L’apocalisse.

FINE

Raul Mordenti

Roma, 3/5/2024

www.raulmordenti.it

https://raulmordenti.it/

  1. A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente ovvero Ragionamento sull'”Apocalissi”, Torino, Einaudi, 1992.
  2. Ivi, p.vii.
  3. A. Asor Rosa, Scritture critiche e d’invenzione, a cura di Luca Marcozzi, con uno scritto di Massimo Cacciari, saggio introduttivo di Corrado Bologna, Milano, Mondadori, “I Meridiani“, 2020. Su questo volume si veda: L. Mozzachiodi, Allo specchio del tempo: una nota su Asor Rosa. in “L’Ospite Ingrato”, 10, 2021, pp. 381–397.
  4. Forse anche professionale e personale: conclusa nel 1991, col volume Gli Autori: dizionario bio-bibliografico e Indici, l’impresa della Letteratura italiana Einaudi (iniziata nel 1982), Asor Rosa riprenderà la sua Letteratura nel 1992 con la serie, disposta cronologicamente, delle Opere.
  5. A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente, p. ix.
  6. Per distinguerla dalla seconda, non meno sanguinosa, del 2003.
  7. L’invasione irachena del Kuwait che occasionò la guerra avvenne invece il 2 agosto 1990.
  8. Le vittime dell’uranio impoverito, dell’una e dell’altra parte, non sono mai computate da nessuno.
  9. A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente, p. 33.
  10. I crimini di Hamas del 7 ottobre (e non solo) non possono certo essere ascritti come colpa collettiva al popolo palestinese nel suo complesso, esattamente come gli attentati dell’IRA non portarono (nemmeno la Thatcher) alla distruzione degli irlandesi in quanto tali o quelli dell’ETA non condussero (nemmeno Francisco Franco) allo sterminio dei baschi in quanto tali. D’altronde sappiamo (o meglio: un tempo sapevamo e dovremmo ricordare) quale origine abbia l’orrendo concetto di «colpa collettiva di un popolo» e a cosa abbia condotto nel passato.
  11. Ap., 5, 1-3.
  12. A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente, p.32.
  13. Ivi, pp.4-5.
  14. Ivi, p. 3.
  15. Ivi, p. 100.
  16. Ivi, pp. 100-101.
  17. Ivi, p.114.
  18. Ivi, p. 106.
  19. Ivi, p. 100.
  20. In cui comunque Asor Rosa trova «qualcosa di buono», cioè l’improponibilità di «un processo di rivalorizzazione fondato semplicemente sulla fede» (p.114).
  21. Per un tentativo di sviluppare questo tema, mi sia consentito il rinvio a: R. Mordenti, Ontologia della menzogna. (Informazione e guerra), Trieste, Asterios, 2024.
  22. A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente, p. 99.
  23. Ivi, p. 102.
  24. Ivi, p. 114. In un suo intervento del 2020 che mi è molto caro, Asor Rosa è tornato a chiarire questo aspetto del suo pensiero che rimanda – con ogni evidenza – a Nietzche: «Io tiro in ballo Nietzche in quanto, pensatore borghese come pochi altri, borghesi e non borghesi, rivela e svela i contrafforti pericolanti di quel sistema. Se non adottassimo nei confronti della cultura, e del mondo, questi criteri di valutazione, quanta parte ce ne rimarrebbe celata! Del resto, accanto a Nietzche, io chiamo in causa Marx e Leopardi. Si possono leggere l’uno accanto all’altro, e l’uno a sostegno dell’altro? E perché no: questo è il presupposto di ogni indagine culturale allargata. Poco importa se alla fine con questo insieme di operazioni non riusciamo a cambiare (quasi) nulla. L’importante è impostarle, motivarle e farle.» (A. Asor Rosa, Introduzione, in Letteratura e altre rivoluzioni. Scritti per Raul Mordenti, a cura di D. Fiormonte e P. Sordi, Roma, Bordeaux, 2020, pp.12-13).
  25. Rinvio a: F. Kermode, Il senso della fine. Studi sulla teoria del romanzo, con un saggio di D. Giglioli, traduzione di G. Montefoschi e R. Zuppet, Milano, Il Saggiatore, 2020.
  26. A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente, p. 116.
  27. Asor Rosa cita Agostino, Maometto e Tommaso fra i costruttori di questo, artificiale ma generoso ed efficace, “senso della storia” (Ivi, p. 115), e altrove cita naturalmente anche Marx (p. 104).
  28. Ivi, p. 115.
  29. Ivi, p. 117.
  30. Ivi, p. 102.
  31. Che si parli dell’atomica non va sottovalutato, parlarne significa che l’uso dell’atomica non è più un tabù, e l’espressione eufemistica usata («atomica tattica»), come tutti gli eufemismi, serve a nascondere l’indicibile: la potenza delle «atomiche tattiche» è superiore a quella sganciata su Hiroshima.

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